Divorziati risposati: indissolubile come indisponibile?


La discussione sulla misericordia e la indissolubilità del vincolo: obiezioni, risposte e una piccola proposta

Riporto alcune obiezioni che sono state mosse al mio ultimo post da parte dello pseudonimo “Minstrel”, sul sito Croce-Via, il 18 marzo scorso (cfr. http://pellegrininellaverita.wordpress.com/2014/03/18/i-segnali-di-fumo-di-grillo-e-il-kasper-segreto/).
L’autore, in modo stimolante, cerca di entrare nella logica della mia critica a Perez Soba, ma lo fa secondo categorie che, nel fondo, gli impediscono di capire una logica diversa da quella che appare, in lui, come una sorta di cristallizzazione della disciplina classica in dottrina assoluta. Ma non voglio anticipare troppo: ecco qui di seguito le obiezioni, cui faccio seguire le mie risposte con, alla fine, una piccola proposta di ulteriore riflessione.

A) LE OBIEZIONI

Queste dunque le due presunte logiche che non accetterei a priori: la prima perché è inconsistente da un punto di vista logico poiché contradditoria, la seconda perché condivide tutte le problematiche irrisolte riservate alle teorie filosofiche nominalistiche. Spiego:

1 – Dire che è logica poter disporre di uno dei mezzi per la “grazia santificante” (eucarestia) come mezzo per una misericordia (“pietistica” in senso moderno come dico io) che smentisce nei fatti una prassi che non risponde “all’essere in grazia di Dio” è contradditorio. Ma questa è una situazione assurda per antonomasia poiché si smentisce da sola. Grillo non dice questo? Questo perché è ancora tutto da provare che il divorziato risposato che compie tutti i suoi “doveri” con la seconda moglie è perfettamente e pienamente “fuori della grazia”? Davvero? Benissimo, meglio, ottimo, andiamo avanti!

2 – la seconda è pensare che i termini finora utilizzati possano essere riletti sotto la luce del nominalismo più estremo. “Vincolo indissolubile” non significa affatto “legame indivisibile”. O meglio lo significa finché l’uomo continua ad attribuire a questa parola, quel concetto. “Indissolubile” significa “indivisibile” in modo relativo. Cioè non esiste un concetto “assoluto” di “vincolo indissolubile”. L’universalità gnoseologica è utopia, “non è una proprietà delle idee ma una funzione delle parole.  Per ragioni di convenienza scegliamo di usare un’unica parola per designare molte idee diverse” (Mondin, storia della metafisica volume 3 pag. 256). Per esempio non esiste il “vincolo indissolubile”, ma esiste il “tentativo di vincolo indissolubile di minstrel ancora in atto” e insieme il “tentativo di vincolo indissolubile non andato a buon fine di tizio”. Entrambi hanno iniziato il loro percorso credendo nell’indissolubilità del matrimonio, ma questo è tentativo di un ideale. Va benissimo ragazzi, chi sono io per giudicare un nominalista convinto figlio di Hume? Il problema è che ti scontri con l’incoerenza di questa posizione metafisica e con il fatto che questa posizione contrasta (e di molto) la visione filosofica realista insita nel Magistero. Infine ti scontri con la mia ricerca metafisica poiché il tomismo mi appare per ora come l’unico sistema metafisico coerente, ma questo è un problema mio.

SEGNALI DI FUMO

Dunque veniamo al prof. Grillo riletto con queste due idee in testa:

“[Soba] lavora con una ardita finzione retorica, per tentare, onestamente, di presentare la indissolubilità – compresa in modo rigidamente classico – come l’unica forma possibile di vera misericordia verso i coniugi.”

Come faccio a non ascriverlo alla seconda obiezione nominalista? Solamente se mi si chiarisce in modo preciso e netto cosa significhi COMPRENDERE la parola “indissolubilità” NON IN MODO CLASSICO. Non mi basta infatti dire che ‘indissolubilità intesa in senso classico “non riconosce né crisi della famiglia, né individualismo moderno, né famiglia mononucleare né crisi della generazione, né trasformazione dell’intimità” perché ne so tanto quanto prima. A me non interessa capire del discorso del prof. Grillo cosa non è stato contemplato nell’approfondimento della dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, quanto capire come l’indissolubilità possa essere COMPRESA IN MODO MODERNO. Che spazi di MANOVRA ha la teologia per reintepretare il concetto (NON IL NOME) legato all’indissolubilità che NEL REALE corrisponde ad una coppia che semplicemente, pragmaticamente… non si lascia?!

