De mulieribus ordinandis: percorsi nelle fonti teologiche medievali (/2). La donna “socia”/“immagine di Dio” e “una nuova episteme”


ministerodonne   La elaborazione da parte della grande scolastica della antica sapienza patristica e delle Sentenze di Pietro Lombardo ha prodotto un ingente sapere teologico, procedendo però in modo non sempre lineare e conseguente. Anzi, non è raro trovare “salti” e “svolte” nell’uso e nella interpretazione dei testi. Alcuni spunti provenienti dai Padri e dalla prima sintesi teologiche medievali sono stati ripresi, approfonditi, elaborati, articolati ed ampliati. Altri, invece, sono rimasti ai margini, talora semplicemente ripresi “alla lettera”, altre volte non considerati o eliminati addirittura. Vorrei soffermarmi su due aspetti della tradizione medievale ed antica che non hanno goduto di grande fortuna critica nei secoli successivi, e che oggi invece potrebbero riacquistare peso nella discussione sulla autorità femminile nel ministero ecclesiale.

a) Una esegesi della creazione della donna “de latere viri Un capitolo del “De sacramentis cristianae fidei”, (I, 6, 35) di Ugo di S. Vittore, dedicato al tema del “Perché la donna è stata fatta dall’uomo e perché dal fianco?”, riceve la seguente risposta: “Poi in aiuto della generazione dallo stesso uomo fu fatta la donna. Poiché se fosse stata creata da altrove, non ci sarebbe stato un solo principio per tutti gli uomini. Ma fu fatta dal fianco dell’uomo, affinché fosse chiaro che era creata per la comunione d’amore, e non, invece, se fosse stata tratta dal capo, apparisse da preferirsi all’uomo per il comando, o se fosse stata fatta dai piedi, fosse sottomessa in schiavitù. Poiché all’uomo non era preparata una padrona o una serva, ma una socia, non doveva essere creata né dalla testa, né dai piedi, ma dal fianco, affinché la conoscesse come da porre accanto a sé, lei che aveva appreso essere stata tratta dal suo fianco”. Il testo appare singolarmente diverso da quelli che, nei secoli successivi, soprattutto ad opera di Tommaso e di Bonaventura, sottolinearanno con forza proprio quella “subjectio” che questo testo vuole escludere. Questo stesso testo viene ripreso, quasi letteralmente, sebbene in forma più breve, da Pietro Lombardo, nelle Sententiae, (II, d. XVIII), sotto il titolo La creazione della donna, dove si afferma: “Perché è stata fatta dal fianco dell’uomo? La donna è stata fatta dal fianco dell’uomo, non dalla testa, né dai piedi, perché non gli fossa fatta né una padrona né una serva. Se infatti fosse stata fatta dal capo, sarebbe sembrata da preferire all’uomo per il comando; se invece fosse stata fatta dai piedi, sarebbe apparsa da sottomettere in schiavitù, mentre è stata fatta dal fianco, e per questo fosse chiaro che era creata per la comunione d’amore con l’uomo, e come aiuto per la generazione”. Anche il testo di Pietro Lombardo, che omette il termine “socia” per definire la donna, esclude però la “subordinazione” come categoria interpretativa del femminile. Entrambi questi testi sembrano non avere precedenti nella letteratura cristiana anteriore. Un precedente di rilievo sembra venire dalla tradizione della sapienza ebraica di commento alla Genesi (al Bereshit Rabbah dedicheremo un post ulteriore). Nemmeno in Agostino, dunque, appare mai questa ermeneutica della creazione della donna, anche se il Vescovo di Tagaste ha dedicato a questo episodio biblico una attenzione diffusa e articolata, della quale vale la pena di riferire brevemente, soprattutto per come appare nel XII libro del De Trinitate.

b) La donna nel “De trinitate” di Agostino Nel libro XII del De trinitate Agostino parla della relazione tra uomo e donna in una prospettiva diversa da quella che sarà assunta, in modo prevalente, dal discorso scolastico. Il registro, infatti, non è quello della tensione tra soggetto maschile attivo e soggetto femminile passivo – così come abbiamo visto attestato, nel post precedente, in Tommaso d’Aquino o in Bonaventura – ma quello della differenza tra intelletto e azione, tra vita contemplativa e vita attiva. Questa prospettiva è possibile per Agostino sulla base di due presupposti:

a) Egli prescinde dalle caratteristiche corporee, dalla differenza sessuale, e considera l’anima razionale dell’uomo e della donna;

b) Egli mira a stabilire se uomo e donna siano entrambi “imago Dei” o se questa sia prerogativa soltanto del maschio. Come dice Agostino, (De Trinitate, XII, 7,12): “L’immagine di Dio non risiede se non nella parte dello spirito dell’uomo che si unisce alle ragioni eterne, per contemplarle ed ispirarsene, parte che, come è manifesto, possiedono non solo gli uomini, ma anche le donne”.

