Congetture e confutazioni: dibattito con Messainlatino


Dopo giorni di discussione, oggi Messainlatino, in un post più dialogico, riassume quello che ho detto e propone una serie di confutazioni. Può essere utile riprendere uno per uno i singoli passaggi, così come proposti da MIL e analizzarli con calma (in tondo il loro testo e in corsivo e tra parentesi il mio)

Ma accantoniamo ora la questione del latino perché, per quanto importante, è solo un aspetto del problema essenziale, che è la querelle sulla perdurante legittimità canonica della Messa di sempre. Gli argomenti contrari svolti dal Prof. Grillo nella sua intervista si possono riassumere in questi termini:

  • un’unica forma rituale è condizione necessaria per la comunione con Roma; i singoli riti locali possono forse giustificarsi appunto perché locali e particolari, ma non così il vetus ordo che ha pretese universalistiche tanto quanto il novus.

  • La presenza e vitalità dei gruppi tradizionali è irrilevante, trattandosi di nulla più di una setta.

  • I frutti negativi della riforma liturgica sono di scarsa significanza (“ragionate solo di numeri”) e magari transitori (“la ‘carestia di seminaristi’ e ‘fuga dei giovani’ non è solo un dato negativo: è il segno di un travaglio necessario all’intera Chiesa”); in ogni caso collegare tali effetti con il Concilio è un post hoc ergo propter hoc, perché le cause della crisi sono ben antecedenti.

  • Le “cappe magne” o le “lingue morte” rafforzano solo forme di fondamentalismo e di intransigentismo”.

  • La frase di Benedetto XVI “ciò che è stato sacro per le generazioni passate, non può non essere sacro anche per quelle attuali” è un principio errato, che viene “non dalla teologia, ma dalla emozione nostalgica verso il passato”

(La sintesi, per quanto assai rapida, mi pare sostanzialmente fedele)

Queste affermazioni ci colpiscono non tanto per la loro spietatezza ma, non ce ne voglia il nostro illustre Contraddittore, per la loro povertà argomentativa e per l’inconsistenza logica.

(la povertà argomentativa è legata alla brevitas della intervista. Ma dietro ad ogni risposta c’è un argomento non facilmente aggirabile, che mi sembra debba essere meglio considerato, come cercherò di mostrare per ogni singola obiezione)

Iniziamo da quest’ultimo punto: negare validità all’affermazione di puro buon senso di Ratzinger, secondo cui non si può vietare oggi quel ch’era sacro ieri, è una fallacia logica perché lede il principio di non contraddizione. Il che è esiziale per un’istituzione, la Chiesa, che non ha (più) i mezzi per costringere, ma deve invece persuadere per poter essere creduta. Come osservava appunto Ratzinger nella sua autobiografia, come potrebbe la Chiesa convincermi della bontà e veridicità di quanto oggi afferma, dopo avere ripudiato quanto propugnava ieri? Quel che dice oggi, infatti, potrebbe non valere più domani. La liturgia (purtroppo per Grillo che al momento avrebbe l’orecchio del Legislatore) non può soggiacere al positivismo giuridico, secondo cui conta solo il comando della legge attualmente in vigore, pur se contrario a regole di natura di perenne e universale validità: e questa osservazione antilegalistica lasciatevela fare proprio da un aderente professionale al ‘club di avvocati e notai’, come ci sfotte Grillo (touché).

