Divorziati risposati: R. Spaemann e una filosofia senza speranza


Uno Spaemann “sanza speme”
I limiti filosofici di una visione astorica della teologia e del matrimonio

Il testo che segue è stato scritto da Robert Spaemann, professore emerito di Filosofia all’Università di Monaco, ed è apparso per la prima volta nel numero di agosto/settembre 2014 della rivista americana First Things. Ho fatto seguire a questo testo problematico una breve replica, punto per punto.

Matrimonio e comunione ai risposati. Spaemann: «La Chiesa non capitoli davanti al pensiero dominante»



Le statistiche del divorzio nelle società occidentali sono disastrose. Esse dimostrano che il matrimonio non è più considerato una realtà nuova e indipendente che trascende l’individualità degli sposi; una realtà, come minimo, che non può essere dissolta dalla volontà di uno solo di essi. Può invece essere sciolto dal consenso di entrambe le parti, o dalla volontà di un Sinodo oppure da un Papa? La risposta deve essere “no”, perché Cristo stesso ha dichiarato esplicitamente che l’uomo non può sciogliere ciò che Dio stesso ha unito. Questo è l’insegnamento della Chiesa cattolica.
La comprensione cristiana di ciò che è vita buona pretende di essere valida per tutti gli esseri umani. Tuttavia persino i discepoli di Gesù furono scioccati dalle parole del loro Maestro. «Allora non sarebbe meglio non sposarsi per nulla?», gli replicarono. Lo stupore dei discepoli sottolinea il contrasto fra il modo di vita cristiano e il modo di vita dominante nel mondo. Che lo voglia o no, la Chiesa in Occidente è sulla strada per diventare una controcultura, e il suo futuro ora dipende principalmente da una cosa: se sarà capace, in quanto sale della terra, di mantenere il suo sapore e di non essere calpestato dagli uomini.

La bellezza dell’insegnamento della Chiesa risplende solo quando non è annacquata. La tentazione di diluire la dottrina è rafforzata oggi da un fatto imbarazzante: i cattolici divorziano con la stessa frequenza dei non credenti. Qualcosa chiaramente non ha funzionato. È irragionevole pensare che tutti i cattolici divorziati e risposati abbiano iniziato i loro primi matrimoni fermamente convinti della loro indissolubilità e poi abbiano cambiato radicalmente idea nel corso del tempo. È più ragionevole presumere che si siano sposati anzitutto senza comprendere chiaramente cosa stavano facendo: bruciavano i ponti dietro di sé per sempre (cioè fino alla morte), cosicché l’idea stessa di un secondo matrimonio semplicemente non doveva esistere per loro.
Purtroppo la Chiesa cattolica non è senza colpa. I corsi di preparazione al matrimonio cristiano molto spesso non forniscono ai fidanzati un quadro chiaro delle implicazioni di un matrimonio cattolico. Se lo facessero, molte coppie probabilmente non deciderebbero di sposarsi in chiesa. Per altre, naturalmente, una buona preparazione al matrimonio fornirebbe un’utile spinta alla conversione. C’è un immenso fascino nell’idea che l’unione di un uomo e di una donna è “scritta nelle stelle”, che resiste per una forza dall’alto, e che nulla può distruggerlo, “nella buona e nella cattiva sorte”. Questa convinzione è una magnifica ed eccitante fonte di forza e di gioia per sposi che attraversano crisi matrimoniali e cercano di infondere nuova vita nel loro vecchio amore.

Invece di rafforzare il fascino naturale e intuitivo dell’indissolubilità matrimoniale, molti uomini di Chiesa, compresi vescovi e cardinali, preferiscono raccomandare, o almeno prendere in considerazione un’altra opzione, che è alternativa all’insegnamento di Gesù e che rappresenta fondamentalmente una capitolazione al pensiero dominante secolarista.
Il rimedio per l’adulterio implicito nelle seconde nozze dei divorziati, ci viene detto, non deve più essere la contrizione, la rinuncia e il perdono, ma il passare del tempo e l’abitudine, come se la generale accettazione sociale e il sentirci a nostro agio con le nostre decisioni e con le nostre vite avesse un potere quasi soprannaturale. Questa alchimia presumibilmente trasforma il concubinaggio adulterino che chiamiamo “secondo matrimonio” in un’unione accettabile che merita di essere benedetta dalla Chiesa nel nome di Dio. Se la logica è questa, non sarebbe men che giusto che la Chiesa benedicesse anche le unioni fra persone dello stesso sesso.

