Della mascolinità di Gesù di Nazaret (di S. Zorzi)


Dopo gli interventi di Imperatori e Castiglioni, sul tema della normatività della “mascolinità” di Gesù interviene Selene Zorzi, che aggiorna il dibattito soprattutto in rapporto agli studi della teologia femminista. Ringrazio la teologa e amica per il suo contributo alla riflessione su questo aspetto del dibattito intorno alla “riserva maschile”. (ag)

Della mascolinità di Gesù di Nazaret

di Selene Zorzi

La mascolinità di Gesù è un dato che nessuno può mettere in dubbio. La riflessione femminista ha evidenziato come la cultura antica abbia considerato la virilità come perfezione e completezza dell’umanità, a scapito del femminile e delle donne. Questa concezione è stata chiamata androcentrismo. Elizabeth Johnson afferma che Gesù doveva essere maschio per l’efficacia stessa del suo annuncio di servizio compassionevole: «Da una posizione sociale di privilegio del maschio Gesù predicava e agiva in questo modo, qui sta l’accusa». Secondo la nota teologa, si tratta di una funzione di kenosi del patriarcato stesso: lo svuotarsi del potere maschile dominante in favore della nuova umanità caratterizzata dal reciproco servizio.

Occorre aggiungere che, accettando uno solo dei due sessi, il Logos ha assunto l’umanità in tutte le conseguenze derivanti da questa kenosi, ovvero anche la parzialità dell’essere umano sessuato.

Il Nuovo Testamento non sembra aver avuto grande interesse per la mascolinità di Cristo nel suo carattere di sex; lo stesso si può dire per i teologi del primo millennio, che insistevano sulla mascolinità nel suo valore di genere2 (in quanto capo). Rm 5,12ss. parla di «un solo uomo» intendendo l’umanità intera (anthropos). Alcune studiose sminuiscono del tutto la sessuazione di Gesù, affermando che la sua mascolinità non avrebbe nessun valore per la Rivelazione. Questo approccio è problematico nel caso in cui ci si riferisse alla sessualità di Gesù nel senso di sex, perché è un deprezzamento della sessuazione e della corporeità. Nel senso del genere, invece, l’affermazione è condivisibile, in quanto permette di spezzare il collegamento tra ruoli di potere maschili e divinità e di non considerare la mascolinità come un privilegio o un valore aggiunto. D’altra parte, enfatizzare troppo il legame tra incarnazione e mascolinità di Cristo Gesù sembra altrettanto pericoloso, perché rischierebbe di cadere nell’affermazione che Cristo non avrebbe salvato le donne, secondo l’adagio «ciò che non è assunto non è salvato». Invece, la Chiesa le ha sempre battezzate e non vi è mai stato dubbio su questo.

In modo più drastico, Elizabeth Ruether arriva ad affermare che se le donne non possono rappresentare Cristo, nemmeno Cristo può rappresentarle e in realtà egli non le avrebbe redente. Questa strada appare perciò non percorribile. Bisogna dunque ritenere la mascolinità di Gesù inclusiva e non escludente le donne: essa è il modo in cui Cristo ha assunto «tutta intera la natura umana», riproponendo l’argomentazione che Agostino applicava a Ef 4,13 interpretando il vir pro homo. La riflessione si trova sviluppata già in Anselmo:

“Ogni uomo individuale infatti è una persona. In che modo allora costui comprenderà che dal Verbo è stato assunto l’uomo e non la persona, cioè un’altra natura e non un’altra persona?”.

In Dio c’è quindi l’assunzione dell’homo, infatti in Cristo la Persona resta quella divina. Anche le formule dei simboli di fede non confessano che Cristo si è fatto vir, ma homo. Il problema della mascolinità di Gesù deve rispondere infine a due domande:

1. se essa rivelerebbe anche la mascolinità di Dio tramite una doppia connessione: quella ontologica di Gesù al Logos-[maschio] e di tale Logos [maschio?] quale rivelatore di una eventuale mascolinità di Dio. Tutti esiti inaccettabili.
2. se la mascolinità di Gesù implichi che la mascolinità sia normativa dell’essere umano e dunque che essa sia la sola capace di rappresentare Dio (sarebbe insomma la mascolinità a essere creata totalmente a immagine di Dio, mentre la donna non rappresenta totalmente e in sé l’immagine di Dio). Le teologhe femministe hanno denunciato questo modo di pensare come
androcentrico: e se mai esso è stato portato avanti nella storia della teologia, esso non è più sostenuto nemmeno dal Magistero cattolico.