“Se da parte sua Kasper chiede misericordia per la ingiustizia che si produce in una recezione classica della disciplina della indissolubilità, quando venga applicata in modo rigido alle mutate forme di vita e di cultura attuali, Pérez Soba vuole invece dimostrare l’esatto contrario: sarebbe Kasper che, volendo sospendere l’accezione classica di indissolubilità, genererebbe una condizione di grave ingiustizia e di mancanza di misericordia!”

Grande sintesi! Il problema è che questa sintesi riproduce perfettamente le mie domande. Si rende conto Grillo che Soba dichiara con il suo scritto cosa sia la misericordia collegandola alla giustizia di Dio (e anche ai tempi quando ascoltavo le lezioni di Barbaglia questa appariva l’unica lettura possibile della misericordia divina nella Bibbia), ma Grillo in questa sua non definisce né cosa sia la misericordia né se essa sia in qualche modo collegata alla giustizia di Dio, né di cosa sia (again) la ricezione “non classica” della disciplina dell’indissolubilità.

Ma Grillo ci mette qualcosa di più, aggiunge un punto preciso, questo:

“[Per Soba] È il sistema dottrinale e disciplinare che garantisce tutto il meglio. Qui sta la fragilità dell’argomento proposto da Pérez Soba. E’ una sorta di “argomento ontologico”, applicato al matrimonio, che prescinde totalmente dalla natura e dalla cultura, e propone incautamente un matrimonio ridotto a “sola gratia”, che dispensa dal prendersi cura dei soggetti, naturalmente e culturalmente implicati in esso.”

Mi sembra in sé un bel argomentare, ma non comprendo come possa essere smontato il “sistema dottrinale” sulla “indissolubilità” salvaguardando la continuità con il medesimo sistema dottrinale. Come si salvaguardia l’idea che l’indissolubilità del matrimonio è, parafrasando il Card. Caffarra: “un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere.”? Vedete che tutto torna? E’ la seconda opzione: tutti non siamo legati indissolubilmente, alla fine del percorso vedremo se abbiamo tenuto fede ad un bel ideale. E va beh, grazietante (tuttoattaccato).

Ma più avanti Grillo pare spiegare meglio:

“Pérez Soba dipende pesantemente da una visione della dottrina non aggiornata, di cui parlerò tra un attimo […] Nel matrimonio, come sappiamo da molti secoli, la natura e la cultura mediano l’accesso alla grazia, la quale suppone la natura e la cultura, per perfezionarle. Ma tale perfezionamento non avviene con la imposizione, bensì con la misericordia. Così, il discorso che oggettiva in modo troppo diretto, istituzionale, disciplinare, la misericordia, finisce necessariamente, iuxta propria sua principia, con lo smarrire ogni necessità di misericordia. La misericordia, in questa costruzione astratta, essendo totalmente garantita da un Dio ridotto non solo a dottrina, ma a disciplina, e perciò non avendo lacune di sorta, ha il vantaggio di identificarsi letteralmente con la disciplina, ma produce il grave svantaggio di diventare formale e “senza cuore”. Quando perde il pudore del limite e la coscienza della vulnerabilità, per eccesso di pretesa divina, la teologia che si irrigidisce nelle proprie certezze disciplinari rischia di scivolare facilmente nel giustificare un pensiero disumano e una prassi indifferente.”

Eccoci dunque al quid: finché non si chiarirà con precisione cosa intende teologicamente il Prof. Grillo con “misericordia” e dove la basano questa ermeneutica (ha un fondamento nel Magistero? e nelle scritture? I Padri?) non potremo mai cogliere a pieno gli argomenti che propongono! E non credo possano proporre una misericordia che io chiamo “pietistica” poiché misericordia quell’atteggiamento non è, come spiegavo nel primo punto. Dunque non possono avere in mente quel tipo di misericordia. O no?!

Insomma, io sono ignorante, ma secondo me il professor Grillo non dice nulla.

B) RISPOSTE ALLE OBIEZIONI

Procedo nell’ordine con cui vengono presentate le osservazioni. Anzitutto le due premesse:

Ad 1:  la categoria del “non essere in grazia di Dio”, per intercettare la questione dell’”esercizio della misericordia” nei confronti dei divorziati risposati è del tutto fuori luogo. Se la questione si apre con la ammissione storica che Familiaris Consortio ha inaugurato, parlando di “comunione ecclesiale” per coloro che si trovano a vivere questa condizione, la fedeltà a questa apertura non consiste nel riaprire l’armadio delle definizioni “emarginanti” e “discriminanti”, perché incoerenti con la apertura obiettiva di FC. La contraddizione è visibile nella riduzione a “misericordia pietistica” di ogni possibilità di riaprire i giochi della vita dei soggetti “in seconda unione”. Se non si riesce a cogliere la “morte” del vincolo come possibile, oltre che come reale, ogni misericordia appare come una pericolosa ipocrisia. Se invece il vincolo “può morire”, allora ogni irrigidimento e ogni ostacolo alla possibilità di un “nuovo inizio” appare come una scandalosa mancanza di misericordia. La questione che viene qui negata da Minstrel, esattamente come da Perez Soba, è proprio questa: accettiamo come un dato di fatto che il vincolo, in determinate circostanze, possa morire, oppure ci ostiniamo semplicemente a negare che ciò sia possibile, non solo antropologicamente, ma teologicamente? 