(La obiezione proposta non coglie il senso della mia affermazione. Per Ratzinger quello è il fondamento sistematico di SP, non il fondamento giuridico. Egli fa del “sacro” per una generazione ciò che resta sacro anche per tutte le successive. Ma è qui che l’argomento non funziona. Il rito romano è quello che voi spesso chiamate il “rito di sempre”. Ma la sua forma nei secoli è cambiata. Questo cambiamento non significa affatto contraddizione, ma sviluppo. Se S. Cipriano, come sembra, ha inserito per primo il Padre Nostro nella celebrazione eucaristica, ha introdotto nella forma della messa un elemento che prima non c’era. Forse già allora qualche notaio di Messainlatino avrà  obiettato che non si poteva cambiare la “messa di sempre”…Intendo dire che la forma rituale nel corso del tempo ha subito trasformazioni: una discontinuità che non ha impedito la continuità, allora come oggi. Perciò l’argomento della “sacralità” non giustifica il permanere di una forma precedente rispetto alla forma successiva, purché il passaggio avvenga con la solennità e la competenza richieste. Il positivismo giuridico non c’entra nulla: si tratta della evoluzione delle forme rituali. La forma nuova si sostituisce alla forma precedente. Una “convivenza” può essere comprensibile solo per una generazione, per garantire a tutti il passaggio graduale da una all’altra [come sostenevano Paolo VI e Von Balthasar])

Infatti, per la nota correlazione tra la liturgia (lex orandi) e fede (lex credendi), vietare, anzi perfino svilire la Messa celebrata dalla Chiesa d’Occidente e dai suoi Papi per secoli se non millenni, non è molto diverso dal negare la validità di un dogma; è un po’ come revocare la definizione dell’Immacolata Concezione o il divieto, espressamente definito infallibile da S. Giovanni Paolo II, di ordinazione femminile. Contraddicendo il passato, si inficia anche tutto quanto si pretende di insegnare nel presente e, per dirla chiara, si sega il tronco sul cui ramo si è costruito il nido.

(la similitudine tra rito e dogma non regge. Il dogma è formalmente definito, e questo vale per la Immacolata, ma non vale per Ordinatio Sacerdotalis, che non è proposizione dogmatica. Il rito serve la tradizione in modo diverso: non in una forma definitiva, sancita una volta per tutte, ma in un graduale passaggio tra forme, lingue, costumi diversi, in relazione alle culture e alla storia. Il linguaggio rituale è elementare, mentre il linguaggio del dogma è un linguaggio della riflessione concettuale. Il dogma è al servizio della esperienza rituale, fatta di Parola e di Sacramento. La correlazione tra “lex orandi” e “lex credendi” non è tra dogma e rito, ma tra atto di fede e azione rituale. Lo sviluppo dei riti non è contraddizione, smentita o tradimento, ma evoluzione e crescita)

Del pari è contraddittorio sostenere, da un lato, che sarebbe meglio “lavorare ‘su un unico tavolo’, perché tutti potessero contribuire ad arricchire ‘l’unica forma rituale vigente’” ma subito dopo aggiungere, sempre in critica a Benedetto XVI, che “La scommessa di un miglioramento reciproco tra NO e VO è stata una strategia e una teologia del tutto inadeguata, alimentata da una astrattezza ideologica”. Ma allora, da dove dovrebbe mai venire quel lavoro di arricchimento alla forma rituale vigente? E perché mai il programma ratzingeriano di reciproco arricchimento tra i due riti sarebbe un’astrattezza ideologica? E’ infatti ben noto che i sacerdoti che hanno sperimentato l’antico rito trasfondono, anche nel nuovo, un’accuratezza ed un’attenzione ai gesti rituali purtroppo non più comuni: e questa non è ‘astrattezza ideologica’, è concretezza pratica. Se c’è qui un ideologo che ragiona ‘di pancia’ e per irrazionale amore delle proprie idee, senza curarsi dei fatti e senza alcun suggerimento concreto che vada oltre divieti e persecuzioni, quello non è certo Benedetto XVI, ultimo grande Dottore della Chiesa.

