Custodia della differenza e cultura dello scarto. Una questione sistematica sul ministero femminile


L’esame delle argomentazioni tomiste intorno alla “mancanza di autorità” della donna in ambito ministeriale, da me svolto nel post precedente (cfr. qui), mi ha portato ad approfondire lo sguardo su una questione decisiva, la cui soluzione permette di affrontare correttamente la apertura del ministero ordinato al sesso femminile. Vorrei formulare meglio la domanda che regge queste considerazioni: è evidente che la tradizione cristiana, profondamente immersa nella tradizione comune umana e filosofica occidentale, ha pensato la differenza tra maschile e femminile come una differenza “gerarchica” e di “autorità”. Ed è stata portata, per molti secoli, a custodire tale differenza, che allora come oggi risulta essenziale, mediante la conferma di logiche gerarchiche e autoritarie di subordinazione. La subordinazione della donna all’uomo, ci dice questa tradizione, custodisce il disegno di Dio sulla differenza tra maschile e femminile. Qui, senza volere, la tradizione recente ha subito un “déplacement” che l’ha resa non più trasparente e l’ha portata ad irrigidirsi, fino a pensare che “solo la gerarchia salvaguardi la differenza”.

Qui, a mio parere, la tradizione cristiana rischia di perdere se stessa, barattando la salvezza per un piatto di lenticchie. Vorrei cercare di mostrare come questa custodia della differenza, se pensata in modo gerarchico, finisce per confondersi con una “cultura dello scarto” che ha come oggetto precisamente la autorità femminile. Ecco in pochi passi il cuore del mio ragionamento.

a) La cultura dello scarto di oggi e di ieri

Esiste una “cultura dello scarto” che è il prodotto indiretto della società aperta, la quale formalmente garantisce a tutti libertà ed eguaglianza, ma di fatto emargina molti soggetti e non riesce ad entrare in logiche di autentica fraternità. Ma esiste anche una “cultura dello scarto” che il mondo premoderno assume istituzionalmente e che pensa una serie di “categorie” (la donna, l’incapace, lo schiavo, l’assassino, il figlio naturale e il disabile) come “privati di ogni autorità”, anche se oggetti di fraterna carità. Una parte consistente dei discorsi teologici sul rapporto tra donna e autorità risente ancora pesantemente della influenza di questa “cultura dello scarto” pre-moderna, che si alimenta di differenze di “ordine” sulle quali struttura la logica di autorità. La differenza tra maschio e femmina sul piano naturale e sociale e la differenza tra laico e chierico sul piano ecclesiale e spirituale.

b) La argomentazione teologica “di sponda”

Questo orizzonte è ancora ben presente nelle nostre riflessioni sul ruolo della donna nell’esercizio della autorità ecclesiale. Vorrei segnalare soltanto un punto qualificante: alla domanda di accesso della donna al ministero diaconale, così come formulata nell’Instrumentum laboris della prossima Assemblea del Sinodo dei Vescovi, si tende a rispondere glissando sul fatto che il diaconato è parte del ministero ordinato e potenziando piuttosto la logica “battesimale” del diaconato. Qui, a mio avviso, continua a funzionare la “cultura della scarto” che tende ad escludere la donna da ogni esercizio formale della autorità, che la tradizione ecclesiale pensa precisamente come “ministero ordinato”. Una differenza ontologica tra laici (battesimo) e chierici (ordine) si riflette pericolosamente sulla differenza tra “maschile” (autorevole in pubblico) e “femminile” (autorevole in privato).

c) La tradizione magisteriale e la cultura dello scarto

Se la differenza tra maschile e femminile viene pensata come “gerarchia”, con una sovrapposizione incontrollata tra tradizione rivelata e tradizione culturale, nessuna piramide potrà essere rovesciata: né la piramide tra laici e clero, né la piramide tra donne e uomini. Il fatto che il documento più rilevante del magistero recente pretenda di dire una “parola definitiva” assumendo la “riserva maschile del ministero sacerdotale” come facente parte della “divina costituzione della Chiesa” sembra il tentativo, non argomentato ma affettivamente imposto, di salvare la differenza tra maschile e femminile con una “gerarchia rivelata”. Qui la confusione tra differenza e scarto ha raggiunto il massimo livello di evidenza e di problematicità. Sistematicamente qui rimane aperta la questione più grande, che esercita una pressione notevole anche sulla libertà di affrontare la diversa diversa (ma non minore) dell’accesso della donna al ministero ordinato nel grado del diaconato.

Non è un caso che molti teologi, tatticamente o strategicamente, preferiscano non nominare il ministero ordinato quando parlano dell’accesso della donna al diaconato. Io credo, invece, che senza parlare del tema più ampio, non si arriverà ad alcuna soluzione soddisfacente e si resterà nella cultura dello scarto, salvaguardando una impostazione “gerarchica” della differenza tra maschile e femminile. La novità del segno dei tempi della donna che “in re publica interest” è invece il superamento della confusione tra differenza e gerarchia. Questo è un “cambio di paradigma”, reso necessario perché non si coltivino, allo stesso tempo, complessi di superiorità e complessi di inferiorità legati ad un modo di pensare che in larga parte del mondo non esiste più. Un magistero che sorreggesse questo aspetto classico della “cultura dello scarto”, che affettivamente si ostinasse ad affermare che l'”agire in persona Christi” non riguarda le donne, ma solo i maschi, non sarebbe all’altezza della missione cui è chiamato.

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