Ad 2:  la riduzione a “nominalismo” di ogni rilettura del realismo classico mi pare il frutto di una incomprensione di fondo. Pur essendo legittimo discutere anche filosoficamente sulla questione del vincolo, bisogna tuttavia riconoscere che il dibattito non può essere impostato con la vecchia contrapposizione tra realismo e nominalismo. Non è nominalismo accorgersi che le categorie classiche non sono più in grado di leggere il reale. Questo è realismo. Piuttosto mi sembra nominalistico far finta di niente e ricondurre, comunque, tutto al proprio schemino scolastico. Le cose, da almeno duecento anni, si discutono su un altro piano, a meno di pensare che la “ortodossia cattolica” possa essere garantita solo dalla filosofia neoscolastica. Qui, tuttavia, la questione non è e non può essere anzitutto filosofica, ma teologica. E’ la teologia successiva al Concilo Vaticano II che, essendosi liberata dei traumi antimodernisti, può serenemanente distinguere tra sostanza del “depositum fidei” e forma linguistica e concettuale del suo rivestimento.  Qui, e lo ripeto, se si perde questa distinzione, si perde la possibilità di abitare la tradizione come un giardino e non come un museo. 

Sulle singole affermazioni:

– intendere diversamente la indissolubilità non solo è possibile, ma è di fatto già presente nella esperienza ecclesiale: la lettura ontologica, quella deontologica, quella fattuale, quella romana e quella barbarica sono tutte diverse versioni della medesima dottrina cristiana. Il fatto che in un certo periodo ci si sia assestati su un certo equilibrio, ha sicuramente le sue ragioni. Ma se oggi abbiamo bisogno di scoprire che la “indissolubilità” determina la condizione perché una coppia “non si lasci”, ma non può impedire di pensare la logica delle “coppie che si lasciano” secondo modalità diverse da quelle semplicemente emarginanti e colpevolizzanti, a cui siamo stati abituati per secoli, in società prive di mobilità sociale, con famiglie allargate, con forme di controllo sociale e comunitario che lasciavano ben poco spazio al soggetto individuale e personale. Salvaguardare la tradizione e comprendere il proprio tempo non sono cose antitiche, come sembra intendere la obiezione, nella quale si nasconde un’idea di mondo e di Chiesa che non rispondono più, almeno da un secolo, alla ufficialità ecclesiale.

– la domanda sulla comprensione del vincolo indissolubile viene fraintesa nel momento in cui ci si vincola ad una sua comprensione unilaterale. Se il “dono” viene inteso come una “condizione ontologica che si impone”, allora veramente non ci sarebbe alcuno spazio per mediare alcunché. Il dono diventerebbe, effettivamente, una pericolosa forma di ricatto. Che il “dono di grazia” si possa proporre semplicemente come una “cosa”, questo nega tutta la tradizione ecclesiale, che ha accuratamente sondato le condizioni soggettive e corporee della indissolubilità. Non è in gioco un presunto nominalismo o costruttivismo, ma la debolezza di una posizione dottrinale che fa difendere il vincolo indissolubile semplicemente ad una logica oggettivante e giuridica. Questa è la posizione debole e chiusa, non quella che prova ad uscire dalle strettoie per offrire alla tradizione uno spazio di misericordia diversa dalla logica di una metafisica che si impone o di un diritto che detta legge.  

–  Che la logica di una dottrina del matrimonio fondata sulla lettura classica del vincolo, di natura ontologico-giuridica, possa resistere ad una diversa lettura della misericordia, a causa di una “indeterminatezza” del concetto di misericordia, mi pare un paralogismo presupposto e quasi imposto dalle premesse che ho già criticato. La misericordia di Dio è la riapertura di credito verso il suo popolo, che sorprende anzitutto il popolo stesso, fino a superarne gli stessi confini, fino ad aprirsi all’umanità intera. Il fatto che non venga definita in assoluto è precisamente la sua caratteristica. La giustizia di Dio è subordinata alla sua misericordia, non viceversa. Se possiamo avere la misura dell’atto giusto, non possiamo avere la misura dell’atto  misericordioso. L’errore di Soba, che Minstrel condivide, è precisamente di aver sottoposto la misericordia al bilancino da farmacista del giudice. Ma questo deforma irrimediabilmente il Dio e la tradizione che ad esso si riferisce.

