“Del sorridere”: a un anno dal sonno di Silvano


maggiani

 

“Per celebrare bisogna imparare a sorridere”

Da qualche giorno lo cercavo. Ho ripreso in mano alcuni suoi scritti, per ritrovarlo ancora, per incontrarlo di nuovo, dopo un anno dal suo addio. Volevo riascoltare la forza della sua passione e la autorità della sua parola. E mi sono imbattuto in un grande testo. L’ho trovato nel volume APL dedicato all'”Arte del celebrare”, del 1999, dove sono raccolte le relazioni che si tennero alla Settimana di Brescia, l’anno prima, nel 1998. Il suo testo si trova a p. 59 e arriva fino a pagina 102. Ha per titolo CORPO SPAZIO TEMPO: Celebrare a tre dimensioni. E’ sicuramente un testo programmatico. Concentra molte delle cose più intense che Silvano ci ha insegnato ed è anche sigillato in apertura da due decisive “referenze” (come avrebbe detto lui, nella sua parlata toscana, con tutte e tre le “e” belle aperte). Una dedica a J.-Y. Hameline, il suo maestro a Parigi, e una citazione di Guardini, il suo autore in assoluto più citato. Le 42 pagine del testo sono una “summula” del suo pensiero, che risale dall’ars orandi, al ritus servandus, fino all’ars celebrandi. E percorre poi le regioni impervie e le foreste di simboli dello spazio, del tempo e del corpo, come “temi necessari” di un sapere liturgico rinnovato ed efficace. E di tutto questo, che abbiamo imparato da lui, gli siamo grati e lo teniamo caro, nel centro del nostro lavoro.

Ma ora resto colpito da un paragrafo che si incontra alla fine della prima parte, con il titolo “Del sorridere” (72-74). Ecco – mi sono detto – ecco Silvano.  In effetti, per chi voglia recuperare uno dei tratti più tipici, queste tre pagine sono preziosissime. Silvano, il professore, teorizza qui un modello di “celebrante” che lui stesso incarnava con una serena e signorile maestria. Parla d’altro, ma, a bene vedere, parla di sé. Se leggiamo “col rampino”, possiamo riprendere le sue frasi più belle, e anche più toccanti se le rileggiamo oggi, per ricordarlo. A cominciare dall’incipit:

“Andrebbe attentamente studiato perché l’atteggiamento di fondo dell’agire liturgico cristiano sia una gravitasi che sconfina nel serioso se non nel triste concentrato…Per celebrare bisogna imparare a sorridere” (72).

Ebbene, il sorriso, che caratterizza l’uomo e la donna, differisce profondamente dal ridere come dal piangere. Mentre questi sono segni di una perdita di controllo della realtà, e ne siamo quasi sopraffatti,

“il sorriso comporta quel saggio equilibrio per il quale anche di fronte al dolore e alla morte il soggetto non viene meno” (74)

Così il sorriso diventa stile del celebrare e abitudine di relazione e di apertura:

“Si pensi, in quest’ottica, a colui che presiede, alla sua responsabilità nei confronti degli altri nell’assemblea. Il sorriso diverrà habitus e non atteggiamento ambiguo o “ebete”, possibilità di porre armonicamente azioni, parole, gesti, atteggiamenti, simboli e segnali” (74)

Una teoria del “sorridere” come risorsa della liturgia appare singolarmente efficace. Ma non è solo il frutto di una ricerca seria e profonda. E’ anche il risultato di una storia, di una indole e di un lavoro su di sé. P. Silvano, nel celebrare, era lieto, restava arioso. Il suo sorriso era contagioso e sovrastava la assemblea. Non diminuiva per nulla la serietà del mistero. Anzi, ne intensificava la forza e la potenza, proprio sul volto limpido, nell’occhio sereno, nel tratto sorridente.

Non era solo la persona di Silvano ad essere sorridente. La sua era anche una teoria “del sorridere”.  Una teoria forte, sofferta, appassionata e travagliata. Che scavava nella storia e nella antropologia, che cercava le motivazioni e le argomentazioni, che si confrontava con i luoghi e con le persone, negli spazi e nei tempi.

“Del sorridere” non era solo un programmo rituale. Era anche un volto sorridente di Chiesa e un volto della hilaritas della vita, che si è fatto incontro a noi, grazie a Silvano e nel cuore del pensiero suo. Così nei suoi testi lo possiamo reincontrare. E leggiamo le sue pagine ricordando il suo sorriso nel celebrare, già allora e ancor più oggi.

Ha voluto parafrasare non un padre della Chiesa, ma un padre del teatro moderno, Stanislavskij, quando ha scritto: “Ama te stesso nel mistero donato e non il mistero donato in te stesso”.  E chissà come questo suo sorriso si sarà aperto, ora che, anche da lassù, avrà visto finalmente riconosciuta all’ambone e all’altare la presenza ministeriale di donne. Da questo sviluppo può già intuire con sguardo vivo un incremento deciso del sorriso rituale. Forse anche questo, grazie a P. Silvano e al suo sguardo ispirato, possiamo vedere profilarsi negli sviluppi ecclesiali che ci attendono. Avremo un sorriso più intenso nella parola proclamata; un sorriso più aperto nella manualità fine intorno all’altare, sul pane e sul calice, nel pregare e nel comunicare. Ecco l’apparire di donne finalmente riconosciute nel loro ecclesiale ministero: sorridenti di sorrisi più lieti e ardenti di sguardi più vaghi.

 

 

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