L’entropia si serve del tempo

Ma questo modo di pensare è basato su un profondo errore. Il tempo non è creativo. Il suo trascorrere non restaura la perduta innocenza. In realtà la sua tendenza è sempre esattamente l’opposto: ovvero, di produrre entropia. Ogni istanza di ordine in natura è strappata al dominio dell’entropia e col passare del tempo alla fine ricade in suo potere nuovamente. Come dice Anassimandro, «da ciò da cui per le cose è generazione, sorge anche la dissoluzione, secondo un tempo stabilito». Sarebbe sbagliato rietichettare il principio di decadimento e di morte come qualcosa di buono. Non dovremmo confondere il graduale smorzarsi del senso del peccato con la sua scomparsa e la liberazione dalla nostra perdurante responsabilità verso di esso.

Aristotele ha insegnato che c’è maggiore male in un peccato abituale che in una singola caduta accompagnata dal rimorso. L’adulterio è un tipico caso di questo tipo, soprattutto quando conduce a nuove disposizioni, legalmente sanzionate come il “secondo matrimonio”, che sono quasi impossibili da disfare senza grande sofferenza e sforzo. Tommaso d’Aquino utilizza il termine perplexitas per definire casi come questo. Ci sono situazioni dalle quali non c’è via d’uscita che non comporti una colpa di un qualche tipo. Anche un solo atto di infedeltà intrappola l’adultero nella perplessità: deve confessare ciò che ha fatto all’altro coniuge oppure no? Se lo confessa, potrebbe essere ciò che salva il matrimonio e comunque evita una bugia che alla fine distruggerebbe la fiducia reciproca.
D’altra parte, una confessione potrebbe rappresentare per il matrimonio una minaccia ancora più grande che il peccato stesso, ed è per questo che spesso i sacerdoti consigliano ai penitenti di non rivelare l’infedeltà ai loro coniugi. Si noti, a questo proposito, che san Tommaso insegna che non inciampiamo mai nella perplexitas senza un qualche grado di colpa personale e che Dio permette ciò come punizione per il peccato che all’inizio ci ha portati sulla strada sbagliata.

Giochi di prestigio sotto l’altare


Restare vicini ai nostri fratelli cristiani nel mezzo della perplexitas del secondo matrimonio, mostrare verso di loro empatia e assicurarli della solidarietà della comunità, è un’opera di misericordia. Ma ammetterli alla comunione senza contrizione e regolarizzare la loro situazione sarebbe un’offesa nei confronti del Santo Sacramento – una in più fra le tante che vengono compiute oggi.
Le istruzioni di Paolo riguardo all’Eucarestia nella prima Lettera ai Corinti culminano in una messa in guardia dal ricevere il corpo di Cristo senza esserne degni: «Chiunque mangia il pane e beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore». Perché fra tutte le feste i riformatori liturgici hanno tolto questi versetti decisivi proprio dalla seconda lettura della Messa del Giovedì Santo e del Corpus Domini? Quando in chiesa vediamo tutti i presenti alzarsi e andare a ricevere la comunione domenica dopo domenica, viene da chiedersi: le parrocchie cattoliche sono formate esclusivamente da santi?
C’è ancora un ultimo punto, che di diritto dovrebbe essere il primo. La Chiesa ammette di avere gestito lo scandalo degli abusi sessuali contro i minori senza sufficiente considerazione per le vittime. Nel caso del matrimonio si sta ripetendo lo stesso schema. Qualcuno ha mai parlato delle vittime? Qualcuno parla della donna lasciata dal marito insieme ai suoi quattro figli? Lei potrebbe volere che lui torni, se non altro per garantire il necessario ai figli, ma adesso lui ha una nuova famiglia e nessuna intenzione di tornare.
Intanto il tempo passa. E l’adultero vorrebbe di nuovo ricevere la comunione. È pronto a confessare la sua colpa, ma non vuole pagarne il prezzo – ovvero, una vita di continenza. La donna abbandonata è costretta a guardare mentre la Chiesa accetta e benedice la nuova unione. La beffa oltre al danno: il suo essere stata abbandonata riceve l’approvazione ecclesiastica. Sarebbe più onesto sostituire la formula “finché morte non vi separi” con una che dica “finché non finisce l’amore di uno dei due”: una formula che qualcuno già raccomanda seriamente. Parlare in questo caso di “liturgia di benedizione” piuttosto che di un secondo matrimonio davanti all’altare è un gioco di prestigio ingannevole che getta semplicemente polvere negli occhi della gente.

Replica:
Il tempo come nemico e l’assenza dello Spirito Santo.
Le gravi incomprensioni teologiche di un filosofo “sanza speme”. 