Infine, non vi è alcuna necessità di correlare all’”essere ignorante” il “non dire nulla”. Diciamo, piuttosto, che la differenza tra non dire nulla e dire qualcosa è, in teologia, assai sottile:  come diceva Karl Barth «La via regia della semplicità divina e la via della più inaudita illusione corrono parallele nella storia della teologia, in tutti i tempi e in tutti gli sviluppi, separate soltanto dallo spessore di un capello». Credo di aver mostrato la insufficienza della categorie classiche di comprensione della relazione tra misericordia e giustizia e della nozione di vincolo. Non perché non si conferma la teologia classica non si dice nulla. Non perché non si capisce una visione nuova ci si deve autodefinire ignoranti. Non si tratta di ingnoranza o di non dir nulla. Si tratta, piuttosto, di affinare le categorie con cui parliamo della nostra grande e benedetta tradizione sul matrimonio. Come diceva Aristotele, “è una forma di rozzezza non distinguere in una ricerca tra ciò che deve essere dimostrato e ciò che non deve essere dimostrato”. Kasper ha scritto un intero libro sulla misericordia. Se uno vuole orientarsi, trova lì molte mappe per uscire dalle strade più battute e che, talvolta, non portano più da nessuna parte. Io credo che oggi non si tratta di offrire ulteriori definizioni di misericordia per poter vedere i problemi, ma, piuttosto, occorre riconoscere i problemi nuovi, per poter sentire e comprendere in che modo il Signore ci chiede di essere capaci di misericordia: quella vera, quella che sorprende e lascia spiazzati, non quella già garantita dalle strutture dottrinali o istituzionali, che tendono sempre a conservare più se stesse che la loro ragion d’essere.  

Aggungo qui un ulteriore contributo alla riflessione su come “tradurre” la dottrina della indissolubilità del vincolo matrimoniale in categorie adeguate alla nostra storia e cultura

