Diritto di opporsi, dovere di sottoporsi e pura grazia. Il dibattito sulla liturgia ecclesiale “sospesa”


Assemblea-liturgica

In un testo molto limpido su Facebook, che reagisce ai recenti interventi di A. Riccardi, E. Bianchi e A. Melloni (con la aggiunta serale di B. Sorge), Stefano Sodaro mette in luce una questione di fondo, che emerge in trasparenza dalla logica di queste recenti parole. Egli la presenta così:

“Il punto però è … che, almeno per me, in queste ore non vengono affatto in gioco la libertà religiosa e la libertà di culto pericolosamente compromesse (sempre se ho ben compreso).
Qui si tratta di stabilire cosa è bene per la vita di tutti, laici e credenti, devoti e agnostici, religiosi e atei, tutti parte di una medesima comunità che trova nella Costituzione, non nel Vangelo che è riferimento di fede, la propria identità.”

S. Sodaro identifica bene, a mio avviso, una questione di fondo, che riguarda il delicatissimo rapporto tra “identità ecclesiale” e “identità civile” e che, in occasione di questo passaggio civilmente critico, non riuscirebbe ad esprimere altro che “assuefazione alla norma civile, che vieta gli assembramenti” o “rivendicazione ecclesiale di essere comunità, famiglia, corpo”. Una sorta di dialettica tra “resa” allo Stato e al suo presidio sanitario, o “resistenza” ecclesiale nelle proprie pratiche, con una certa indifferenza verso il “bene comune”. Fino ad ipotizzare una sorta di “immunità” delle pratiche religiose dal contagio, con l’uso di schemi scientifici e religiosi premoderni. Sorprende vedere evocati Santi medievali o Vescovi moderni per contestare presunte inerzie di impossibili santi e vescovi contemporanei. La questione sollevata da S. Sodaro merita una considerazione ampia e articolata

La medicina moderna e la rivoluzione civile

Non si deve dimenticare che la “autorità sanitaria”, così come oggi la concepiamo, è uno dei frutti della rivoluzione francese. M. Foucault, nel suo “La nascita della clinica” presenta in modo esemplare il sorgere di una duplica interpretazione del rapporto tra rivoluzione e malattia. Da un lato vi era il partito di chi pensava che il “mondo giusto” avrebbe cancellato ogni malattia. Dall’altro vi era chi pensava di costituire un “corpo” di “medici condotti” che facesse, sul piano territoriale, il paio con i parroci: ai primi sarebbe stata destinata la salute del corpo, ai secondi la salute dell’anima. Questo “doppio canale”  – che oggi è rappresentato dalla “medicina scientifica” e dalle “medicine alternative” – si è sviluppato lungo due secoli in modo capillare. La Chiesa, oggi, deve tener conto di questo sviluppo, nel momento in cui pone il problema della propria identità: di fronte alla malattia, la “autorità sanitaria” costituisce un interlocutore scientifico e politico con cui si devono fare apertamente i conti, non in modo semplicemente conflittuale: la salute del corpo riguarda anche la Chiesa, la quale non si accontenta certo di “diagnosi e terapie”, ma deve prenderle sul serio.

Non vi è dubbio che questo sviluppo culturale, in generale del tutto pacifico, crei qualche imbarazzo nel momento in cui la autorità sanitaria dei medici, degli scienziati e dei politici, dispone misure di limitazione della esistenza, dei tempi e degli spazi personali e pubblici, che vanno a interferire anche con le pratiche ecclesiali. In questi casi è possibile sentire riemergere gli antichi argomenti “contro la medicina”, che vanno dalla contestazione della sua autorità, alla immunizzazione della Chiesa – e del sacro – da ogni logica di presidio sanitario. E questo è grave.

