Cultura civile e teologia (/10): Ipotesi di bilancio e parole impensate (G. Villa)


Univerità

Un nuovo testo di G. Villa, che prosegue nella riflessione su alcune categorie-chiave del rapporto tra cultura civile e tradizione teologica.

Cultura civile e teologia:

per un un’ipotesi di bilancio e parole impensate

 Un bilancio tra la cultura civile e la teologia richiederebbe una conoscenza specifica e dell’insieme che non ho. Mi limito pertanto al campo ristretto del pensiero filosofico e della teologia, in particolare di tali rapporti nel passato e nel presente, di possibili sviluppi dell’ultima sintesi maturata da Heidegger, stimolo al pensiero filosofico e teologico; e infine una breve incursione su tre parole “impensate”.

1. Tra la storia antica e le possibilità attuali

Ci fu un tempo in cui la teologia si insegnava in un primo momento nelle scuole cattedrali, successivamente nelle Università e ne era la parte principale, oltre che dispositivo conoscitivo che disponeva il sapere attorno a sé: era il Medio Evo. Quelle Università erano cittadelle autosufficienti del sapere, collocate nel territorio (che noi oggi chiameremmo Europa) e collegate tra loro dagli Ordini Religiosi dei Benedettini, Domenicani, Francescani e Canonici Regolari della Scuola di San Vittore. Il sapere civile e religioso era un tutt’uno in queste scuole, magari con divergenze tra di loro che confluivano nelle “quaestiones disputate”, che in alcuni casi si risolvevano nelle “dispute” appunto, oppure nel dibattito che il maestro apriva nelle singole Università e le concludeva. San Tommaso è noto anche per il modo con cui le conduceva e le finiva: “Respondeo dicendum quod”.

Immaginare che la teologia oggi possa rientrare nelle Università è un po’ difficile, visto che le loro configurazioni e operatività sono regolate da vari soggetti statali ed europei. D’altra parte un rientro dovrà fare i conti con il fatto che non esiste più da tanto tempo l’unità di un sapere condiviso.

Le forme del dibattito attuale ha diverse modalità, differenti anche da quelle del passato recente, in primo luogo la rete e le infinite possibilità che mette a disposizione. è ingenuo immaginare però che sia facile dibattere, e più ancora concludere positivamente su questioni delicate, mentre invece immagino che si possano individuare percorsi di ricerca condivisi su alcune tematiche. In verità non è facile dibattere nemmeno tra i teologi, soprattutto se si sono formate posizioni già conclamate. La storia di questi decenni ne ha recensiti diversi.

 2. Il dibattito tra il sapere civile e le Facoltà di Teologia.

 Lascia stupiti ricordare cosa sia successo nell’ultimo secolo tra il sapere civile e la teologia‒ ossia da dopo il punto critico tra il modernismo e l’antimodernismo ‒: quanto non era accaduto con la teologia nelle Università, ha iniziato ad accadere nei tempi successivi. Alcuni teologi cominciavano in Europa a intessere confronti e a sviluppare il pensiero. Anche il tempo presente riserva sorprese nel sapere di un impegno ormai consolidato a uscire da quella visione “assiale”1, che sta portando l’occidente entro un tunnel oscuro. La pluralità di significati poi che ha assunto via via la postmodernità rivela un dibattito controverso nella cultura civile con il rischio di finire ad essere l’epigono della modernità, di una razionalità sterile e ossuta, oppure di una soggettività che si perde nei meandri delle emozioni e di una resa alle sfide per cercare di uscire dalla visione “assiale”.

Già un po’ di anni fa G. Colombo scriveva: «Per la teologia il riferimento [alla verità] è irrinunciabile; anche se, dopo Heidegger, non può più essere inteso nei termini formali dell’«onto-teologia» e quindi dev’essere ridefinito»2. L’affermazione del teologo era un invito a farsene carico. Il “dopo Heidegger” si è mostrato in effetti un occasione rilevante per i teologi. Ne è nato un dibattito fecondo con i numerosi contributi del pensiero civile e delle scuole teologiche del continente. E’ motivo di stupore, dicevo, sapere che è più fecondo oggi il dibattito tra il sapere civile e la teologia rispetto a quando l’insegnamento della teologia era interna alle Università.