(Andrea Grillo)

La “requisitoria” di R. Spaemann, a favore della difesa di una concezione rigida e astratta della indissolubilità matrimoniale, dimostra apertamente il limite di una visione inadeguata e chiusa della tradizione ecclesiale e del rapporto che essa intrattiene con l’età moderna e tardo-moderna. Una breve analisi del suo recente intervento sarà in grado di mostrare questi limiti e queste incomprensioni.

Un finale disarmante

Vorrei però iniziare non dall’inizio, ma dalla fine. Infatti non mi sembra consono ad un filosofo come Spaemann infilare almeno tre errori logici negli ultimi due paragrafi del proprio articolo.
Si comincia dalla (presunta) analogia tra pedofilia e divorzio. In entrambi i casi, dice il filosofo, la Chiesa non terrebbe conto a sufficienza delle vittime. In effetti un’analogia si può ben trovare, ma non è proprio quella che Spaemann vorrebbe portare alla nostra attenzione. La analogia sta invece nel fatto che anche per il caso della pedofilia la Chiesa, purtroppo, ha dovuto imparare dallo Stato Moderno come si tiene conto delle vittime e come si garantisce non solo la credibilità ecclesiale ma anche la affidabilità umana. E lo ha dovuto imparare a sue spese (in senso metaforico e non). Analogamente, stupisce che il filosofo tedesco non ricordi che è stato precisamente lo Stato Moderno – e non la Chiesa – a predisporre strumenti legislativi e tutele reali perché sia oggi impossibile che un uomo abbandoni la moglie e i 4 figli senza prendersi cura di loro. Questa è una crescita di civiltà che è avvenuta in larga parte non “grazie”, ma “nonostante” la Chiesa. La quale ha preferito pensare il bene massimo o l’assenza di bene – in altri termini il sacramento valido o quello nullo –  ma non ha mai veramente affrontato il bene possibile, con tutti i suoi chiaroscuri e le sue inevitabili logiche di compromesso. Sarebbe proprio curioso che noi dovessimo ostinatamente ignorare questo merito dello “stato laico” per poter penalizzare del tutto il “nemico” e goderci una pericolosa autolegittimazione del tutto autoreferenziale.. No, dallo stato laico la Chiesa ha imparato e continuerà ad imparare molte cose, anche in campo matrimoniale. Che Spaemann lo voglia o no.

Orgoglio e pregiudizio

Ma qui, uscendo da questo esempio iniziale, vorrei ritornare al cuore del discorso di R. Spaemann. Egli costruisce la propria “requisitoria” su fondamenti talmente fragili e talmente carichi di pregiudizi, da impedirsi di comprendere del tutto la questione in gioco, le sue cause e i suoi effetti. Il che, per un filosofo, è piuttosto paradossale.
 Il primo pregiudizio consiste in una lettura talmente ingenua della “dottrina del matrimonio cristiano” da apparire subito come una grave lacuna teologica di tutto il suo ragionamento. La affermazione della “indissolubilità” del matrimonio non significa escludere in ogni caso il “fallimento del matrimonio”. Un filosofo che si accontentasse di creare una ingenua continuità tra le parole di Gesù, la legislazione medioevale e il codice di diritto canonico contemporaneo si metterebbe nella condizione di fraintendere questa storia.. Questo modo di ragionare forse si addice ad un Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, forse si addice ad un parroco, ma non ad un filosofo che deve leggere il fenomeno in modo non ideologico e rispettoso della verità. Se un filosofo vuole fare concorrenza ad un ufficiale della Chiesa, finisce facilmente per non essere più un filosofo coerente e per non essere ancora un Ufficiale ecclesiastico autorevole.
Il secondo pregiudizio, a sua volta, appare per certi versi ancora più grave. Il ruolo della Chiesa – nella visione asfittica di Spaemann – sembra potersi ridurre al compito di “resistere alla modernità”! Quanta approssimazione! E quanta presunzione! Questi luoghi comuni assomigliano troppo alle cadute di stile dei tradizionalisti di corte vedute, che ritengono che sia stato l’istituto civile del “divorzio” ad aver introdotto nel mondo moderno la crisi della famiglia, e non vedono come questa logica della legge moderna sia una prima risposta alla crisi stessa, dovuta al mutare delle forme di vita dell’uomo tardo-moderno, che  hanno creato un nuovo modo di sperimentare la relazione di intimità e la relazione matrimoniale, con una crescita, nello stesso tempo, della impersonalità e della personalizzazione delle relazioni stesse. Come può un filosofo dimenticare questo contesto per offrire una lettura soddisfacente della situazione attuale? Se si comincia dando la colpa alla “legislazione sul divorzio”, come si può parlare ancora in modo significativo del sacramento del matrimonio? La domanda, ancora una volta, la rivolgo al filosofo, non al Prefetto di una Congregazione. Il primo ha un dovere di completezza e di equilibrio che il secondo non è tenuto ad onorare.
Il terzo, forse il più grave pregiudizio, merita di essere citato per esteso. Esso pretende di leggere in modo assolutamente manicheo la tradizione recente della Chiesa in campo matrimoniale. Eccone il testo:

