Contraddizione e partecipazione: il dialogo continua


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Contraddizione e partecipazione: il dialogo continua

 

Il post precedente (Amicus Praefectus...) è stato ripreso dal Blog di Matias Augé, e nei commenti a quella pubblicazione è intervenuto il prof. Silvestre, ponendomi due domande importanti, che qui riprendo, per continuare il dibattito e il confronto. Ecco il testo delle domande, cui seguono le mie repliche:

La lettura della risposta del prof. Grillo mi conduce a proporli due domande: La prima riguarda la sua frase in relazione al MP Summorum Pontificum: “Introduce un pericolosissimo parallelismo tra forme contraddittorie del medesimo rito romano”. 

Mi piacerebbe sapere dal professor Grillo come questa sua affermazione può essere compatibile sia con SC, n. 23 che parlando della riforma da fare dice espressamente: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”; e anche con IGMR, 6 quando dice: “è facile rilevare come i due Messali romani, benché separati da quattro secoli, conservino una medesima e identica tradizione. Se poi si tengono presenti gli elementi profondi di tale tradizione, non è difficile rendersi conto come il secondo Messale completi egregiamente il primo”. In realtà non si capisce facilmente come il nuovo Messale sia fedeli ai dettami della SC che chiedeva che le nuove forme scaturiscano delle precedenti, come i due Messali possono conservare la medesima e identica tradizione, e allo stesso tempo siano due forme contraddittorie dello stesso rito romano.

Per quanto riguarda il tema della partecipazione attiva mi piacerebbe sapere cosa capisce per questo concetto e se questa è solo possibile nel NO o anche è possibile in altre forme rituali. Anche penso che per capire il concetto di partecipazione attiva sia fondamentale riconoscere i principi direttivi della costituzione SC, che furono alla base della riforma e che restano fondamentali per condurre i fedeli ad un’attiva celebrazione dei misteri. Questi principi secondo san Giovanni Paolo II sono: la centralità del Mistero pasquale, la lettura della Parola di Dio e la liturgia come epifania della Chiesa in preghiera. Come ricordava lo stesso Papa: “Ora che per la maggior parte i libri liturgici sono stati pubblicati, tradotti e posti in uso, rimane necessario tenere costantemente presenti tali principi ed approfondirli” (Vicesimus quintus annus, 5). Penso che più che soffermarsi sulla partecipazione attiva in astratto sia meglio approfondire in questi principi e tradurli nella nostra celebrazione. Finalmente soltanto accennare che il vero soggetto della celebrazione è il Christus totus, il Cristo totale, vale a dire, Cristo che associa sempre la sua Chiesa. Perdere di vista questo concetto fa difficile capire due cose: prima che tutti, sacerdote e fedeli ,partecipano perché partecipano ognuno a suo modo, del sacerdozio di Cristo e per tanto partecipano di più a seconda si identifichino con Cristo tramite le parole e i gesti della celebrazione; seconda, che il soggetto associato a Cristo è tutta la Chiesa, la nozione di Chiesa universale è fondamentale e si situa prima della chiesa particolare e della comunità sia ontologica che temporalmente. Grazie mille per la attenzione.

Prof. Silvestre

Vorrei sfruttare le due questioni sollevate dal collega Silvestre – che conosco e con il quale abbiamo già discusso “viva voce” negli scorsi anni – per chiarire ulteriormente le mie perplessità nei confronti di queste letture di SC.