 3. Il pensiero di Heidegger

 Il pensiero di Heidegger abbraccia un arco di tempo assai ampio, dal 1927 con “Essere e tempo” agli anni sessanta con “Tempo e essere”. Ed è ancora più ampio a causa delle date di pubblicazione delle sue opere, prima in Germania e poi in Italia. Sta di fatto che il corpo completo delle sue opere giunge in Italia solo nei primi anni del due mila. Questo arco si è disteso all’inverosimile con le interpretazioni e le analisi linguistiche e le ricostruzioni storiche del suo pensiero. Insomma, si sono prodotti almeno due effetti sul pensiero: una estenuazione dei lettori e lo smarrimento del compito proprio del pensare: di che cosa ha parlato Heidegger e che cosa resta del suo pensiero come contributo al dibattito sulla modernità e il suo desiderato superamento?

Dopo la soggezione al “mago” di Todtnauberg3, “L’ultimo sciamano”4, bisognerà tornare all’ordinarietà della ricerca, di uno studio e di un dibattito che possa far conto del nucleo del suo pensiero per poter continuare. A questo proposito è concorde l’opinione che il suo contributo si concentra sull’idea dell’evento (ereignis)5, la tappa finale, dopo le diverse precisazioni della svolta fatta negli anni trenta. Non è però una tappa qualunque tra le tante del suo percorso speculativo, perché qui intreccia la correlazione tra uomo e mondo (Essere e tempo) e la correlazione ontologica (Tempo e essere), ed epistemologica, che nelle tappe intermedie erano considerate a sé, lasciando agli interpreti la persuasione che Heidegger fosse un esistenzialista, un umanista … e tante altre interpretazioni. In quell’intreccio insomma troviamo l’uomo, il mondo e Dio, che in effetti costituiscono la struttura classica del pensiero moderno. Egli le riprende per un superamento, ripensandole cioè da capo in una trama di correlazioni generate dall’evento.

Queste indicazioni sull’evento, pur interessanti, rimasero però un po’ generiche e non hanno generato fin ora uno sviluppo soddisfacente, soprattutto nel versante effettivo e fenomenico. Di fatto il pensiero dell’evento finora ha privilegiato or l’uno or l’altro suo elemento, con l’effetto di enfatizzare ancora una volta la distanza dell’essere o il primato del soggetto: tenerli assieme nell’intreccio delle correlazioni è il compito e la sfida ancora da realizzare. Si può dire che l’indicazione di questo suo percorso è rimasta un’ipotesi di lavoro e di questa vaghezza ne hanno qualche responsabilità gli heideggeriani d’ogni tempo.

 4. La teologia nel dibattito della cultura civile

 La teologia non è stata a guardare esternamente ciò che avveniva attorno ad Heidegger e al suo pensiero finale. Se ne è fatta interprete, prolungando le nuove istanze antropologiche, la diversa struttura ontologica delle relazioni uomo-essere e il dispositivo conoscitivo. Scrive, infatti, A. Anelli, «Non si può non vedere nei problemi ontologico, antropologico ed epistemologico una sconcertante convergenza con le analoghe questioni che hanno caratterizzato la stagione del riassetto del pensiero teologico apertasi esplicitamente nel xx secolo. Con esse ha avuto inizio il delicato e travagliato processo di metamorfosi che ha portato dalla teologia moderna a quella contemporanea: si tratta di un processo ancora in corso poiché questa metamorfosi appare oggi sempre più come un compito di cui si avverte l’urgenza e ancora in gran parte da realizzare, piuttosto che un fatto fisiologicamente compiuto. Anche il rapporto della teologia odierna con la modernità appare in tutta la sua complessità e la svolta postmoderna del sapere teologico si ritrova nella medesima polarizzazione in cui versa la filosofia, cioè divisa tra progetti rivoluzionari da un lato e riformatori dall’altro. Qui la lezione heideggeriana può rivelare una certa attualità: il modo con cui Heidegger si è scontrato con i “suoi” problemi e ciò che ha intravisto sono davvero così irrilevanti per il teologo di oggi?»6.

