Dalle indulgenze alla indulgenza: il testo dimenticato di papa Francesco


catellaGrilloindul

L’indulgenza, come remissione della pena temporale che sopravvive al perdono della colpa, esige una comprensione non primariamente giuridica della pena temporale, ma autenticamente antropologica e squisitamente teologica. Per la remissione della pena temporale, perciò, l’indulgenza non costituisce una via facilior, un “scorciatoia” rispetto alla conversione ordinaria. Essa rappresenta invece l’aiuto solenne dell’amore sperimentato dal corpo di Cristo e offerto alla debolezza del peccatore pentito, affinché egli possa realizzare una conversione profonda ed efficace. Se è vero che la grazia di Dio non sostituisce, ma promuove e sollecita la libertà dell’uomo, è altrettanto vero che  

L’indulgenza non sostituisce il difficile lavorìo dell’amore e non è quindi il cancellamento “più facile” delle pene dei peccati; essa è piuttosto l’aiuto della Chiesa volto a favorire l’opera sempre difficile dell’amore. L’indulgenza non facilita sostituendo e prendendo il posto della metanoia … bensì favorendo la metanoia stessa. L’indulgenza non è il surrogato dell’opera esistenziale dell’amore e della penitenza, bensì è un aiuto per quest’opera (K. Rahner, Sulla dottrina ufficiale odierna dell’indulgenza, p. 268).

 La tensione tra una teoria puramente giuridica e “contabile” della indulgenza e una visione più profondamente antropologica e squisitamente teologica di essa deve potersi mediare in una soluzione più convincente del semplice prevalere di una sull’altra. Forse è proprio la natura celebrativa dell’indulgenza, il suo farsi storica attraverso una struttura rituale, a garantire il suo rinvio all’esistenza grazie alla mediazione sacramentale. Per questo il raccordo con il suo presupposto sacramentale (la penitenza) e con il suo esito sacramentale (la celebrazione eucaristica) garantiscono in pieno la sua significatività ad un tempo sacramentale ed esistenziale.

L’insistenza con cui oggi desideriamo comprendere le indulgenza all’interno della categoria della preghiera ci deve far riflettere sulla dimensione rituale di tale pregare. Forse proprio a questo livello le ricchezza antropologiche e teologiche della nuova visione dell’indulgenza potranno saldarsi alla tradizione di una prassi che risponde a un’esigenza profondamente legata al sacramento della riconciliazione, che da esso deriva e ad esso tende. Così, in fondo a questo nostro cammino, vediamo brillare la luce di quell’incontro con Cristo che è stato inaugurato dal battesimo, da quel sacramento che è ianua sacramentorum (porta dei sacramenti) e che Agostino ha chiamato assai significativamente magna indulgentia (Enchiridion, 64, 17 (PL 40, 262).

Solo una revisione accurata del sacramento della penitenza può garantire al riferimento alla “indulgenza” quel significato teologico, che non si lascia maneggiare da categorie giuridiche di “matematica delle pene”. Tanto più se questo registro sbagliato e forzato, che traduce la “indulgenza” nella “contabilità delle indulgenze” accade non in una spazio festivo (Anno Santo o Santuario), ma nella ferialità della prova comune, e diremmo universale, di una Pandemia. La inopportunità contestuale e temporale di un riferimento alla remissione delle pene temporali non è solo un gioco di parole. Per farlo, occorre tenere ben fermo lo sguardo sul Concilio Vaticano II, come ha fatto 5 anni fa papa Francesco, inaugurando l’Anno Santo della Misericordia.

Per questo ripropongo, con alcune modifiche, la presentazione della “indulgenza” che si trova nel documento di 5 anni fa, dove viene operata una preziosa “traduzione della tradizione”, alla luce del Concilio Vaticano II. Sembra che tutti lo abbiano letto e compreso, meno che la Penitenzieria Apostolica. Una forma strana, ma non nuova, di sordità e di indifferenza curiale.

