Della castità e della sessualità, senza esagerare. In dialogo con Domenico Morrone
Le discussioni scaturite intorno agli “Itinerari catecumenali” pubblicati dal Dicastero per i Laici si sono concentrate su un punto della tradizione cristiana e cattolica che ha subito, negli ultimi secoli, grandi mutamenti. Si tratta del tema della “castità”, sul quale è facile fraintendere molte cose. Anche un articolo come quello di Domenico Morrone (sulla castità contro l’idolo del godimento, che si può leggere qui) mi pare che, pur con giusta intenzione, non contribuisca molto a cogliere le vere questioni in gioco. Nel suo testo, infatti, difende la castità, come è giusto, ma lo fa con un linguaggio non aggiornato e troppo apologetico. Se si interpreta la castità come “lotta contro il godimento come idolo” si viene catturati da una lettura in termini di “continenza” che è solo una parte della castità. Si legge, in fondo, la parte per il tutto e così si rende più facile il rifiuto del tutto identificato con una parte.
L’idolo del godimento e le forme della vita casta
Ciò che Morrone vuol dire, e in questo ha pienamente ragione, è che coloro che “rifiutano la castità” cadono in errore. Questo è giusto. Della castità hanno bisogno tutti, perché la sessualità non si identifica con il bene. Il sesso è un grande bene, ma non è né tutto il bene, né il bene di tutti.
La tradizione si pone la questione di “gestire” l’uso del sesso e lo fa essenzialmente in due modi: rinunziandovi o orientandolo. Nella rinuncia ci sono due vie: quella del “voto religioso” e quella della “legge ecclesiastica”. Da un lato, infatti, la tradizione del monachesimo maschile e femminile “dona” la propria vita sessuale alla lode e al lavoro, alla preghiera e alla contemplazione, senza mogli, senza mariti e senza figli (ma con fraternità, sororità e paternità/maternità spirituale). Dall’altro, la legge ecclesiastica del celibato, pur scaturendo anche da ragioni economiche, ereditarie e di purità rituale, trova la sua evidenza nella condizione “celibe” del ministro della Chiesa. Come è ovvio, una logica puramente “legale” del celibato è molto fragile se non si alimenta di ragioni “spirituali”. Imitazione di Cristo e “amore indiviso” del Padre sono i luoghi comuni di questa interferenza positiva e problematica tra ministero e vita quotidiana. L’altro versante della castità è quello che non rinuncia all’esercizio della sessualità, ma lo sottopone al “regime matrimoniale”, anzitutto ordinandolo alla generazione. L’esercizio della sessualità è giustificato dal suo “fine fecondo”, che è apertura all’altro (come figlio).
Tutte e tre queste linee (del voto religioso, del celibato e del matrimonio) identificano “fuori di sé” una regione, più o meno ampia, che si chiama “vizio contro la castità”. Nessuna di queste tre linee è di per sé costretta a leggere la sessualità come un male, ma è fortemente tentata di ricostruire la sfera sessuale ammantandola di un grande sospetto. La stessa evoluzione della formulazione del VI comandamento è assai istruttiva: nasce come “non commettere adulterio” (che è essenzialmente peccato sociale e di esercizio della sessualità), si traduce in “non fornicare” (ossia non esercitare la sessualità fuori dal matrimonio) e si estende poi a “non commettere atti impuri” (la cui logica “individuale” appare molto accentuata). La linea evolutiva della terminologia lascia intendere una visione sempre più “individuale” del sesso: forse segnata dalla esperienza che del sesso hanno i celibi, che non a caso hanno sviluppato, nel trattato teologico, uno sproporzionato spazio dedicato alla “polluzione notturna”, quando nel sonno, tutte le energie impiegate a non toccare, non toccarsi e non farsi toccare, cedono al sorgere della libido inconscia. Quanto anche questo possa essere giudicato “peccato” è un problema che per i medievali è tanto importante quanto rivelativo dei limiti della loro comprensione. Resta il fatto che il discorso sulla castità è stato monopolizzato, quasi integralmente, dalla esperienza di uomini e donne non coniugati, la cui esperienza del sesso era necessariamente e istituzionalmente limitata.
Non toccare, non toccarsi, non farsi toccare
Per quanto si cerchi, a ragione, di offrire le ragioni positive della castità, come è doveroso, facilmente prevale il registro negativo. La identificazione di “castità” con “continenza” è, da questo punto di vista, esemplare. Sembra che “vita casta” si identifichi in “vita senza sesso”. Ma proviamo ad entrare meglio dentro questa resistenza all’”idolo del godimento”. Un vescovo anziano, con la parrhesia che spesso viene dalla età, diceva una volta questo motto: per noi castità significava “non toccare, non toccarsi, non farsi toccare”.
