Cosmopolis
«Consigliato da un amico, verso la fine degli anni 1990 il teologo Harvey Cox, professore a Harvard, si mise a leggere il quotidiano Wall Street Journal e a consultare le pagine di economia e impresa dei settimanali Time o Newsweek, trovandovi “gli elementi di una grande narrazione sul senso profondo della storia umana, le ragioni per cui le cose sono andate male e il modo per rimediarvi: una mitologia delle origini, racconti di decadenza, una dottrina del peccato e della redenzione”»: «tassi di interesse più alti per combattere l’inflazione, non cedere alle sirene tentatrici dello statalismo e alla vertigine di stampare denaro, ma aprire ai mercati nuovi settori di attività, praticare l’ascesi in forma di rinuncia alla protezione sociale … la felicità, poi, tornerà». Daniel Cohen, Ecole Normale Supèrieure de Paris, riassumeva: «ecco il primo comandamento di mercato, “Non ce n’è mai abbastanza!”» [Stephane Foucart, «Le marché, dernière croyance de l’Occident?», Le Monde, 24/03/24, online].
È lo stesso comandamento che nella Russia di Putin manda in Ucraina a morire in media 120 soldati russi al giorno (secondo il sito indipendente Meduza), ma «la vita a Mosca dopo due anni di sanzioni: “Stiamo meglio di prima”» [Antonella Scott, Il Sole 24 Ore, 14/04/24, p. 11].
Crollata l’URSS, si è globalizzato un «sistema manageriale, di dirigenti, non un sistema capitalistico tradizionale. Questa grossa trasformazione è stata chiamata la “rivoluzione manageriale”» scrisse nel 1963 in USA l’avvocato d’impresa David T. Bazelon. «Quando cerchiamo di cogliere il carattere del nuovo ordine manageriale (nel tentativo di vedere le istituzioni che stanno sotto la carta), finiamo sempre per trovarci di fronte ad una cosa che somiglia molto alla politica intesa in senso lato» [tr.it. L’economia di carta, Comunità 1964, pp. 225 e 248]. Ovvero: il fine giustifica i mezzi. «Mercati, nove indici ai massimi storici. La spinta dei buyback», titola in prima Il Sole 24 Ore il 12 maggio.
Sul modello Thatcher, Putin, Trump, nota un amico avvocato d’impresa, nel laboratorio Italia il governo vuole il premier/amministratore delegato responsabile verso i referenti/azionisti e nominato ogni cinque anni dai cittadini/imprenditori di se stessi.
Marco Onado ci aiuta a capire recensendo Capitalisti silenziosi. La rivincita delle imprese familiari di Roberto Mania. «Non è un caso che studiosi attenti come Colin Mayer o Vittorio Coda, per citare solo coloro che hanno sollevato il problema in tempi non sospetti, abbiano rigorosamente dimostrato le degenerazioni insite nell’interpretazione acritica alla dottrina neo-liberista, cara ai manager che, con la scusa del shareholder value, intascano sontuosi bonus, aggravando fino all’estremo la sperequazione rispetto alla remunerazione media dei lavoratori. Mayer ha addirittura affermato che “l’impresa di oggi sta diventando una creatura che minaccia di distruggerci” nella sua ambizione egoistica» [«L’orizzonte lungo dei distretti», Il Sole 24 Ore Domenica, 7/4/24, p. II].
«La piccola e media impresa è la spina dorsale del sistema produttivo italiano: contribuisce in misura determinante alle esportazioni e quindi all’equilibrio dei nostri conti con l’estero, ha raggiunto posizioni di vertice in molti comparti, compresi quelli che comportano tecnologie sofisticate e in continua evoluzione e dunque un impegno costante nella ricerca e sviluppo. Anche se oggi si parla di capitalismo 4.0 e 5.0, si tratta dell’evoluzione di quell’Italia dei distretti che economisti come Giorgio Fuà, Giacomo Becattini e Sebastiano Brusco avevano già individuato negli anni 70». «Il profitto è visto come condizione fondamentale di successo e di sopravvivenza, ma non come una variabile da massimizzare sempre e comunque nel breve periodo, come invece succede nel mondo delle grandi imprese, soprattutto se quotate, in particolare nel mondo anglosassone» [ibid].
Piccole e medie imprese con animal spirits, per Keynes «ingrediente essenziale di ogni ripresa economica ma, secondo l’economista, vi sono circostanze in cui l’alleato più forte degli animal spirits è una politica economica attiva» [Dizionario di Economia e Finanza, Treccani 2012, online], vale a dire, scrive Giacomo Vaciago, «un insieme di regole e di azioni grazie alle quali il governo di un Paese fa in modo che i suoi obiettivi in campo economico e sociale siano conseguiti. Sono 4 i principali obiettivi di politica economica attiva: efficienza, equità, stabilità, crescita» [ivi]. Gli stessi dell’impresa.