Di fatto, questo lavoro di studio e dibattiti è confluito oggi nel settore teologico della teologia filosofica.

 5. Le parole impensate

 La storia del pensiero di questi ultimi cinquant’anni ha fatto emergere alcune parole che prima non erano degne di considerazione del pensiero filosofico. Il sistema della cultura civile era portato a trascurarle per svariate ragioni. D’altra parte ogni epoca privilegia un certo lessico a scapito di altri. Ma quelle che andremo a considerare si possono considerare in buona parte vittime ‒ cioè povere di pensiero ‒ dell’epoca iniziale dell’occidente, l’“epoca assiale”, a vantaggio di un lessico ricco di pensiero come la logica, riconducibile all’uno e alla sua governabilità. Qui si dirà almeno tre parole, quali il dono, l’amore e la misericordia. Come si vedrà nei tre brevi cenni, la cultura civile e la teologia si compensano a vicenda: dove l’una si dimostra più avanzata nella ricerca, l’altra la sopravanza in un’altra parola. In tutti e tre i casi, la spinta alla ricerca e alla riflessione è motivata dal desiderio di uscire dal predominio della ragion sufficiente.

 a. Il dono

 La questione del dono è stata introdotta nella cultura civile in Francia da Marcel Mauss negli anni venti con ricerche e proposte di natura sociologica e giuridica. A un certo punto nei decenni conclusivi del secolo scorso arrivò alla filosofia come questione bollente nel dibattito tra J. Derrida, che negava la possibilità del dono gratuito, e J-L Marion, che invece ne riconosceva la possibilità. Entrambi arrivano alla questione del dono sulla scorta del vocabolario di Heidegger, dove dono in “Tempo e Essere” era “es gibt”, il darsi, l’accadere appunto dell’evento. Il dono era rimasto sino ad allora una parola senza pensiero, improvvisamente viene alla ribalta come centrale, sostituendo da una parte l’essere (filosofia classica) e il pensiero (filosofia moderna), e insediandosi al loro posto e dall’altra innescando un dibattito che lo arricchisce di pensiero, ma anche di verifiche su come debba essere intesa la gratuità tra il donatore e il donatario. Da una parte Derrida, che affermava che tra i due non c’è mai gratuità, e dall’altra, che la dichiarava possibile come processo di donazione, dove l’uno e l’altro e il dono stesso rimangono invisibili agli altri, per ovviare alle critiche di Derrida. Sulla questione si è innestata la teologia, sulla scorta del trattato sullo Spirito Santo, dono gratuito del Padre e del Figlio. Essa dichiara che il dono è sì gratuito, ma di una gratuità che suscita affetti e legami tra le persone e Dio stesso. La Chiesa si costituisce su tale dono e si pone nel mondo segno e anticipo di una comunione finale escatologica.

Il dibattito sul dono ha consentito ad alcuni soggetti ecclesiali di riprendere tale la questione, finalizzandolo al pensiero e all’opera dei missionari e degli operatori caritas. Anche la liturgia ha valorizzato il termine dono, in particolare nel rito romano del matrimonio nel 2008 veniva sostituito il verbo prendere con il verbo accogliere, che offre un significato maggiormente vicino al senso del dono rispetto al precedente valore di possesso.

 b. L’amore

Una seconda parola è amore, termine in realtà molto diffuso. Nella cultura civile si parla e si scrive molto dell’amore. Se ne interessano varie branchie del sapere e della tecnica e assorbono il massimo di considerazione nell’opinione pubblica: ma la filosofia no, non ha competenza, magari la religione, ma lei no; no perchè l’amore è un fatto privato, e quindi priva, non consente al pensiero in generale come la filosofia di pronunciare parole oggettive valide per tutti.

