Dialogo “de auctoritate”: la risposta di Andrea Ponso


salmecamion

Come è evidente, la “pandemia” con le sue urgenze, ci porta a discutere di autorità. Le provocazioni sollevate da Giorgio Agamben, le riflessioni di Marcello Neri, le considerazioni di Andrea Ponso aiutano a considerare aspetti dimenticati, nascosti e urgenti. Con l’ultimo degli autori citati abbiamo intrecciato, da alcune settimane, un discorso che ha, more socratico, l’andamento di un dialogo pacato e riflessivo, quasi meditativo. Il penultimo anello di questa catena di considerazioni era stato il mio testo sul “dissidio a proposito della autorità”, al quale ora Andrea risponde con questa articolata risposta, di cui lo ringrazio.

Presunzione di sicurezza e presunzione di diffidenza

Caro Andrea,

come sempre stimoli la mia riflessione, come pochi devo dire, e ti ringrazio infinitamente. Provo quindi a confrontarmi con il tuo scritto che mi hai segnalato.

Parli giustamente di una idea di autorità come autorevolezza nel far nascere e, soprattutto, nel lasciar nascere e crescere, nella sua capacità di preservare questo tipo eventi concretissimi. Ma, sinceramente, penso che tale forma di potere – o, forse, sarebbe meglio dire di “capacità di sviluppare la potenza intrinseca in ogni esistenza – sia, nella maggior parte dei casi, un abbaglio e una rappresentazione, almeno a livello sociale e comunitario. Ed è una delle cose, io credo, che il virus ci sta mostrando nella maggior parte dei casi: la potenza si trasforma in potere, si coniuga e si scarica sui singoli ben mascherata; il suo fine può anche essere buono, ma i mezzi che è costretta ad usare, proprio per la deflagrazione di tutto quello che avevamo vissuto come politica nell’ultimo secolo, tra potere esecutivo e costituzionale, non ha più la forza di essere tale nei singoli stati e si è quindi trasformato in gestione, in amministrazione e, per queste cose, l’autorità come autorevolezza non è necessaria. Non c’è più “governo” così come veniva inteso dalle categorie politiche e sociali tradizionali: per questo non si può nemmeno parlare di un potere ben preciso e strutturato e consapevole del suo imperio; al contrario, mi pare proprio che sia l’ingovernabilità, l’incapacità di trovare nuovi paradigmi e nuove forme che non siano la semplice gestione amministrativa a causare la restrizione delle libertà e dei doveri. Viviamo con in testa vecchi paradigmi politici e anche antropologici, tara dello stesso Agamben, che si ferma al “pensato” in ambito politico, anche se nella sua archeologia c’è qualcosa che si rivolge al futuro, perché oggi una vera archeologia può farsi solo nel/per il futuro che non conosciamo e che non possiamo chiudere in forme già date e logore. In questo senso, certamente, il virus può riaprire delle domande ma, in tale contesto paradigmatico, ci si affretta subito a censurarle con le risposte più semplici che danno sicurezza negando la complessità.

Ed è in questo senso, mi pare, che siamo passati da una condizione pre-virus che potremmo chiamare presunzione di sicurezza, ad un’altra che è invece legata al bisogno assoluto di protezione: entrambe, mi pare, poco realistiche nei fatti e, soprattutto, entrambe fortemente immunitarie. Tutto ciò che sta tra questi due estremi è la zona grigia e ancora senza immagine che non sia già simulacro che invece credevamo di conoscere bene: è lo spazio della comunità, è uno spazio in cui non si condivide un insieme di sicurezze ma le proprie debolezze.

La tradizione dei Padri vedeva proprio nella presa di coscienza progressiva delle proprie debolezze la porta di accesso unica alla vita e alla comunità spirituale, ad una vita in pienezza e unificata. Ma, a quanto pare, in questo passaggio che abbiamo appena visto, ciò che viene in qualche modo mostrato e subito messo a tacere è in realtà proprio questa debolezza, questa finitezza, questo essere in balia di qualcosa che non sappiamo descrivere, definire, e dal quale dobbiamo assolutamente proteggerci non solo dal punto di vista strettamente profilattico. Non mi pare, infatti, che le massicce immagini e notizie sul virus, sulle morti e sulla sua pericolosità abbiano davvero creato questo senso di debolezza e di relazionalità in cui tale debolezza si possa condividere comunitariamente: al contrario, nella maggior parte dei casi, il terrore ha generato l’immediata difesa, fatta di chiusure e distanziamenti non solo, lo ripeto, di tipo profilattico.

Si parla molto dell’impatto di questa paura della morte e del contagio, ma siamo davvero sicuri di averla incontrata, di averla davvero presa in carico singolarmente e comunitariamente? Non c’è forse stato il rischio e l’effettiva messa in azione di strumenti atti ad allontanarla anche dalla sola riflessione e dal sentire? Non l’abbiamo censurata proprio grazie all’eccesso della sua esposizione mediatica? Non l’abbiamo vissuta solamente come intollerabile e invivibile? Certo le azioni in cui riscoprire che rinunciando alla propria libertà di movimento, ad esempio, erano funzionali e buone per la salvezza degli altri è una cosa positiva. Ma siamo davvero sicuri che non si sia trattato soprattutto di una presa di distanza fondamentalmente egoistica e censoria del dato reale della finitezza umana e della morte?

Share