Difficile fraternità: la tensione tra evidenza e autorità in “Fratelli tutti”
“Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo”: così W. Faulkner nel 1949, all’atto della consegna del premio Nobel. La frase è stata ripresa nel 1982, da Gabriel Garcia Marquez, di nuovo a Stoccolma, quando è toccato a lui di ricevere il premio. Anche “Fratelli tutti” (=FT), la grande enciclica sulla fratellanza, scaturisce dalla urgenza di una grande risposta al “dramma del nostro tempo”. Che è dramma ambientale, certo, ma dramma dell'”antropocene”, della dignità dell’umano, allo stesso tempo esaltato e cancellato, reso supersignore e insieme superservo. Un papa che viene dall’america latina, proprio come Gabo, ha portato a Roma una lingua e un pensiero segnato dai “cent’anni di solitudine” dei popoli del sud del mondo, che hanno una domanda diversa di fraternità, proprio perchè vedono meglio le carenze della libertà e della uguaglianza, quando siano lasciate a se stesse.
Così la fraternità appare, inesorabilmente, come “la” questione. E non si capirebbe il testo di “Fratelli tutti” – come dimostrano di fraintenderlo non pochi interpreti – se lo si astraesse non solo dal “contesto” da cui scaturisce, ma anche dalla “domanda nuova” che papa Francesco allo stesso tempo assume e pone. Come primo papa “figlio del Concilio”, Francesco sta “oltre” e “fuori” rispetto alle impostazioni vecchie e asfittiche della questione “fraterna”. E il rimprovero, che alcuni gli muovono con rozzezza, di aver “abbandonato il terreno sicuro della dottrina sociale”, di aver “parlato rinunciando alla identità”, dimentica che fraternità, con libertà ed eguaglianza, sono parole che da 200 anni hanno cambiato significato, anche nella dottrina ecclesiale. Proviamo a percorrere rapidamente i punti salienti di questa “nuova accezione”.
Fraternità dal basso e dall’alto
La teoria che sta al centro di FT cerca una raffinata mediazione tra due poli opposti che oggi vanno per la maggiore: da un lato l’idea che la fratellanza consista in una “evidenza dell’umano universale” e dall’altra che la fratellanza sia garantita solo dalla “autorità di una tradizione determinata”. E non di rado i credenti, i cattolici, i pastori, e anche i teologi, sono tentati di identificarsi semplicemente con il secondo corno della alternativa: e pongono la fraternità recisamente come risultato di una autorità. FT non segue questa via. Piuttosto cerca una mediazione, sapienziale, tra questi opposti. Perché sa bene che tanto la via della evidenza, quanto la via della autorità facilmente conoscono lo scacco. La fraternità si manifesta come disastrosa sia nel racconto biblico, sia nel mito civile: Caino e Abele, da una parte, e Romolo e Remo, dall’altra, sono un ammonimento tremendo: le forme di evidenza “genetica”, “tradizionale”, “sociale” della fratellanza non sono davvero consistenti. Anzi,, proprio ponendosi come “parziali”, i fratelli diventano principio di guerra piuttosto che di pace. Senza vocazione – sia essa religiosa o civile, ispirata o pensata – la fratellanza può diventare un disvalore: non solo gli assassini tra fratelli, ma anche gli eccessi di favori ai fratelli sanno violentare la comunione. Tuttavia, parlare di “vocazione alla fratellanza” significa superarne la pretesa evidenza e affidarla ad autorità come la parola, la legge, la famiglia, la generazione, la educazione. E l’atto di mediare tra determinazione particolare della fraternità e esperienza universale della fratellanza sta al cuore del lavoro culturale e anche del lavoro teologico. Vi è qui una sfida per il pensiero da assumere in toto. Se facciamo della teologia semplicemente la nemica delle evidenze moderne, la sfiguriamo irrimediabilmente. Anzi, proprio la teologia cattolica dovrebbe essere la più interessata a cogliere la universalità del tema.