(forse non mi sono spiegato bene: quando dico, da 17 anni, che l’unico modo per rimediare ai problemi è un “unico tavolo” intendo dire che si può discutere solo del rito vigente, non di quello che è stato riformato perché inadeguato. Se si costruisce, come sembrava pensare Benedetto XVI, una “concorrenza tra forme/usi diversi del medesimo rito” non si produce un “superiore equilibrio”, ma una “più grave lacerazione”. E’ proprio la storia dopo il 7 luglio 2007 a dimostrare che la differenza rituale è diventata differenza ecclesiale, spirituale, gruppo separato, setta. Quello che chiamo “unico tavolo” è il legittimo interesse, di tutte le componenti della Chiesa, di celebrare l’unico rito romano con le loro attenzioni differenziate per la lingua, per la musica, per i paramenti, in sostanza per la “forma”. Con il Rito di Paolo VI si può fare. Non si può fare con il rito di Pio V. Chi vuole il pluralismo ha la forma rituale disponibile. Un’unica forma che contiene in se tante diverse possibilità, e non due forme in conflitto a causa della loro storia: una forma che è nata per correggere la precedente  non può essere usata senza una carica aggressiva verso la chiesa che ha fatto la riforma.)

L’ideologia, nel senso marxiano del termine (per Marx l’ideologia è appunto il travisamento della realtà, surrettiziamente sostituita da mistificazioni concettuali e da idee o preferenze personali), è proprio la costante sottesa alle labili argomentazioni del Prof. Grillo: ciò traspare, evidentissimo, in quei passaggi in cui, come abbiamo visto, da un lato svilisce come irrilevanti i fatti oggettivi e statistici (la crisi nelle chiese e nei seminari conciliari, a petto della vitalità del Tradizionalismo; eppure dai frutti si giudica l’albero, insegnava Qualcuno); dall’altro lato esibisce cieca intolleranza verso il pluralismo liturgico – e verso il bene delle anime che di quel pluralismo potrebbero beneficare – al punto da rivelarsi assai più settario e intransigente di quelli che dice di voler combattere perché, nella sua testa, ‘setta non in comunione con Roma’.

(Non solo non sono settario, ma ripeto soltanto ciò che il buon senso dei teologi che hanno il dono della parola, il Card. Roche e papa Francesco ripetono da anni. Dire la verità non è essere settari o intransigenti. Io so solo che l’idea di  far valere, contemporaneamente, due forme rituali di cui una è nata per correggere l’altra non mi è sembrata una idea né fondata né efficace. Se voi dite che le mie argomentazioni sono “labili”, e che quindi sono ideologico, dovreste dimostrare in che cosa sono deboli. Forse per voi è sufficiente che non sia d’accordo con voi per dire che sono ideologico? Questa tendenza a chiamare stalinisti tutti quelli che sono in disaccordo non mi sembra una grande dimostrazione. Io voglio difendere la tradizione. Per questo non posso non contestare i tradizionalisti, che sono figli del mondo tardo-moderno nel non capire più la tradizione)

Chi è dunque ‘setta’? Il proprium della setta è l’esclusione, recidere le radici, cambiare tutto e rigettare il retaggio familiare. Ossia l’attitudine che il Prof. Grillo sceglie per sé e vorrebbe imporre a tutti. Così come settario è non arrendersi all’evidenza fattuale e in questo il Prof. Grillo fa propria la boutade hegeliana: se i fatti non si accordano con la sua teoria, tanto peggio per i fatti! Se dunque i frutti del Concilio non sono quelli promessi, minimizziamo, ignoriamo e parliamo d’altro. Nella mente di quelli come lui, la Messa di sempre è così aborrita proprio perché evidenzia a contrario il fallimento di quella moderna e rende per opposizione più visibili quei fatti antipatici (chiese vuote e sciatteria liturgica) che si vorrebbero invece nascondere.