Ma nel neoliberista villaggio globale, annunciò Marshall McLuhan nel 1964, “the medium is the message” e l’opinione pubblica è un libero mercato politico dove “basta che l’uccellino venga preso per l’unghietta e l’uccellino è perduto”. The Economist conferma: «straordinari mezzi di intelligenza artificiale (AI) e intricate reti di account di social media usati per creare e condividere foto, video e audio bizzarri e convincenti, confondendo fatti e finzione. Nell’anno in cui mezzo mondo ha elezioni, ciò alimenta il timore che la tecnologia possa rendere impossibile combattere la disinformazione, minando la democrazia in modo fatale» [«How disinformation works-and how to counter it», 4/0/5/24, online]. La rete ci renderà stupidi? Se lo chiedeva in una conferenza del 2014 Derrick de Kerchove, già direttore del McLuhan Program in Culture & Technology di Toronto. «Nell’era dei big data, le risposte dipendono unicamente dalle domande. Meglio imparare a fare bene le domande che a dare le risposte, benché giuste» [Castelvecchi 2016, p. 23]. «Fondamentale, però, è stabilire a quale livello di perdita di silenzio siamo disposti ad acconsentire» [p. 44]. È il nostro problema.
Fin dal 1969 sappiamo da Carlo M. Cipolla, storico dell’economia, che «il fatto di istruire un selvaggio nell’uso di tecniche avanzate non lo trasforma in una persona civilizzata, ne fa solo un selvaggio più efficiente» [Literacy and Development in the West, Harmondsworth 1969, p. 110]. Trent’anni dopo doveva ribadire: «mentre insegniamo le tecniche, dobbiamo insegnare anche il rispetto per la dignità e il valore e il carattere sacro della personalità umana. Se non vogliamo che la fine sia peggiore dell’inizio è necessario intraprendere un’azione urgente» [Uomini, tecniche, economie, tr.it Feltrinelli 1999, p. 142]. Anzitutto in Europa, di nuovo sull’orlo della guerra perché nell’Unione Europea è avamposto del mondo in transizione verso Cosmopolis.
COSMOPOLIS. La nascita, la crisi e il futuro della modernità [tr.it. Rizzoli 1991] fu pubblicato nel 1990 da Stephen Toulmin, docente di filosofia alla Northwestern University. I «due atteggiamenti verso il futuro – uno immaginativo, l’altro nostalgico – non implicano orizzonti di aspettativa diversi. La scelta è tra fronteggiare il futuro, e quindi porci delle domande sui “futuribili” disponibili, oppure indietreggiare verso di esso senza tali orizzonti e tali idee» [p. 281]. «In un sermone, pronunciato prima dell’avvento della Modernità, John Donne ricordò alla sua congregazione che “nessun uomo è un’isola”, mai toccato dal fato dei suoi simili; e la stessa cosa si può dire dei progetti tecnologici e ingegneristici. Non possono essere giudicati isolandoli dal resto dell’umanità o dagli interessi delle altre specie, la cui vita è influenzata – o magari minacciata – dalla loro esecuzione» [ivi, p. 283].
«Dobbiamo quindi guardare meno alle superpotenze e alle altre società naturalmente conservatrici, per concentrarci sulle regioni dove le strutture istituzionali sono meno rigide. In Europa, dove sono nate la teoria e la pratica dello stato-nazione, la debolezza di quest’ultimo è ora affrontata a viso aperto. La storia delle Comunità europea ci insegna come stati che in precedenza si erano affidati a stabilità tradizionali, sia dal punto di vista diplomatico che da quello interno, si siano poi dimostrati adattabili e pronti a costruire le istituzioni necessarie alla creazione di un’unione funzionale. Grazie a due tragici spasmi – le guerre del 1914-1918 e del 1938-1945 – gli europei hanno provato che la nazionalità è una base limitata per la rivendicazione di una lealtà allo stato, così come hanno fatto per la religione trecento anni fa, nella guerra dei trent’anni: si è così dato inizio ad un flusso istituzionale che ha trasformato una serie di vicini sospettosi, con rivalità economiche e memorie ostili, in un’unione economica, e prevedibilmente, in un’unità politica con il potere di gestire le lealtà comuni» [ivi, p. 285].
«Dobbiamo piuttosto distribuire l’autorità e adattarla con maggiori precisione e più discernimento: da un lato ai bisogni delle aree e delle comunità locali, dall’altro a funzioni transnazionali più vaste. E questa proposta non è astratta o ipotetica» [ivi, p. 286]. In UE è concreta.