(Il testo è tratto, con alcune modifiche, da A. Catella, – A Grillo, Indulgenza, Storia e significato, San Paolo, 2015, 71-82).

La teologia dell’indulgenza nella Bolla Misericordiae Vultus (2015) di papa Francesco

Esamino la Bolla che è stata presentata nella Domenica in Albis, 12 aprile 2015, per indire l’Anno Santo a partire dal giorno 8 dicembre 2015, fino alla domenica del 16 novembre 2016, festa di Cristo Re e conclusione dell’Anno liturgico. I tratti salienti di questo documento, utili per comprenderne la lettura della “indulgenza” sono i seguenti: la centralità della “misericordia”, come qualità specifica della ecclesia e come svolta del Vaticano II; la rilettura della indulgenza all’interno della ecclesiologia disegnata nella Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium; […] il definirsi di un “programma di pontificato” della Chiesa “in uscita”, intesa come “campo profughi”.

1. Un orizzonte di “misericordia” legato al Vaticano II

La bolla con cui papa Francesco ha indetto il Giubileo della misericordia – Misericordiae Vultus (=MV) – offre un punto di appoggio per comprendere più in profondità la “logica di misericordia” su cui è strutturato l’Anno Santo e può diventare il coronamento di un passaggio epocale, nel quale l’eredità conciliare si realizza in una Chiesa sempre meno autorefenziale, disposta a fare della misericordia la sua cifra identificatrice e fondante. In questo disegno di raffinata comprensione teologica e pastorale – che solo un risentimento autoreferenziale non saprebbe riconoscere – il percorso può essere illuminato anzitutto da una “memoria del Concilio Vaticano II” da intendersi precisamente come inaugurazione di una “prassi di misericordia”, secondo la quale anche il Giubileo è un modo della “chiesa in uscita” e della Chiesa che si riconosce ”campo profughi”, con l’annuncio di una parola di perdono realmente estesa a tutti gli uomini di buona volontà.

Il testo della Bolla introduce, fin dai primi suoi numeri, il contesto conciliare come prospettiva di interpretazione del Giubileo e della indulgenza. E lo fa in modo chiaro e inequivocabile: sottolineo in corsivo le espressioni più potenti:

 Ho scelto la data dell’8 dicembre perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò infatti la Porta Santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso della sua storia. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre.” (MV, 4)

 Le parole-chiave, in questo bel testo, sono: il Concilio deve restare vivo nel suo intento di “tradurre” la tradizione e di abbattere le muraglie della autoreferenzialità. Anche nei confronti della “indulgenza” il compito di “tradurre la tradizione” risulta centrale.

Altrettanto importante è la scelta delle citazioni operate dalla Bolla: dai due “discorsi estremi” del Concilio – il primo, quello di apertura, di Giovanni XXIII e l’ultimo, quello di chiusura, di Paolo VI – sono stati scelti quei passaggi nei quali il Vaticano II è letto come “atto di misericordia”, in chiara contrapposizione a due possibilità che tanto 50 anni fa quanto oggi continuano a restare disponibili alle opzioni ecclesiali. Ascoltiamo anche questo passaggio, con le opportune sottolineature:

 “Tornano alla mente le parole cariche di significato che san Giovanni XXIII pronunciò all’apertura del Concilio per indicare il sentiero da seguire: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore … La Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati» 1. Sullo stesso orizzonte, si poneva anche il beato Paolo VI, che si esprimeva così a conclusione del Concilio: «Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio … Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette … Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità» 2“ (MV, 4)