Il potere sanitario dello Stato e la autorità ecclesiale

Come si persegue il bene comune? La pretesa della Chiesa di “chiamarsi fuori” dalla logica pubblica non deve sorprendere. La logica pubblica è nata, per certi versi, con strumenti messi a disposizione dalla tradizione ecclesiale. Ma è una impostazione “tridentina” pensare che, nella determinazione di scelte di carattere sanitario, sia messa in gioco la autorità della Chiesa. Questo modo di impostare la questione significa considerare la Chiesa, come 500 e ancora 200 anni fa, l’unico luogo originario di giustificazione della autorità. Mi sembra che appaia qui, nel fondo, lo stesso problema che per tutto il 1800 e ancora fino a Familiaris Consortio, ha fatto della “legge oggettiva” – ossia della competenza giuridica – il punto di evidenza della missione ecclesiale sul matrimonio. Che il “vero matrimonio” non sia quello civile, e che la “vera salute” non sia quella salvaguardata dalla autorità sanitaria, è una sorta di “sottotesto”, che permette a Riccardi, Bianchi e Melloni di reagire quasi con stizza a questa contingenza, in cui, allo stesso tempo, sembra farsi valere un “diritto di opporsi” alle logiche civili per dire la differenza cristiana, e pare necessario rivendicare un “primato della grazia” – identificato con la messa – che fatica a considerare davvero seriamente le logiche ragionevoli dell’etica civile.

Il titolo di un film e la difficile mediazione della identità ecclesiale

In questi giorni mi è capitato di vedere il film “Il diritto di opporsi”, che è la storia di un giovane avvocato afro-americano, che fonda una associazione per difendere gratuitamente i condannati a morte nello stato dell’Alabama. Mi ha molto colpito il fatto che il titolo originale sia “Just Mercy”, ossia “sola grazia” o “sola misericordia”. Mi sono chiesto come sia possibile che in italiano “Sola grazia” diventi “diritto di opporsi”. Pur considerando quanto sulle scelte incidano le esigenze di formulare il titolo in modo commercialmente appetibile, mi pare che il passaggio tra i due titoli sia del tutto istruttivo, anche per la vicenda che sto commentando. Resto sorpreso, infatti, che di fronte al “dovere di sottoporsi” ad un regime eccezionale, che investe l’intero corpo dei cittadini, le reazioni più spontanee possano essere o il “diritto di opporsi” (alla Agamben) o la rivendicazione di una “sola grazia” che chiede di diventare politicamente “immunità”. Così, sorprendentemente, sembrano coincidere le letture “anarchiche” e le letture “teocratiche”. Assumere, pazientemente, le differenze strutturali tra “diritto di opporsi”, “dovere di sottoporsi” e “autorità della grazia” mi sembra, oggi, l’urgenza primaria. Essa esige una rilettura teologica della identità ecclesiale, che non si lasci catturare né dal formalismo istituzionalistico, né dal sentimentalismo individualistico. Il luogo liturgico è al crocevia di tutti questi tre livelli. Ma non può essere pensato davvero né semplicemente come un “esercizio della libertà religiosa”, né come “esperienza autonoma”, che non risenta delle condizioni temporali e spaziali della comunità che la celebra. Leggere il “dovere di sottoporsi” alle norme eccezionali come il prevalere della paura, rispetto a cui la Chiesa dovrebbe esercitare il “diritto di opporsi”, con cui si confonde la profezia della “sola grazia”, mi pare un modo di comprendere la realtà attuale troppo condizionato da rappresentazioni datate e da pregiudizi duri a morire. Anche in questo caso, solo una riforma della Chiesa può rispondere con autorità alla crisi sanitaria, annunciando la speranza della fede in forme diverse dal canone tridentino, che invece in queste posizioni appare ancora come l’unico possibile. Ma la riforma della Chiesa è stata, anzitutto, riforma liturgica. Non è un caso che spesso la “resistenza” della identità venga identificata con pratiche liturgiche “preconciliari”, non a caso le più compatibili con il canone tridentino.

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