Dal celibato, al sacerdozio, alla Chiesa: sorprese vivaci da un libro triste
“Mi pare che la cosa più bella di quel libro sia il dialogo che ha avviato”. Questa giusta affermazione di Paola Lazzarini Orrù – fatta a proposito del volume di R. Sarah – Benedetto XVI “Dal profondo del nostro cuore” – mi ha subito colpito, perché mette bene in luce un paradosso, sul quale è bene riflettere con cura.
Come ho già detto in diverse occasioni su questo blog (qui e qui) e anche altrove (qui) il libro, nel tentativo di difendere una teoria fondamentalista del celibato, si espone a critiche che mettono in luce non soltanto i presupposti non aggiornati e unilaterali della analisi condotta dagli autori, ma anche la esigenza di una precisazione puntuale delle questioni sollevate dal libro. Ciò ha suscitato, per reazione, una serie di contributi riguardanti la relazione tra celibato e ministero ordinato, tra ministero ordinato e sacerdozio comune, tra atto di culto e sacerdozio e infine tra identità ecclesiale e sacerdozio comune e ministeriale. Vorrei brevemente isolare ciascuno di questi temi, intorno ai quali, per colpa e per merito del libro, abbiamo assistito al sorgere di un dibattito così vivace, come non accadeva da parecchio tempo. Presento brevemente le questioni appena enumerate, per esaminarne le grandi potenzialità per il cammino ecclesiale.
a) Celibato e ministero ordinato/sacerdozio ministeriale
Il primo livello della discussione rileva che, a partire dalla tesi estremizzata nel libro – che pretende di individua un “sacerdozio cattolico” necessariamente celibatario come una struttura invariabile della storia – facciamo fatica a riconoscere non soltanto che il celibato è una qualificazione possibile, opportuna, conveniente, ma non necessaria, bensì anche che la presunta incompatibilità tra matrimonio e ordinazione è di fatto smentita non solo dalla storia, ma dalla presenza di “diaconi permanenti uxorati” che sono ordinati dopo essersi sposati. Non a caso la posizione più estrema che si esprime nel libro guarda anche a tali diaconi con un sospetto invincibile, considerandoli come un caso di “corruzione” della tradizione. Si tratta invece della possibilità con cui, nella storia, viene interpretata la “libertà del ministro”, che può essere garantita o dalla condizione celibataria, o, in altri casi, dalla condizione coniugale. A meno che non si pensi che la libertà ecclesiale sia incompatibile con i legami. La domanda da porre oggi è: come possiamo garantire al ministro di essere “uomo libero di buone parole”? Celibato e matrimonio sono incompatibili. Non lo sono, invece, ministero ordinato e matrimonio.
b) Sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune
Come è evidente, il taglio del libro, nel suo centro pulsante, non parla anzitutto del celibato, ma del sacerdozio. E pretende di esporre una “teoria del sacerdozio cattolico” che prescinde totalmente dal sacerdozio comune o battesimale. Questo è davvero sorprendente. Perché tutto ciò che viene detto del sacerdote cattolico, del suo discepolato, del suo legame a Cristo e alla Chiesa, della sua oblazione, del suo “non vivere per se stesso”, del suo dar spazio a Dio, è una caratteristica non del sacramento dell’ordine, ma del sacramento del battesimo. Ogni battezzato è, in questo senso, vero sacerdote. Questa affermazione, del tutto centrale in LG, ricostruisce anzitutto il “lessico cattolico” e poi impone un canone al pensiero e alla azione che non permette più di “separare ciò che è unito”. L’uomo teologo – fosse anche un cardinale o un papa emerito – non può separare ciò che Dio ha unito: sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale devono essere compresi in relazione di reciprocità.