D’altra parte resta anche la domanda se il corpo risorto di Cristo (Salvatore e Mediatore) sia sessuato. A fronte delle parole di Paolo sulla totale trasformazione dei corpi (1Cor 15,35-44) si aprono piste forse ancora poco esplorate, che rischiano di apparire discussioni sterili. La teologia femminista punta a sottolineare il carattere escatologico del Cristo risorto, realtà che resta total mente avvolta nel mistero di Dio, dove non ci sarebbero più le distinzioni sessuali di uomo e donna. Inoltre, si ricorderà che Agostino (Civ. Dei xvii) fu uno dei primi ad ammettere che le donne dovrebbero risorgere qua donne; fu così anche il primo a riflettere sul senso non solo biologico/procreativo, ma personale della sessuazione. Che cosa significherebbe una sessuazione del corpo risorto, cosa implicherebbe? Non significando una procreazione materiale, vuol dire che la sessualità non ha come unico fine la procreazione.

Ruether osserva che se la storicità e la concretezza dell’ebraicità di Gesù, la sua razza, la sua lingua, il colore della sua pelle, non sono state ritenute fondamentali per la sua identità, non si capisce come mai dovrebbe esserlo la sua mascolinità. Bisognerà allora dimostrare come la sessuazione sia parte costitutiva dell’identità umana in un modo in cui non lo sono altre caratteristiche corporee. D’altra parte la cosiddetta cristologia della First Quest (prima fase), che quasi dimenticò la storicità e la provenienza etnica di Gesù, ha già dimostrato i suoi limiti tra i quali alcuni esiti di stampo razzista. Tornare a considerare queste caratteristiche importanti (come fa la Third Quest ma anche femministe come Julie M. Hopkins), assieme alla sua mascolinità, vuol dire anche che la teologia non può rinunciare alla sessuazione intesa come costitutiva di un’identità personale. Troppo a lungo la riflessione su queste tematiche è stata elaborata quasi esclusivamente da parte di uomini celibi su un’umanità supposta neutra o asessuata (magari con l’ideale dell’isangelia di Lc 20,36). Recentemente si pone ancora troppa attenzione sulla sessualità in termini solo procreativi: occorre che la teologia si sganci da quel paradossale accordo che essa dimostra avere con la mentalità dominante circa la collocazione della sessualità nella struttura antropologica, come se essa riguardasse solo una specifica “attività” o zona dell’essere umano.

L’affermazione di Gal 3,28 viene oggi compresa come cancellazione storica e non escatologica delle differenze sociali di subordinazione tipiche dei ruoli sociali (in cui la cultura androcentristica relegava le donne o gli schiavi, cfr. Rm 10,12; Col 3,11) e non si deve interpretare come un annullamento della nostra identità personale determinata sessualmente nel corpo risorto. Quanto all’inclusione dei ruoli sociali, c’è da dire che Gesù stesso nella sua vita ha rivelato storicamente un’azione divina inclusiva delle donne al discepolato (Lc 8,1-3). Queste sono rimaste con lui fin sotto la croce (Mt 27,55-61) e anche a loro egli ha scelto di apparire e di dare un mandato (Mc 16; Lc 24; Mt 28; Gv 20; 1Cor 15,6). Alcune donne sono chiamate “apostole”, di altre è designata così la loro attività.

Un ambito di approfondimento della riflessione sarebbe quello sul dato di tradizione che afferma l’unione tra le due nature nella persona del Logos e non nella persona umana (e dunque sessuata) di Gesù: la mascolinità di Gesù, cioè, non sembra costitutiva di lui in quanto Mediatore.

Johnson accenna al dogma di Calcedonia in base al quale si dice che la natura umana (quindi anche maschile) e la natura divina (Logos) in Cristo sono unite senza confusione né mescolanza, così che la mascolinità della natura umana non filtra per così dire nella natura divina e dunque nemmeno in Dio.

La sessuazione della persona, e quindi la mascolinità per l’identità storica di Gesù, è una caratteristica costitutiva per ciascun essere umano e contribuisce a strutturare quell’insieme di anima e corpo che si chiama “persona” e che è destinata alla risurrezione. Tutta l’esperienza elaborata tramite il corpo, e che ha formato la nostra identità, risorgerà, cioè tutto quello che attraverso il corpo la persona ha sperimentato in questa vita e che ha contribuito a fare di lei ciò che è (con la distinzione tra Leib e Körper). Tuttavia è chiaro che in un discorso teologico in nessun modo la mascolinità di Cristo può essere usata per insediare nella divinità una sessuazione di tipo maschile, né per giustificare un discorso sessista nei confronti delle donne sulla base di un’antropologia androcentrica, né per rafforzare un’immagine patriarcale di Dio.