a) Iniziamo dalla prima: è assolutamente chiaro che SC e IGMR – ossia il testo conciliare e le premesse ad uno degli ordines più importanti della Riforma liturgica – intendono la riforma come un “atto di continuità”. La medesima Chiesa, che aveva celebrato secondo il rito tridentino, mediante un atto di Riforma, continua ad essere se stessa, anche nel e mediante il nuovo rito. La logica della argomentazione di questi due testi è, evidentemente, una giustificazione della continuità, nonostante atti di discontinuità, come sono, appunto, le “riforme”. Trovo veramente curioso che si possa utilizzare questa argomentazione, del tutto condivisibile, per capovolgere il ragionamento, sostenendo che, affermando la continuità, si deve poter ammettere che un rito e quello che lo riforma, sono parimenti legittimi. Questo non è un ragionamento, ma un sofisma, perché elimina la “storia” come fattore decisivo per evitare la contraddizione. Mi spiego. Ciò che era fino al 1969 il “rito romano”, è diventato, a partire dal 1970, una cosa diversa, restando se stesso. Nella storia si può capire bene che non vi è contraddizione tra una celebrazione del 1673 e una del 1994. Ma se nel 2010 si è preteso di poter celebrare, indifferentemente, o con il rito del 1673 o con quello del 1994, allora si crea, inevitabilmente, una contraddizione patente e inaggirabile. Poiché il bambino si veste da bambino e il vecchio da vecchio: nella storia del soggetto non vi è contraddizione. Ma se, contemporaneamente, un bambino può vestirsi da bambino o da vecchio, allora la contraddizione si può spiegare o con il carnevale o con la difficoltà del soggetto. Pertanto io trovo veramente singolare che si invochino le chiare parole di SC e di IGMR, che giustificano la discontinuità della Riforma per affermare la continuità della tradizione, al solo scopo di sostenere la contemporanea vigenza di un rito e di quello che è stato la ragione della riforma, a causa dei suoi limiti e dei suoi difetti. D’altra parte, appena si esce dalla astrazione e si va nel concreto, questo è evidentissimo: come si può ritornare ad una “liturgia della parola povera”? Come si può aver nostalgia di una preghiera universale del venerdì santo che chiama “infedeli” i fratelli maggiori? La contraddizione tra le due forme rituali appare nel momento in cui, levata la storia, si pretende di equipararle astrattamente. Questo è il tentativo pericoloso operato dal MP Summorum Pontificum, fuori da ogni tradizione, e con gli esiti inevitabilmente laceranti che conosciamo.

 

b) Veniamo alla seconda questione. La partecipazione attiva, come spesso si dimentica, è la vera ragione della Riforma Liturgica. Tutto ciò che è stato progettato da SC è al fine di promuovere una “forma di partecipazione” al mistero del culto che esca dal modello – classico per i laici – della passiva assistenza. Non dobbiamo dimenticare che ancora Mediator Dei formulava così il modo con cui i “laici” dovevano “assistere” alla messa, maturando nell’animo “gli stessi sentimenti di Cristo” in modo indipendente rispetto ai riti. Fare della liturgia i “riti e preghiere” cui tutti prendono parte – sia pure nella diversità dei ministeri – determina la esigenza di una complessiva riforma di tutti gli ordines. Per questo, osservando la storia degli ultimi 60 anni, dobbiamo riconoscere che la esigenza di “actuosa participatio”, avendo determinato la Riforma liturgica, non possa essere compatibile con gli “ordines” precedenti alla riforma. Altrimenti dovremmo pensare che la Riforma liturgica abbia inutilmente modificato sequenze rituali, testi e gesti che, già in quanto tali, potevano favorire questa forma piena di partecipazione. Il “Christus totus”, che il prof. Silvestre giustamente cita come uno dei concetti-chiave, non ammette una partecipazione solo “per classi”. Di qui discende una conseguenza molto semplice: solo con il NO si può garantire la partecipazione voluta da SC, non con il VO, visto che, per conseguirla, SC chiede che gli ordines vengano modificati. Per questo, qualche anno fa, ad una domanda che mi veniva rivolta, sulla ipotesi di partecipare ad una celebrazione secondo il VO, io risposi che SC me lo impediva: non potevo tornare ad essere muto spettatore di un rito destinato solo al clero, ma dovevo partecipare all’unica azione – di Cristo e della Chiesa – così come il NO, in continuità con la tradizione, mi consente di fare.

Le due questioni, come si vede, sono strettamente correlate. In ragione di un concetto più profondo di “partecipazione” – dove è in gioco la comune partecipazione all’unica azione di Cristo – si è iniziata 50 anni fa una Riforma al servizio della continuità della tradizione. Introdurre, improvvisamente nel 2007, una smentita di ciò, rendendo possibile ad ogni prete – senza alcuna condizione – di poter celebrare “senza popolo” indifferentemente con il rito vigente o con il rito non più vigente mi sembra un cedimento grave ad una lettura nostalgica e individualistica della tradizione, che sottrae ai Vescovi la guida della liturgia nella propria diocesi. Questo modello di “chiesa universale” è troppo funzionale all’invidualismo clericale per poter aspirare ad essere veramente credibile.

 

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