c) Atto di culto e sacerdozio
Ma non basta. La lettura del testo continuamente rimanda ad una “dimensione cultuale del sacerdote” che riguarda, anche in questo caso, non solo il sacerdote come ministro, ma il battesimo di ogni fedele. Partecipare alla azione rituale, ossia esserne parte, è dono e compito di ogni membro del corpo di Cristo. Che la azione liturgica sia “azione comune” è una nuova comprensione, che SC inaugura con grande forza, e che è totalmente assente nel testo sul celibato. Anzi, si continua a ragionare come se “solo uno” fosse il soggetto della azione. Una inadeguata lettura del sacerdozio ministeriale, che lo separi strutturalmente dal sacerdozio comune, non riesce più a comprendere la “partecipazione attiva” e perviene ad una rappresentazione caricaturale anche della Riforma liturgica. E si tratta di atteggiamenti che, per così dire, non risultano assenti nelle bibliografie – si licet parva componere magnis – dei due autori. Ma questi atteggiamenti dipendono da fattori che esigono una comprensione profonda, che sappia correlare sapientemente i tre temi che abbiamo appena illustrato. Il dibattito sul libro ha fatto dunque emergere, in modo più chiaro di prima, la necessaria correlazione tra rispetto della Riforma Liturgica e valorizzazione del sacerdozio comune. Se ti manca il secondo, fraintenderai sempre la prima.
d) Chiesa come “comunità sacerdotale”
Infine, non bisogna dimenticare che, da questa correlazione strutturale tra una celebrazione comune e una presidenza riservata, con tutta la ministerialità intermedia che risulta necessaria, scaturisce quella definizione di Chiesa che in LG 11 suona come “comunità sacerdotale”. Questo orizzonte complessivo è la grande sfida. Il recupero della iniziazione cristiana come orizzonte di dignità sacerdotale della Chiesa, che poi specifica non solo gli itinerari di guarigione, ma anche quelli di vocazione-servizio, lo fa sempre dentro questa “evidenza sacerdotale comune”. Altrimenti, il disegno di far dipendere la Chiesa solo dal sacerdozio gerarchico, vincolando questo sacerdozio gerarchico al celibato, sarebbe soltanto una regressione nostalgica a modelli di discepolato e di autorità che costituirebbero, questi sì, una catastrofe molto pericolosa. Contraddicendo il Concilio Vaticano II, sarebbero molto peggio delle critiche al papa che cerca di attuarlo.
Così, per una sorprendente eterogenesi dei fini, un libro mal riuscito, ha avuto il suo buon effetto: ha concorso a rimettere in luce tutto ciò che in esso è taciuto, eluso o negato. I suoi silenzi sono diventati parole urgenti e comuni. La sua unilaterale ostinazione a guardare solo indietro ha messo in rilievo quanto il Concilio Vaticano II ci abbia chiamato ad andare avanti, già quasi 60 anni fa, recuperando la evidenza di una natura sacerdotale che riguarda anzitutto Cristo e la Chiesa; proponendo la comprensione del sacerdozio come connotazione anzitutto del battesimo, e solo in un secondo momento dell’ordine. E facendo del celibato non la roccaforte del passato che non torna più, ma il frutto di una sapienza ecclesiale ed umana, che appartiene alla logica non della necessità ontologica, ma della convenienza umana e pastorale. Reimparare questo lessico nuovo e tradurlo in canone rinnovato implica la esigenza impegnativa di disimparare quel lessico vecchio per liberarsi da un canone troppo ingiusto. Un lessico e un canone che restano vecchi e ingiusti, anche quando sembrano scaturire dal più profondo del cuore.
Questo articolo è davvero assai interessante perché mette a nudo un tema sul quale non si è abbastanza informati, io credo. Ed è la questione del sacerdozio comune. Penso, ma potrei sbagliarmi, che neanche tutti i sacerdoti ordinati sappiano che l’intera comunità partecipante al rito liturgico sia costituita da “sacerdoti comuni” in virtù del battesimo. Occorre allora reimparare il lessico nuovo proposto dal C.V.II.
Ma chi si occupa di questo?
Ha dunque ragione il mio (giovane) vescovo quando impone a tutti i presbiteri di seguire i corsi di teologia.
Ma quelli più anziani non vogliono saperne e preferiscono mettersi a riposo.