(I fatti sono le nuove forme rituali, che nutrono la Chiesa da 60 anni. Questo passaggio era necessario, ma non è sufficiente. Voi contestate la necessità. Io invece la difendo, ma ne ammetto la insufficienza. In tutto questo non mi nascondo dietro una “messa di sempre” diversa dal rito romano vigente. La “messa di sempre” non è diversa dal Messale di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Questa è la messa di sempre che occorre far entrare in stili celebrativi nuovi, in cui non ci sia un celebrante e la congregazione di fronte a lui, ma vi sia una assemblea che celebra, con ministri e una presidenza. Qui possiamo tutti provare la trovare la “messa di sempre” purché non vogliamo “tagliare via” la storia e rifugiarci a “prima del 1963)

E’ infatti evidente che le ragioni sostanziali della lotta di cui sono bersaglio i tradizionalisti non risiedono nel fatto che essi siano malvagi, o violenti, o pericolosi, od insubordinati a Roma, o quant’altro – cioè non risiedono in ciò che essi fanno – e nemmeno in ciò che essi pensano: erano forse riottosi o perversi i Francescani dell’Immacolata?

Le ragioni di tanto astio risiedono nel mero fatto di esistere perché, esistendo, sono – siamo – la concreta smentita dell’efficacia della sbandierata rivoluzione liturgica e dottrinale, ossia siamo, per speculum ma non in aenigmate, la testimonianza tangibile del suo fallimento. E come Pinocchio lancia il martello al Grillo Parlante che lo mette di fronte alle sue contraddizioni, così gli araldi del nuovo pensiero unico liturgistico vogliono lanciare il loro martello su chi ha l’ardire di non seguirli. Con la significativa differenza che i tradizionalisti, a differenza del Grillo Parlante, in genere non cercano nemmeno di far la morale ai novatori, ma si accontenterebbero di vivere in pace la loro fede, una cum Papa nostro.

(Curiosa immagine di chi vorrebbe vivere in pace “una cum papa nostro”, ma costruendosi un papa fantoccio, una specie di papa di gomma, da adattare ai propri gusti, magari sul modello di un papa che aveva illuso i tradizionalisti di poter essere in comunione con Roma celebrando con la forma rituale che Roma ha voluto riformare perché inadeguata. Qui non è importante essere riottosi [anche se a parole talora lo siete assai pesantemente] ma essere disposti ad accettare il Concili Vaticano II e la Riforma che da esso è scaturita. Altrimenti a parola siete “una cum” ma nei fatti siete “sine” per non dire “versus”)

E se pur mai i tradizionalisti fossero davvero pecorelle smarrite, piacerebbe loro esser trattati come ha fatto Gesù (Lc 15,4-6); o meglio ancora, ricevere incontri e visite papali, con onori e lavande e baci dei piedi e quant’altro si riserva ai ‘lontani’ e ai nemici della Chiesa.

(Le pecorelle possono sempre vestirsi da lupi, ma restano pecorelle. Tuttavia cercare i lontani come modello di chi fa della “messainlatino” il proprio obiettivo mi pare un poco forzato. Un certo senso del limite potrebbe essere utile a tutti)

Infine, chiudiamo il nostro commento come l’abbiamo iniziato, su una nota irenica e di concordanza, se non con lo spirito, almeno con la lettera di un passo dell’intervista del Prof. Grillo. Il quale afferma: “La tradizione non è passato, ma futuro”. Sottoscriviamo, con due sole aggiunte (una maiuscola ed un avverbio): la Tradizione non è solo passato, ma futuro.

Il che del resto corrobora il motto oraziano di questo sito: multa renascentur quae iam cecidere (rinasceranno molte cose che caddero un tempo). Motto che abbiamo il conforto, anno dopo anno, di veder realizzarsia dispetto di grilli e pinocchi.

(La tradizione è precisamente il passaggio del passato e del presente nel futuro: è possibilità di futuro non in una forma rigida della messa, ma dell’incontro tra il Signore e la sua Chiesa, che oggi può essere celebrato in tante diverse lingue e che per questo si arricchisce della fede espressa in culture molto diverse da quella latina. Chiudo con una immagine: la tradizione vive di traduzione. Saper tradurre la esperienza rituale cristiana in una forma nuova è custodirla. Irrigidirla in una forma superata è tradirla. Non si deve mai dimenticare che proprio nella lingua che più vi piace “tradere” significa certo “consegnare”, ma anche “tradire”.)

 

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