Il rapporto complesso con libertà ed eguaglianza
Questo primo punto si completa in un secondo: non solo nel “motto” della rivoluzione francese, ma nella esperienza che da quel motto è discesa nella nostra vita quotidiana, la libertà e la eguaglianza non garantiscono la fraternità. Se la libertà non è fraterna (ossia in qualche modo originariamente relazionata) e se la eguaglianza non è fraterna (ossia in qualche modo strutturalmente differenziata) entrambe perdono se stesse. Così scopriamo, oggi, con molta maggiore lucidità di 100 o 50 anni fa, che la inevidenza della fraternità corrisponde alla inevidenza della libertà e della uguaglianza. Potremmo dire che il discorso franco e diretto con cui FT mette a nudo la pretesa di “immediatezza” con cui ci poniamo di fronte alla libertà e alla uguaglianza non solo recupera il “ruolo della fraternità”, ma disinserisce la “arancia meccanica” con cui abbiamo troppo semplificato la nostra esperienza civile. La semplificazione è una novità politica tardo-moderna che appare utile, ma che distorce lo sguardo. Non è la “apologetica dell’ancien régime” a parlare qui, bensì una più esigente “fenomenologia dell’umano”. E’ la città come tale a meditare su di sé. A tale sguardo corretto appare che:
a) La libertà di ogni soggetto e la sua dignità, che dobbiamo poter pensare astrattamente come un inizio autorevole, in concreto è sempre anche compito e dono. Una libertà assoluta posta alla origine non è solo “affermazione della dignità dell’umano”, ma anche “corruzione del lupo”. L’animale è all’inizio di sé, mentre l’uomo è “un” inizio posto da altri e aperto ad altro da sé.
b) La uguaglianza tra tutti i soggetti, che deve essere custodita e promossa, se non è attraversata dalla “passione per la differenza”, dall’ascolto della diversità, diventa omogeneità, uniformazione, omologazione, appiattimento, perdita di sé.
c) La fraternità come “relazione di comunione radicale tra diversi” è così condizione di libertà iniziata e di eguaglianza dei diversi. Ma per questo deve allo stesso tempo essere determinata in concreto e affermata come un universale. E qui le categorie scricchiolano e le pratiche sono messe alla corda.
L’ombra lunga della paternità e della figliolanza
Ognuno dei punti che ho toccato qui fuggevolmente corrisponde ad una “linea di resistenza” del discorso ecclesiale contro il mondo moderno. Ne abbiamo sentito l’eco da almeno due secoli: la libertà originaria come”negazione di Dio”, la uguaglianza come “negazione della societas inaequalis” e di ogni autorità, la fraternità universale come recisione di ogni paternità e di ogni figliolanza sono, effettivamente, luoghi comuni della polemica “antimodernistica” che ha attraversato tutto il XIX e XX secolo. Di questa polemica – che diventa principio di incomprensione del testo – sono vittime non solo coloro che da destra accusano Francesco di “parlare come un massone”, ma anche quelli che gli rimproverano di aver adottato una “postura illuminista” troppo accentuata e poco efficace. In realtà, io ritengo che la originalità “non europea” della impostazione di FT dipenda dall’affacciarsi, nella mens del magistero ecclesiale, di nuovi linguaggi e di nuove esperienze. La universalizzazione della fratellanza, così, è il frutto di una “tradizione meno universale” di quella europea. E’ come se il “trauma” della perdita di autorità che la Chiesa ha vissuto in Europa, e che ha condizionato tanti giudizi e tante scelte di ieri e anche di oggi, fosse riletto da Francesco con altre chiavi e con diverse priorità.
Per questo mi sembra molto opportuno che FT proponga una analisi del “mondo fraterno” non come una “conseguenza della autorità della Chiesa” e nemmeno come un “prodotto del mercato”, ma come diverse forme, mediate e temperate, di esperienza di paternità e di figliolanza. Non è un caso che il terreno su cui è fiorita FT fosse stato preparato da relazioni “interreligiose” – soprattutto con il mondo islamico e con il mondo ebraico – che rappresentano, appunto, esperienze di autorità di amore nel cuore della società plurale. Una allenza tra le tradizioni religiose diventa, così, la via per una elaborazione anche politica ed economica del “governo del mondo” che non sia affidato o alle bande di lupi o ai paternalismi dei sovrani. E ciò viene dal più sovrano dei sovrani (per opinione comune), ma che è chiamato ad essere anzitutto servo dei servi.
La sfida tremenda ma decisiva
Questo disegno implica una sfida radicale: ripensare la triade della rivoluzione francese fino in fondo. Il che non significa “assumerla illuministicamente”, ma neppure “rifiutarla antimodernisticamente”. Mediare la libertà con il riconoscimento di “autorità liberanti”, mediare la uguaglianza con “differenze irrinunciabili” e mediare la fraternità come assunzione della paternità e della figliolanza che non solo ci anticipa, ma che è richiesta anche a noi. Nel non accettare di schierarsi “da una parte contro l’altra”, ma nel tenere aperta una mediazione profetica e dialogica, FT chiede a tutti i fratelli percorsi coraggiosi tanto sul piano pratico, quanto sul piano teorico. Sia il mondo sia la Chiesa possono elaborare “strategie di fraternità” non dall’alto, ma scandagliando le diverse genealogie della libertà, della uguaglianza e della fraternità, che sono sempre “dal basso”. “Non ammettere la fine dell’uomo” – come diceva Faulkner – implica di elaborarne ed assumerne una ridefinizione realistica e ambiziosa. Non di un lupo, non di un padre, non di un figlio, non di un padrone o di un servo possiamo disporre immediatamente: possiamo riconoscerci fratelli e sorelle, rispondendo ad una vocazione che può abitare non solo le chiese o i templi, ma anche le strade e le città. Ma questi “fratelli e sorelle” devono fare i conti, apertamente e serenamente, con il lupo, con il padre/figlio e con il padrone/servo che abita in loro e che riposa nel loro prossimo, come fratello sperato, come sorella sognata. E’ una complessità da assumere e da custodire, che non si lascia semplificare troppo senza causare danni peggiori. Questa complessità, che di certo è anche complicatezza spaventosa, rimane anzitutto meravigliosa complicazione, struttura originale di quell’animale che ha la parola e le mani.
