De mulieribus ordinandis: percorsi nelle fonti teologiche medievali (/1). Bonaventura e la simbolica della mediazione


ministerodonne

Dopo aver discusso in diversi post precedenti le posizioni di S. Tommaso d’Aquino, anche per come recepite dalla riflessione teologica contemporanea e dal magistero degli ultimi decenni, ritengo molto utile scandagliare altre fonti del sapere teologico medievale, le cui teorie sono entrate nel “senso comune” secolare della Chiesa e possono anche oggi essere assunte acriticamente, da parte di diversi soggetti ecclesiali e culturali. Una sintesi dei passaggi precedenti può essere letta qui.

Bonaventura e la mediazione impossibile

La riflessione teologica medievale “de mulieribus” si colloca per lo più nel solco aperto da Pietro Lombardo con le sue Sentenze. I “luoghi” di maggiore riflessione sono legati al tema della “creazione della donna” (libro II), della “incarnazione” (libro III) e degli impedimenti al “sacramento dell’ordine” (libro IV). Sulla base della formulazione originaria delle “Sentenze” – alle quali dedicheremo un post prossimamente – ogni “magister” ha stilato una serie di “commenti”, nei quali assume una propria interpretazione, offrendo una lettura originale. Abbiamo già fatto riferimento ripetutamente al Commentario stilato da Tommaso d’Aquino. Consideriamo ora alcune grandi differenze che appaiono nel più influente teologo francescano della grande scolastica, ossia Bonaventura.

Vorrei far notare come la originalità di Bonaventura, che è stato il primo ad elaborare una argomentazione “simbolica” della “non ordinabilità” della donna, riposi su una lettura profondamente discriminante, che solitamente non si porta in primo piano, anche perché è “dislocata” rispetto al discorso sull’ordine (IV), e collocata invece nella discussione sul tema della incarnazione (III).

a) Libro III, D. 12, a. 3, q. 2 Utrum decuerit Deum assumere sexum muliebrem

Leggiamo dunque all’interno del discorso sulla incarnazione, basato su poche righe dedicate da Pietro Lombardo all’argomento, e risolte semplicemente con un rimando ad Agostino, la domanda sulla possibilità del “farsi carne di Dio in un corpo di sesso femminile”, viene risolta con una affermazione di fondo, poi specificata in tre direzioni. La affermazione, nel “corpus” della risposta è che “muliebris sexus non est tantae dignitatis sicut virilis”. Ciò viene poi articolato a tre livelli, dicendo che:

“Excellit enim sexus virilis muliebrem et quantum ad dignitatem in principiando, et quantum ad virtutem in agendo, et quantum ad auctoritatem in praesidendo”

Ad illustrazione di queste tre caratteristiche della eccellenza del sesso maschile sul femminile, si sottolinea poi un aspetto strutturale della differenza: “viri est agere, muliebris est pati”. E’ evidente che la natura “passiva” della donna contrasta strutturalmente con ogni “compito di azione ecclesiale”. Anche in questo caso, con linguaggio ancora più articolato rispetto ad altri commentatori, le comprensioni biologiche, antropologiche e sociologiche del tempo condizionano pesantemente la comprensione della donna, relegandola strutturalmente in una “passività originaria” che la esclude da ogni esercizio di “primato”, di “iniziativa” e di “autorità”. Non diversa da Tommaso risulta dunque la forza con cui questa prospettiva viene ribadita ed anzi ulteriormente articolata.

b) Libro IV, d. 25, a. II, q.1 Utrum ad susceptionem ordinis requiratur sexus virilis

Sulla base di quanto già appurato in sede di incarnazione, Bonaventura elabora poi un sapere non sull’impedimento del sesso femminile, ma sulla essenzialità del sesso maschile. In questa direzione sembra elaborare una “sapere positivo”, a differenza di Tommaso, identificando il sesso maschile come “condizione della mediazione ministeriale”. Ascoltiamo il testo di Bonaventura, che argomenta a partire dalla netta ”conclusio”: Mulieres nec de iure nec de facto ordines suscipere possunt. Oltre ad indicare nel corpus della risposta una serie di “documenti pontifici” – il cui contenuto tuttavia appare non lineare – Bonaventura allega la “ratio theologica” a suo avviso decisiva, che presenta così:

“In hoc enim sacramento persona, quae ordinatur, significat Christum mediatorem; et quoniam mediator solum in virili sexu fuit et per virilem sexum potest significari: ideo possibilitas suscipiendi ordines solum viris competit, qui soli possunt naturaliter repraesentare et secundum characteris susceptionem actu signum huius ferre. Et ista positio probabilior est et multis auctoritatibus Sanctorum potest probari”.

Qui Bonaventura presenta, in modo originale, e a differenza di Tommaso, la “rappresentazione naturale di Cristo” come criterio di identificazione del “sesso maschile” in quanto sostanza del sacramento dell’ordine. Ma questo argomento rappresentativo, con la sua novità, poggia molto pesantemente, come abbiamo visto, sulla considerazione marginale e residuale della “mulier” sul piano della autorità e della azione.

La influenza di categorie giuridiche e di categorie biologico-antropologiche impedisce una comprensione serena della questione della “ordinazione”. E rende anche l’argomento simbolico, nella sua indiscutibile originalità, gravemente segnato da questo orizzonte di disuguaglianza e di discriminazione, che si sovrappone pesantemente al discorso teologico e lo rende tanto fragile agli occhi di chi oggi voglia “dare ragione della fede” e non semplicemente salvare l’ancien regime.

Anche Alberto Piola, che ha scritto il lavoro di sintesi più eccellente sulla questione della ordinazione femminile, riconosce che in Bonaventura “il problema pare essere non tanto l’uso in sé di questo simbolismo, quanto il modo di vedere l’uomo e la donna che vi sta sotto” (A. Piola, Indagine storico-teologica degli aspetti antropologicidell’ordinazione delle donne, Torino, Effatà, 2006, 298).

La ripresa moderna di questo argomento “simbolico”, per quanto ricontestualizzato e riargomentato, difficilmente può mettere al riparo di una nuova antropologia e di una nuova sociologia le ragioni teologiche di esclusione della donna dal sacramento dell’ordine. Il rischio, non evitato da molti autori contemporanei, è che l’ “argomento simbolico della repraesentatio naturalis” mascheri, sotto i temi neutri della mediazione e della sponsalità, la sopravvivenza degli antichi pregiudizi, rendendoli così meno evidenti, ma non meno insidiosi. Che la mediazione del Signore Gesù sia impossibile per soggetti di sesso femminile – che sarebbero incapaci di rappresentare il “mediatore” e lo “sposo” – non sembra la causa normativa di una prassi conseguente, ma piuttosto la conseguenza fattuale di una tradizione pensata con il modello della “subiectio”. Come vedremo nel prossimo post, la teologia medievale conosce anche un altro modello di comprensione della donna – intendendola né come serva né come padrona, ma come “socia” dell’uomo – che è presente fin da Pietro Lombardo e che ha avuto un suo sviluppo autonomo intorno al tema della creazione, ma senza riuscire ad entrare efficacemente nell’ambito delle discussioni sulla incarnazione e sulla ordinazione.

 

Share