C) Indissolubile come indisponibile? Tentativo di una breve riflessione


La contestazione cristiana della disponibilità soggettiva del vincolo matrimoniale appare chiaramente giustificata dalle parole inaggirabili di Gesù, che prende inequivocabilmente posizione rispetto alla tradizione giudaica alla quale egli apparteneva. La durezza del cuore aveva introdotto nella Legge la possibilità del “ripudio” e Gesù contesta questo indurimento di cuore, rifacendosi a un “principio” diverso, di comunione e di dono.
La contestazione fa valere quella logica del “dono”, che è patrimonio qualificante e irrinunciabile della tradizione ecclesiale. Su questo, io credo, non è difficile trovare un consenso tra le diverse linee di ermeneutica della teologia matrimoniale.
Ben più complesso, a me pare, è intendere in modo preciso e non fondamentalistico, che cosa significa concretamente questo principio di comunione. Che l’uomo “non osi sciogliere ciò che Dio ha unito” sicuramente deve essere inteso come superamento della logica del ripudio. Che tuttavia il “ripudio” possa essere immediatamente equiparato al “divorzio” e alla “fine del matrimonio”, così come viene inteso in senso tardo-moderno, non è certo sicuro. 
Sembra infatti che tra i due concetti vi sia la differenza tra piena disponibilità del legame nell’atto di ripudio, e parziale disponibilità, che appare dal divorzio.
Ora qui si apre una questione decisiva. Se le parole di Gesù mirano a sottrarre il matrimonio alla manipolazione dell’uomo e della donna, non credo che sia necessario trasformare questa decisiva preoccupazione in una teoria ontologica e oggettivante del vincolo, che si imponga meccanicisticamente alla realtà storica e vitale della coppia. In altri termini, la consapevolezza che il matrimonio sia indisponibile – ossia che non può essere sciolto dalla volontà dei coniugi – non significa che la esperienza non dimostri che, pur restando indisponibile alla volontà, il matrimonio si riveli condotto alla fine non dalla volontà dei singoli, ma dallo sviluppo di una relazione, che giunge alla sua fine al di là e al di qua della volontà dei suoi membri. Vorrei dire che in questi casi l’esperienza del “fallimento matrimoniale” assomiglia, talora, piuttosto a una malattia che non ad un peccato. E la logica della guarigione deve essere talvolta più simile a quella dell’unzione piuttosto che a quella della penitenza.
Questi casi, che non sono certo la totalità dei casi di divorzio, ma che non sono neppure così rari, non possono essere equiparati al “divieto di ripudio” e quindi possono e debbono essere trattati con una logica diversa. Con altre parole, se la indissolubilità viene interpretata non secondo un codice oggettivo, ma secondo un rapporto intersoggettivo, potremmo dire che la indissolubilità può essere tradotta in termini di indisponibilità. Mi chiedo se, quando venga salvaguardata questa indisponibilità, non potrebbe aprirsi uno spazio, non enorme né generico, ma certo assai significativo, per identificare quei casi in cui la “morte del matrimonio” non sia riferibile alla disponibilità e volontà di un coniuge, ma sia l’esito di una reciproca e progressiva incomprensione, lontananza, inaffidabilità e diffidenza. Dove questo accade, e quando venga costatata una condizione di irreversibilità della seconda unione, come potremmo non considerare che questi casi, restando fuori dalla portata delle parole di Gesù, e rientrando nella antichissima disciplina ecclesiale del “salvo il caso di morte”, liberino dal vincolo i soggetti e rendano possibile un “nuovo inizio”, senza che si debba pensare – o fingere – che quel vincolo non sia mai esistito?
È legittimo chiedersi se è possibile tradurre “vincolo indissolubile” con “vincolo indisponibile”. Io sarei dell’idea che, con tale traduzione, la dottrina classica resterebbe immutata nella sua sostanza, come abbiamo imparato dal Concilio Vaticano II. Se la dottrina restasse immutata nella sostanza, ma si dovesse provvedere con urgenza a una “riformulazione del suo rivestimento”, una traduzione del concetto di indissolubilità, che la dottrina ha dedotto dalla scrittura, ma che poi ha elaborato e strutturato teologicamente e soprattutto giuridicamente, lascerebbe alla chiesa la libertà responsabile di dare forma più adeguata alla disciplina di questa dottrina.
Questo è precisamente il compito pastorale della Chiesa: restare in una continuità vitale con la propria tradizione. Difenderla scrupolosamente, ma senza paura di farla parlare con i linguaggi più persuasivi, più profondi e, nello stesso tempo più pudichi e più rispettosi. Una teologia radicale e pudica non è impossibile. Salvaguardare il sogno di Dio per la vita delle coppie e per il loro “per sempre” non significa tradurre la Parola di Dio nelle categorie della necessità e della imperturbabilità delle cose morte. Dire che il matrimonio viene trascritto nelle categorie dell’essere – ad imitazione della storia teologica dell’eucaristia – non è affatto solo a garanzia della qualità della testimonianza che si reca alla volontà di Dio. Dio, se trascritto nelle categorie del necessario, perde il suo tratto più caratteristico, ossia di stare oltre, al di là della necessità, di essere “più che necessario”. 
Se la formulazione della dottrina e la strutturazione della disciplina accettassero la logica di questa “traduzione” della indissolubilità nella indisponibilità, ne potrebbero derivare una serie di conseguenze non irrilevanti. Provo a farne un elenco del tutto provvisorio, in forma di prima provocazione e di iniziale proposta, bisognosa di integrazione e di migliore precisazione: 

– salvaguardare la “indisponibilità” del vincolo significherebbe poter valutare le condizioni successive al consenso e alla consumazione, e dunque non dover essere necessariamente costretti a “retrodatare” le questioni, escludendo, tuttavia, tutti quei casi che negherebbero la indisponibilità del legame matrimoniale.

– tale processo di “accertamento della morte del vincolo” potrebbe essere ancora affidato ai tribunali ecclesiastici, ma sarebbe collegato, strutturalmente, ad un percorso penitenziale e pastorale, per elaborare il lutto della morte e il perdono del peccato; 

– quando fosse costatata la “morte del matrimonio”, questa dichiarazione non impedirebbe al soggetto di restare fedele al coniuge del matrimonio dichiarato estinto, in analogia con quanto accade nel caso di vedovanza.

– questo, evidentemente, non solo non impedirebbe, ma manterrebbe immutate, meglio garantite e certo ridimensionate e ricondotte al loro senso più autentico, le prerogative dell’istituto del riconoscimento della nullità del matrimonio.

– si aprirebbe, cionondimeno, una discrepanza tra divorzio civile e morte del matrimonio ecclesiastico. Questa resterebbe, obiettivamente, una differenza insuperabile, e garantirebbe il necessario spazio per la ineliminabile profezia ecclesiale rispetto alla logica del mondo, che rischia di rendere “disponibile” ciò che ogni uomo riconosce di aver ricevuto anzitutto come un dono.  


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