Continuità e discontinuità tra Benedetto e Francesco


“Lo aveva già detto papa Benedetto…”

Si può osservare facilmente come, negli ultimi tre mesi, una parte consistente delle riflessioni sul nuovo papa Francesco siano state caratterizzate da una preoccupazione, più o meno interessata: comprendere il nuovo papa sulla base della tradizione dei Vescovi di Roma e, in particolare, in rapporto al suo predecessore.
Questo, ovviamente, rappresenta una legittima e anche positiva prospettiva interna ed esterna alla tradizione cristiana. Ma vi è un punto, che risulta essenziale, e sul quale occorre fermare brevemente l’attenzione.
Prima che questo tema catturasse tutte le attenzioni, la questione della “continuità/discontinuità” aveva interessato il modo di comprendere il Concilio Vaticano II rispetto alla tradizione ecclesiale precedente.
Le ermeneutiche evocate da molti contestatori del Concilio avevano introdotto una rottura insanabile tra la tradizione precedente e la Chiesa inaugurata dalla assise conciliare. Questa lettura era stata giustamente contestata in nome di una “continuità” garantita non dalla ripetizione della tradizione, ma dalla assunzione della riforma conciliare come quella discontinuità che avrebbe garantito la continuità della antica tradizione.
Vi è, dunque, una importante affermazione da salvaguardare. La tradizione può continuare grazie alla discontinuità conciliare. Tale discontinuità non è una rottura, ma una riforma al servizio della continuità della tradizione. Sbaglia dunque chi pretende di fare i conti con la tradizione presumendo di poter considerare il Concilio Vaticano II come una appendice (superflua o addirittura erronea) della tradizione stessa. Bisogna dire, invece, che chi perde il Concilio Vaticano II come mediazione, perde la tradizione stessa. Questo, ovviamente, lascia aperta la questione di intendere correttamente il Concilio, di non appiattirlo su dimensioni unilaterali o distorte. Ma ciò che la “ermeneutica della riforma” vuole salvaguardare è precisamente il vincolo che il Concilio Vaticano II rappresenta per un accesso corretto ed efficace alla tradizione.
Oggi, da tre mesi, la questione della continuità/discontinuità appare spostata sul rapporto tra papa Francesco e papa Benedetto. Anche in questo caso, sia pure mutatis mutandis, emerge la tentazione di “risolvere Francesco in Benedetto”, ossia di leggere i testi di Francesco come se fossero semplici riformulazione dei testi di Benedetto. Questo, io credo, è contrario al senso della tradizione che ci ha insegnato la storia della Chiesa e il Concilio Vaticano II.
Dobbiamo infatti riconoscere che la continuità tra i due papi passa, inevitabilmente, attraverso importanti discontinuità. Queste discontinuità non sono “rotture della tradizione”, ma atti di servizio perché la tradizione risplenda di nuova luce e di inattesa efficacia. Come ho già fatto notare in un post precedente, mettendo a paragone due Omelie di Pentecoste, lo stile dei due pontefici non offre solo “forme diverse”, ma diverse priorità e letture dei contenuti. Per questo direi che, nell’affrontare il rapporto tra i due papi, tanto più importante per la “convivenza” degli stessi a Roma, bisogna evitare di cadere in alcune trappole, che vorrei qui brevemente indicare:

a) Una prima trappola è questa: pensare che a priori, tra diversi papi, possa mutare solo lo stile e la forma, mentre la sostanza resta, necessariamente, la medesima. Questo modo di pensare risulta molto pericoloso, perché sottintende una nozione di dottrina, di tradizione, di rapporto tra linguaggio e verità che non appare più adeguato né alla tradizione della fede, né alla cultura contemporanea. Vorrei dire che anche per la Chiesa le forme sono contenuti decisivi. La liturgia continua a ripetercelo, ma noi facciamo finta di niente…

b) Una seconda trappola è questa: ritenere che la sintesi dottrinale sia sempre e solo in Benedetto, mentre in Francesco si possano trovare “battute” o “immagini”. Anche questo errore, spesso fondato sul pregiudizio che oppone il papa-teologo al papa-comunicatore, (e talvolta accompagnato da giudizi temerari su una presunta “minore intelligenza” del papa argentino) deriva da una non corretta opposizione tra contenuti dottrinali e forme linguistiche. Il “medum” è parte decisiva del messaggio.

c) Una terza e ultima trappola è questa: farsi rassicurare dal progetto (inconscio?) di leggere il magistero di Francesco solo e soltanto alla luce del magistero del predecessore. Questo è, in fondo lo stesso meccanismo difensivo con cui il tradizionalismo legge il Concilio solo nella misura in cui conferma ciò che lo ha preceduto: Sacrosanctum Concilium è buona solo in quanto ripeta Mediator Dei, Dei Verbum  solo se e nella misura in cui conferma Divino Afflante Spiritu, Dignitatis Humanae solo se non contraddice il magistero ottocentesco sulla libertà religiosa…

“Lo aveva già detto papa Benedetto” è una espressione che può sempre scoprire una preziosa continuità. Ma molto spesso è la tecnica argomentativa (e psicologica e apologetica e semplicemente ingenua) con cui ci si vuole immunizzare da una novità spiazzante: tanto dalla novità  non solo stilistica di papa Francesco, quanto dalla novità non solo formale del Concilio Vaticano II, che vuol essere pastorale per dare alla antica dottrina nuova evidenza e nuova efficacia. Di questo Concilio pastorale papa Francesco è un figlio felice, che non si vergogna affatto di avere un tale padre.

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