Bisogna ammettere che questa tematica teologica è influenzata dalla paura che essa possa portare a giustificare l’ordinazione delle donne e fa fatica ad essere trattata oggettivamente soprattutto dai teologi maschi impauriti di perdere un privilegio. La mascolinità di Cristo, infatti, non appare direttamente legata a quella del prete, come dimostrano le pratiche di altre Chiese. Per arrivare alla necessità della mascolinità “sessuale” del prete bisognerebbe giustificare molti altri passaggi, che sono di pertinenza forse dei liturgisti e sacramentaristi: giustificare in che senso la mascolinità sia fondamentale per la representatio sacramentale; discutere se sia costitutiva per questa representatio l’imago Christi o l’imago Jesu; chiedersi se e in che modo le donne possano rappresentare l’imago Christi come Mediatore e Salvatore (Dio) e se e come possano raggiungere una Imago Jesu. Ci sono molte testimonianze documentaristiche che possono essere apportate in questa direzione. Inoltre, a livello liturgico, bisognerà specificare la collocazione e la funzione della representatio all’interno della celebrazione eucaristica. D’altra parte, un dibattito sull’ordinazione diaconale delle donne appare oramai aperto nella teologia cattolica non solo a partire dal motu proprio Omnium in Mente di papa Benedetto xvi che riserva l’in persona Christi esclusivamente all’episcopato e al presbiterato, ma anche dalla caduta della riserva maschile per i ministeri minori attuata da parte di Francesco.

Infatti, il 10 gennaio 2021, Papa Francesco ha modificato il canone 230 §1 del diritto canonico che manteneva l’impedimentum sexus, ovvero l’ostacolo – a solo solo motivo del sesso – che ha escluso le donne, a partire dalla tarda antichità, dall’ accesso ai ministeri.

Con un atto di buona volontà le leggi cambiano.

Da una parte, il Papa risulta tradizionale, perché prosegue la ricezione dei ministeri laicali voluti da Paolo VI nel 1972, quando, sulla scia del Vaticano II, che aveva abolito gli ordini minori, apriva i ministeri ai laici. Si trattava di una novità ma anche di un ritorno alle fonti, infatti la Chiesa delle origini aveva conosciuto ministeri multipli e vari (Ef 4,11) che oggi non abbiamo più, perché assorbiti da quelli chiamati poi “ordinati” e che si sono strutturati nel corso della storia in tre gradi dell’ufficio gerarchico, con un monoepiscopato sconosciuto alle prime comunità cristiane ed escludendo le donne.

Dall’altra, questo passo potrebbe sembrare rivoluzionario proprio dal momento che ciò che viene tolto è la parola “di sesso maschile” che fino a ieri sembrava un macigno pesante e irremovibile su tutto ciò che riguardasse il potere e la leadership nella chiesa cattolica.

Come è stato possibile arrivare alla restituzione ai laici di ministeri fondati sul Battesimo, ovvero fondati sulla comune condizione di consacrati nell’ufficio sacerdotale di Cristo? Sulla scia di quello che il Papa chiama “sviluppo dottrinale” della Chiesa. Come ricordava Dei Verbum 8 “la Rivelazione progredisce nella Chiesa” così che le esigenze dei tempi sfidano la Chiesa a comprendere il Vangelo in modo sempre più approfondito e ad esplicitarne tutte le sue potenzialità.

Ricordiamo la grande mutazione delle situazione ecclesiali, sociali, culturali, nel corso della storia durante la quale la situazione dei ministeri ha assunto forme diverse (si ricorderà infatti che fino al Concilio di Trento si reputava che i gradini dell’ordine fossero sette: ostiariato, il lettorato, l’esorcistato, l’accolitato, e il suddiaconato, il diaconato, il presbiterato; l’episcopato non rientrava tra questi gradi).

È importante ricordare come la Chiesa nel suo pellegrinaggio nella storia abbia mutato strutture e tradizioni, ora adattandosi alla cultura del tempo (per esempio quando ha chiuso alle donne l’accesso alla predicazione del Vangelo, aperta loro da Gesù, sulla base di un assoggettamento ad una cultura patriarcale), ora per consentire ad ogni chiesa locale di rispondere con fedeltà al mandato di Cristo.

Infine si rende più evidente che ciò che era già implicitamente previsto dallo stesso canone 230 §2 laddove parla di “tutti i laici” e cioè che il maschile plurale è inclusivo del femminile. Oggi l’esplicitazione si rende necessaria, perché non è più ovvio che il maschile possa pensare di parlare da un punto di vista universale, come se fosse neutro.

Selene Zorzi

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