La metafora utilizzata da Agostino è dunque intellettuale: quando l’intelletto è orientato verso le cose cielo, è a immagine di Dio; quando si occupa delle cose terrene, non è più immagine di Dio. Ma questa divisione, nella sua diversità dal principio attivo e passivo, non impedisce alla donna di essere pienamente “imago Dei”. Anche Tommaso riprende esattamente questa posizione di Agostino, nella q.93, a.4, corpus e in particolare nell’ad1: tam in viro quam in muliere invenitur Dei imago quantum ad id in quo principaliter ratio imaginis consistit, scilicet quantum ad intellectualem naturam”. Resta problematica, in Tommaso, la correlazione tra questa lettura positiva e la visione negativa proposta nella questione precedente. Il recupero della dignità della donna sembra comunque esigere, tanto in Agostino quanto in Tommaso, una distanza strutturale della considerazione di essa dal livello corporeo e sessuale della identità. In questa differenza si muove così una considerazione della donna con la affermazione della “imago Dei”, che non dipende dal riferimento corporeo, e con la negazione della “repraesentatio Christi”, che invece verrà interpretata come normativamente determinata dal riferimento al corpo.

 c) Alcune conclusioni I testi che abbiamo considerato offrono due orizzonti poco sviluppati dalla teologia della donna nei secoli successivi. Da un lato, infatti, la esclusione della creazione “dalla testa” e “dai piedi”, implica una interpretazione del genere femminile come non subordinato, ma che si “associa” a quello maschile. La esclusione della comprensione “ancillare” della donna sembra smentire quella teoria della “subiectio” (Tommaso) e della impossibilità di una naturale rappresentanza (Bonaventura) riferita con tanta sicurezza al genere femminile. Vi è dunque, nella testimonianza di Ugo di S. Vittore e di Pietro Lombardo, un registro diverso, che non sarà assente nelle citazioni della teologia successiva, ma che non verrà sviluppato, e perciò non sarà in grado di contrastare un crescente peso delle argomentazioni in termini di “subiectio” e di difformità rispetto al modello “normativo” di esercizio della autorità. Ciò dipenderà forse da una più intensa recezione delle fonti giuridiche, che avverrà proprio nei decenni successivi ai primi scolastici. D’altra parte, sul versante agostiniano, scarsissimo è stato l’impatto della profonda riflessione sulla donna, pensata non già secondo la linea della fisiologia aristotelica del “principio attivo/maschile e passivo/femminile”, ma secondo la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva. Il diverso registro, utilizzato da Agostino, rispetto a quello “fisiologico”, permette di interpretare anche il femminile come “custode della immagine di Dio”. Anzi, la traduce, in modo evidente, con una prevalenza del piano del “bios praktikòs”, rispetto al maschile, dove invece inclina piuttosto al “bios noetòs”. Le conseguenze di queste due grandi interpretazioni non sono di poco conto: esse possono aiutare a collocare in un orizzonte “epistemologicamente diverso” anche i nostri discorsi sul “ministero femminile”. Una nuova episteme, un cambio di paradigma – di cui ha parlato papa Francesco il 4 novembre scorso nell’importante Discorso alla Federazione delle Università cattoliche – sembra necessario alla riflessione ecclesiale sulla relazione tra ministero e donna. Le tracce di questa nuova impostazione si trovano anche nel mondo antico e nel mondo medievale. Saper riallacciare le fila di queste tradizioni compete al lavoro comune di teologi e pastori, titolari, rispettivamente, del “magisterium cathedrae magistralis” e del “magisterium cathedrae pastoralis”. A nessuna delle due cattedre è possibile sfuggire a questo “segno dei tempi”, che richiede non solo pensieri più adeguati, ma anche cuori appassionati e mani creative. In una nuova correlazione tra ragione, emozione e azione si nasconde non solo la novità paradigmatica del nostro tempo, ma anche lo specifico contributo che le donne possono portare al rinnovamento della tradizione. E una cosa è certa: se non lo faranno le donne, se non si darà loro la possibilità di svolgere appieno questo compito, nessun’altro potrà farlo al posto loro.

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