E’ successo così che dell’amore si son perse le tracce nella filosofia, l’amore è rimasto senza pensiero filosofico, il quale è nato appunto come “amore”, filia del sapere, sophia. La filosofia è diventata il sapere dell’uomo, del mondo e di Dio, secondo la triade moderna. La denuncia di questo smarrimento è formulata da J-L Marion nell’introduzione a “Il fenomeno erotico”. Le prime righe dicono così:

«Oggi la filosofia non dice più nulla dell’amore, o molto poco. Del resto meglio questo silenzio, poiché, quando ne parla, rischia di maltrattarlo o tradirlo. Si potrebbe quasi dubitare che i filosofi lo provino, se non si intuisse piuttosto che temono di non avere nulla da dire. E a ragione, perché sanno, meglio di chiunque altro, che non abbiamo più le parole per dirlo, né ì concetti per pensarlo, né le`forze per celebrarlo».7

c. La misericordia

Una terza parola, la misericordia, è venuta alla ribalta nei discorsi e negli scritti di Papa Francesco, soprattutto nel corso dell’anno del giubileo straordinario. Nel mondo religioso e non solo cattolico la misericordia è una parola centrale ed è molto usata da tempo. Nella cultura civile e in particolare nella filosofia la misericordia si usa raramente, considerandola, forse parola di parte. La cultura civile in realtà non ha avuto scrupoli ad attingere al vocabolario della teologia. Hegel, ad esempio, non disdegnò di usare il titolo più tradizionale ancora in uso fino a qualche decennio fa nella teologia, ossia, la onto-teologia (il sapere umano del Dio trascendente), trasformandolo in onto-teo-ego-logia.

La misericordia non fa parte del lessico filosofico per una ragione più antica e assieme più decisiva, quella della natura stessa della filosofia, almeno per quello che è stata sino a qualche anno fa. Il giovane ricercatore Stefano Biancu avanza la seguente ipotesi: «La misericordia potrebbe essere rimasta all’esterno dell’ambito di competenza della filosofia in quanto percepita come oggetto indisponibile e impensabile. In altri termini: se i filosofi hanno tradizionalmente considerato la misericordia come estranea al loro dominio di competenza, è perché hanno riconosciuto in essa qualcosa di non completamente dominabile: perlomeno nel quadro di alcune alternative del pensiero divenute canoniche. Si tratta delle alternative proprie a un dualismo di marca intellettualista che – dall’epoca assiale in avanti – ha profondamente segnato gli sviluppi del pensiero occidentale»8.

1 In questo contesto “assiale” è congiunto a “epoca”, “epoca assiale”, un’epoca cioè che ha posto “gli assi” del sapere, il dispositivo conoscitivo che restringe il suo campo al non contradditorio, escludendo subito il dramma dello stupore che si chiede: “perché questo e non il nulla?”. Per una trattazione più precisa e dettagliata si veda K. Jaspers, Origini e senso della storia, 1972.

2G. Colombo, La ragione teologica, Glossa, 1995, p. 614

3 Si tratta di una baita nella Foresta Nera che spesso Heidegger abitava per brevi e lunghi periodi, anche per svolgere Seminari di studio.

4 L’ultimo sciamano” è il titolo del libro scritto da F. Volpi e A. Gnoli, un titolo che riprende un apprezzamento per le capacità straordinarie di usare le parole e “sedurre” gli uditori con e capacità magiche del suo discorrere.

5 Si veda ad esempio il volume che raccoglie gli atti di un ciclo di seminari svoltosi presso l’Università degli studi di Milano tra il febbraio e il maggio del 2012 e ha come titolo La questione dell’evento a cura di M. De Martino, Aracne, 2013. Da pagina 97 si può leggere, Esperienza o tautologia? La questione dell’evento in Heidegger, di Roberto Terzi. Il testo si trova anche sulla rete con lo stesso titolo.

6A. Anelli, Heidegger e la teologia, Morcelliana, 2011, p. 59

7 J-L Marion, Il fenomeno erotico, Cantagallo, 2007

8 S. Biancu, LA MISERICORDIA «IMPENSABILE», EDUCA – International Catholic Journal of Education, 3, 2017, tratto da ACADEMIA, https://www.academia.edu/

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