” E qui le categorie scricchiolano e le pratiche sono messe alla corda”. Di nuovo sono costretto ad ammettere che lei, caro Grillo, ha ragione! FT è ormai oltre il magistero; si tratta di un testo che si distanzia completamente dalla concretezza della vita cristiana, per dipingere un’utopia distorta da visioni ideologiche e fraintendimenti storici. Di fronte alla verbosa prolissità di oltre 200.000 battute, tra le quali spiccano solo le autocitazioni di un autore avvitato a trovare una impossibile via d’uscita umana a problemi che non è più in grado di risolvere, si può solo esclamare: “Il re è nudo!” E di nuovo, caro Grillo, con amarezza, sono costretto ad ammettere che suo figlio aveva ragione.
Programmati per il crollo
L’intellettualismo tende a considerare una parte riduttiva ed in quanto tale in fondo inesistente dell’uomo, la sua astratta ragione. Restano dunque in vario modo fuori la sua anima, così disincarnata, e l’emozionalità, la vita concreta, della persona. Non a caso possiamo spesso osservare nella cultura tre tendenze fondamentali, magari variamente giustapposte: il razionalismo, lo spiritualismo, il pragmatismo.
Vi è dunque una relazione tra le impostazioni riduttive del discernimento e l’autentica umanità dell’uomo. Ma queste settorializzazioni in quanto tali tendono a chiudere in gabbie la conoscenza. Le persone si strutturano secondo modi di vivere spesso inconsapevoli e poco disposti ad un oltre. Potremmo osservare che giudizi e orientamenti di un tale soggetto possono risultare per certi versi largamente pre-programmati.
Al tempo stesso il fuoriscire per alcuni aspetti dal razionalismo da parte dello spiritualismo e del pragmatismo mostrano che l’umanità tende ad una piena espressione. Solo l’uomo autentico ed integrale, solo la coscienza spirituale e psicofisica nella Luce serena, a misura può risultare sempre più aperta al pieno ritrovarsi e anche al continuo oltre del mistero divino, umano, cosmico.
Le gabbie sopra indicate tendono a costringere in schemi e dunque a ridurre la vita della persona ad un fare più che ad un sempre più profondo e libero essere. Siamo alle radici dello svuotamento attuale che sta conducendo la società al crollo sotto la guida di apparati come teleguidati dalla fatalità della tecnica.
Molti, persino tra le gerarchie ecclesiastiche, sono nella morsa di queste strutturazioni. Così per esempio si finisce in fondo per ritenere meno determinante la formazione scolastica alla luce della propria identità e nello scambio con le altre. Il razionalismo spegne e appiattisce. Nelle scuole cattoliche si possono trasmettere le stesse astrazioni nozionistiche di quelle statali.
Per tali motivi quando parliamo di un sistema telecomandato da pochi potenti e sopra ad essi dalla tecnica certo consideriamo il bisogno di lavorare o la smania di successo e guadagno di alcuni dell’apparato ma dobbiamo tenere conto anche della possibile inconsapevolezza di molti. Magari brava gente che decenni orsono sperava in un miglioramento sociale per tutti, specie per i più oppressi e ora si ritrova orientata dalle dinamiche svuotanti sopra accennate a pensare secondo le convenienze della finanza e dei padroni del web. In una apparente eterogenesi dei fini che in realtà era prevedibile ed è stata ben presto prevista, appunto perché strutturalmente programmata.
Ormai solo un Dio ci può salvare, ha sostenuto persino un filosofo come Heidegger. Si deve diffondere la consapevolezza del bisogno di un salto di qualità, il passaggio dal razionalismo e dagli altri citati orientamenti ad esso opposti e da esso dipendenti alla libera maturazione di tutta la persona. Il mio cuore immacolato trionferà.