Questa sintesi, certo anche ingenua, fotografa bene un certo modo di intendere la tradizione. E riguarda, come è evidente, l’esercizio del tatto. Il fondamento di ogni senso viene interrotto sia attivamente, sia riflessivamente, sia passivamente. Questo, per analogia, passa anche agli altri sensi. Nel gusto, nell’olfatto, nell’udito e nella vista, non toccare, non toccarsi, non farsi toccare. Un programma del genere, pensato come “cammino verso la virtù”, portava ad es. – e qui è il racconto di un anziano prete-operaio, che faceva memoria del suo parroco – ad una gestione degli occhi nei preti che era ispirata a questo principio. Poiché anche con gli occhi “si tocca, ci si tocca e ci si lascia toccare”, l’anziano parroco, quando una signora entrava in sacrestia, teneva sempre gli occhi fissi sulle proprie scarpe, senza mai alzare lo sguardo sulla donna. Questa era la regola.
Che il godimento sia un idolo, non c’è dubbio. Ma anche la rinuncia ad ogni godimento, è un altro idolo, non meno pericoloso. E tuttavia si racconta che un famoso Vescovo di Palermo finisse sempre le riunioni con la formula “Abbiamo goduto!”.
Tenere la porta socchiusa
Di recente, in un bel testo apparso sull’Osservatore Romano, il Vescovo francese J-P. Vesco, che è frate domenicano, offriva una rilettura del celibato e del voto di castità, con una metafora interessante. Diceva che per lui aver scelto la vita consacrata e celibe era un modo di “tenere la porta socchiusa”. Ossia di restare aperto a tutti, radicalmente. Se nella scelta del matrimonio si entra in una relazione intima necessariamente esclusiva, che “chiude la porta”, nel voto di castità la porta resta aperta. Che sia la “clausura” a garantire questa apertura, e che siano i condomini e gli appartamenti o le ville i luoghi della massima chiusura non è solo un paradosso. E’ anche un altro modo di pensare ai cammini di “castità”. Amarsi teneramente, senza rinunciare a godere del corpo della propria moglie o del proprio marito, è un modo di “uscire da sé”: questo dice la castità coniugale che stiamo elaborando, faticosamente, da meno di un secolo. Questo è un altro discorso rispetto ad Agostino e a Pascal. La concessione del matrimonio solo come “generatio” – che accomuna largamente Agostino, Tommaso d’Aquino e Pascal – non riesce a concepire il “bonum coniugum” come bene del matrimonio. E neppure riesce a concepire che al matrimonio formale si arrivi “per gradi”, che sono anche livelli della relazione fisica, corporea e sessuale. E che in questi gradi si possa essere tanto responsabili prima delle nozze quanto lo si può essere dopo. Una vita casta, in una lettura della relazione sessuale orientata alla generazione, al bene dei coniugi e al godimento dell’altro da sé, non è una contraddizione, ma una nuova possibilità reale dei vissuti comuni. In tutto questo non vi è solo il dramma dell’autocompiacimento, sempre possibile, ma anche la reale correlazione al prossimo e a Dio. E che l’addomesticamento del sesso possa generare mostri tanto quanto la sua sfrenata soddisfazione non ha bisogno di molte prove. Le nuove possibilità di “vissuti casti” nell’esercizio del godimento sessuale sono anche il prodotto della società aperta e dei segni dei tempi da essa prodotti. Questi segni, certo non lineari, ma neppure aberranti, chiedono alla Chiesa di continuare a pensare con coraggio la vita casta, ma con la urgenza di nuove categorie culturali e di diverse relazioni personali. Il coraggio di parlare di castità è una cosa, ma la pretesa di imporre ordinamenti morali, giuridici e immaginari del passato è un’altra cosa, che non è tanto l’esercizio della virtù del coraggio, quanto forse il cedimento alla paura o la resa alla disperazione.
La religione ingabbia in schemi, la Parola invece non è un concetto astratto ma un seme donato a tempo opportuno e che matura nei modi e nei tempi opportuni nella specifica persona verso la pienezza del suo compimento. Quindi non schemi gabbie vai il senso di quella parola nella vita di quella persona.
https://gpcentofanti.altervista.org/un-ritiro-sulla-cresima/