 Anche queste citazioni sono del tutto illuminanti della “mens” con cui Francesco si apprestava a celebrare ilGiubileo Straordinario. Da un lato, infatti, egli sottolineava la necessaria “scelta di campo” – squisitamente conciliare – che privilegia la “medicina della misericordia” rispetto alle “armi del rigore”. Dall’altro faceva propri – traendoli da un elenco tanto elegante quanto impressionante – i punti qualificanti che dovevano qualificare il percorso di avvicinamento al Giubileo e la sua stessa celebrazione: anziché deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi, anziché funesti presagi, messaggi di fiducia. Sembra di ascoltare l’eco del duro confronto che in questi primi due anni di pontificato ha così fortemente contrapposto a questa linea serenamente conciliare, la insistenza sulla “tradizione minacciata”, sui “valori negati”, sugli “scivoloni anticattolici”. Dalla Bolla del Giubileo viene quasi un “decalogo conciliare”. Con sorprendente tempismo e con un unico fine: “servire l’uomo” perché tutti possano trovare accesso alla riconciliazione con Dio e possano partecipare della “grande indulgenza” che il Vangelo ha inaugurato.

 2. La rilettura della indulgenza come riflesso della “gioia del Vangelo”

Questa rilettura della tradizione, che appare come una vera e propria “traduzione della tradizione”, prende spunto da quanto espresso, con forza ed efficacia, nel documento-chiave del pontificato, almeno fino ad ora, ossia nella Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium. Nello spirito di questo documento, e aprendo lo sguardo sulla misericordia come “gioia” ecclesiale, papa Francesco scrive nella Bolla:

L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole.” (MV, 10)

Questo viene detto facendolo seguire da una espressione di EG 24, dove si riconosce che la Chiesa

«vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia».

 La lettura offerta dal grande Primo capitolo di EG – vero capolavoro di profezia e di parresia ecclesiale – orienta in modo potente la direzione della riflessione, fino a concentrare, sul tema del “pellegrinaggio” un tema, tratto sempre da EG, ossia quello delle “periferie esistenziali”. La sintonia con tutti i “feriti”, in una chiesa come “campo profughi”, trasforma anche il pellegrinaggio in rapporto con quel centro-Cristo che si fa periferia:

 In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.” (MV, 15)

 […]

3. Una carta di identità del papato di Francesco

Difficilmente si potrà trovare, in un altro pontificato della Chiesa moderna, un investimento così grande di intenzione nella indizione di un Giubileo Straordinario. Esso appare qualificato da un “primato della misericordia” che ridimensiona un immaginario ecclesiale, spesso troppo appiattito sul giudizio e sulla giustizia.

Da un lato non bisogna giudicare e condannare..

Se non si vuole incorrere nel giudizio di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello. Gli uomini, infatti, con il loro giudizio si fermano alla superficie, mentre il Padre guarda nell’intimo. Quanto male fanno le parole quando sono mosse da sentimenti di gelosia e invidia! Parlare male del fratello in sua assenza equivale a porlo in cattiva luce, a compromettere la sua reputazione e lasciarlo in balia della chiacchiera. Non giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto. Ma questo non è ancora sufficiente per esprimere la misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo che anche Dio elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità” (MV, 14).

Dall’altro occorre riconoscere un “primato” alla misericordia rispetto alla giustizia. Questo permette alla Chiesa di essere, fino in fondo, ospedale da campo e di collocarsi stabilmente “in uscita”, per stare nelle strade e in mezzo alla gente:

Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia.” (MV, 21)

In questa luce si inserisce anche la “apertura interreligiosa” del Giubileo della misericordia. E’ la misericordia stessa che non solo ci orienta ai fratelli di altre fedi religiosa, ma che proviene essa stessa da quelle tradizioni.

La misericordia possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio” (MV, 23)

Anche in questo orizzonte “interreligioso”, oltre che nella calibratura dei termini per garantire un possibile “ascolto ecumenico”, la Bolla presenta la “indulgenza” come correlata strettamente alla “prassi di misericordia” che ogni fede cristiana e ogni religione monoteistica pone davanti a se, come dono per conseguire la pienezza della comunione e della pace. Indulgenza è in primis il battesimo. Guai a scambiarla per una matematica burocratica delle pene temporali da scontare.

1

Discorso di apertura del Conc. Ecum. Vat. II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, 2-3.

2

Allocuzione nell’ultima sessione pubblica, 7 dicembre 1965.

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