«La vita e il pensiero saranno modellati tanto dalle attività e dalle istituzioni a livello non-nazionale – subnazionali e transnazionali, internazionali e multinazionali – che da quelle ricevute in eredità dallo stato-nazione centralizzato. Invece di deplorare questo cambiamento coinvolgendo in un’unica condanna (per esempio) le grandi aziende multinazionali e il Fondo monetario internazionale, è più utile domandarci come l’ideale del “governo rappresentativo” possa essere esteso a queste istituzioni, in modo da rendere possibile un controllo della loro attività da parte delle persone maggiormente influenzate da esse» [ivi, p. 287]. È il nocciolo della questione. «Da Hobbes a Marx e oltre, la teoria politica è stata scritta in termini nazionali e internazionali. Le nostre riflessioni sull’ordine della società, e su quello della natura, sono ancora dominate dalla immagine newtoniana di un potere massiccio esercitato da poteri sovrani per mezzo di una forza centrale; abbiamo perso il senso di tutti gli aspetti sociali e politici dove il raggiungimento degli obiettivi dipende dall’influenza più che dalla forza» [ivi, pp. 288-9]. L’UE è l’innovazione che fa eccezione.
«Spinta anche da considerazioni economiche, la graduale unificazione del diritto in Europa è avvenuta molto prima del formale progetto di comunità politica ed economica. Poiché le differenze dei bisogni e delle aspirazioni si stavano riducendo nello spazio europeo, i diritti dei diversi Paesi europei si sono avvicinati fra loro spontaneamente e naturalmente, nonostante il primato delle legislazioni nazionali». «Invece di contrapporsi, queste diverse fonti del diritto (legislazione e giurisprudenza) insieme hanno creato un nuovo sistema che non è né continentale né inglese, né tradizionale né completamente moderno, ma che si reinventa continuamente per adattarsi a nuove circostanze». «Gli studiosi del diritto europeo hanno evidenziato che molte delle sfide che attendono l’Unione europea non sono tipicamente europee. Al contrario sono insite nel modo in cui il diritto moderno si è sviluppato in un mondo globalizzato» [Tamar Herzog, Breve storia del diritto in Europa. Dal diritto romano al diritto europeo, tr.it. il Mulino 2024, p. 294]. Europa, sale della terra.
«La modernità ha stabilito che non si può fare politica senza fare filosofia, senza esercitare la forza critica e costruttiva di un pensiero rivolto all’azione. “Democrazia” è appunto, l’essenza, la verità di questa politica, perché è la lotta – consapevole, non ingenua, assunta come diritto ma anche come dovere, del soggetto singolo e collettivo, della persona e del popolo composto da liberi e uguali – della luce della ragione contro l’autorità, contro la gerarchia naturale, contro l’opacità e il segreto» [Carlo Galli, Democrazia, ultimo atto?, Einaudi 2023, p. 4]. «Si capisce che fare quadrato anche con il peggio del proprio gruppo rafforzi comunque il gruppo, ma poiché rende difficile dialogare con il meglio degli altri gruppi, allontana soluzioni comuni, che sono anche le uniche possibili» [Edoardo Lombardo Vallauri Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione, Einaudi 2024, p. 124].
Soluzioni comuni possibili in UE, anche se «non c’è forse un altro continente che disponga di così pochi fattori naturali di unità come l’Europa. La geografia non unisce un paese diviso da montagne e aperto verso tutti i mari del mondo. Non v’è altrove un numero tanto grande di lingue colte e di culture condensate in poco territorio. La nostra poi è una storia di guerre e conflitti civili, economici, religiosi». «Se dunque l’Europa deve diventare una, non sarà che grazie alla volontà esplicita dei cittadini, del loro libero consenso, mosso da valori ideali e dalla scoperta e suscitazione di interessi comuni, cioè del bene comune europeo. Solo così si potrà operare una sintesi politica fondata sul rispetto delle persone e dei gruppi, ma nello stesso tempo sulla disponibilità di persone e gruppi a compiere sacrifici per il bene comune dell’intero continente» [Carlo Maria Martini, discorso per la festa di S. Ambrogio il 6 dicembre 1991, Verso un’Europa unita?, Centro Ambrosiano 1991, p. 16].
Dopo due guerre mondiali e due genocidi scatenati da interessi di gruppo, Europa, madre delle rivoluzioni, è divenuta Unione Europea, osteggiata da interessi di gruppo, interni e esterni, eredi della «barbarie politica del XX secolo». «Fenomeni come l’olocausto e la corsa agli armamenti nucleari, secondo Lévi-Strauss, non sono accidentali. Sono i correlativi diretti dell’atteggiamento omicida dell’uomo nei confronti dell’ecologia» [George Steiner, La nostalgia dell’assoluto, Bruno Mondadori 2000, p. 42].
In Europa madre delle rivoluzioni tutto dipende da noi cittadini. Cittadini ed elettori consapevoli che «la via da percorrere è quella che passa dalla fermezza dell’attesa, dalla fiducia in un mondo futuro che sta già nascendo» [Munera, n. 1/2014, editoriale], mentre in Europa e fuori i sovranisti vogliono farci rinunciare alla primogenitura per un piatto di lenticchie, come Esaù [Gen, 25-34].
È un precedente, anzi il precedente. Resi esperti, possiamo e dobbiamo fare meglio.