“Invece di rafforzare il fascino naturale e intuitivo dell’indissolubilità matrimoniale, molti uomini di Chiesa, compresi vescovi e cardinali, preferiscono raccomandare, o almeno prendere in considerazione un’altra opzione, che è alternativa all’insegnamento di Gesù e che rappresenta fondamentalmente una capitolazione al pensiero dominante secolarista. Il rimedio per l’adulterio implicito nelle seconde nozze dei divorziati, ci viene detto, non deve più essere la contrizione, la rinuncia e il perdono, ma il passare del tempo e l’abitudine, come se la generale accettazione sociale e il sentirci a nostro agio con le nostre decisioni e con le nostre vite avesse un potere quasi soprannaturale”.

Il nostro filosofo è talmente appesantito dai pregiudizi da accusare vescovi e cardinali di “raccomandare una opzione che è alternativa all’insegnamento di Gesù” e di confidare nel tempo e nella accettazione sociale. Non parla così anche il prof. De Mattei? E non sono questi i discorsi di un vescovo tradizionalista come Lefebvre? Tutta la storia degli ultimi due secoli viene liquidata, poco filosoficamente, come contrasto ad un pregiudizio secolaristico. La Chiesa non dovrebbe “cedere a questo errore” e così avrebbe risolto il problema! Punto e basta! Ripetendo semplicemente se stessa avrebbe garantita la propria fedeltà alla tradizione. 
Quanta ingenuità in questa apparente soluzione! Quanta sordità all’insegnamento del magistero più recente, in particolare al magistero del Concilio Vaticano II, che arricchisce il rapporto con la tradizione, accettando che fedeltà e traduzione nel legittimo progresso possano essere compresi non come antitesi, ma come sinonimi. Il glossario con cui Spaemann legge la tradizione matrimoniale è troppo rozzo e troppo semplicistico per essere veramente attribuibile ad un filosofo. E, nel sottotesto, si intuisce una amarezza e uno sconforto sulla Chiesa postconciliare, che anche Spaemann sarebbe tentato di leggere soltanto come una esperienza di “peccato originale”, di “zizzania”, di “pesci cattivi” e di “vento contrario”…

Matrimonio e libertà di coscienza

Come accade in questi casi, la soluzione è tanto semplice proprio perché non si vede affatto il problema nella sua complessità,  che è costituito dal mutamento sociale, economico, psicologico, culturale ed ecclesiale degli ultimi duecento anni. Da un filosofo ci si aspetterebbe una impostazione appena un briciolo più critica sul tema del soggetto, della libertà, della comunicazione, della economia aperta: queste sono tutte realtà che incidono profondamente sul modo con cui la Chiesa deve pensare la disciplina e la dottrina del matrimonio. Ma Spaemann sembra legato alle formulette del catechismo mandato a memoria, che prescindono totalmente dal contesto, dalla storia, dalla società. Anzi, egli se ne inorgoglisce, condannando ogni attenzione contestuale come un pericoloso “cedimento al nemico”. Come se già la tradizione medievale non conoscesse tutta la complessità naturale, culturale ed ecclesiale del matrimonio. Per Spaemann niente di tutto ciò deve essere ammesso: tutto deve restare semplice, lineare, diretto! Se mai avesse letto le teorie di Alberto Magno sul matrimonio, avrebbe pensato di aver di fronte le parole di un…modernista!
Già, anche S. Tommaso, allievo di Alberto, viene chiamato in causa, ma in una forma veramente caricaturale. Proprio Tommaso viene utilizzato come “schermo” per far passare l’idea che l’adulterio occasionale sarebbe meno grave del “peccato abituale” che prende oggi nome ufficiale e scandaloso di divorzio civilmente riconosciuto. Proprio Tommaso, che ha saputo tanto innovare la tradizione ecclesiale e che tanto coraggio ha avuto nel pensare diversamente la tradizione, ha dovuto qui subire il torto di essere maldestramente utilizzato per far passare il più classico degli “esempi da prete”, dove la stessa analogia chiamata in causa trasuda pregiudizio e approssimazione? Si resta davvero perplessi di fronte a questo uso troppo disinvolto del Maestro di Aquino da parte di chi lo conosce tanto bene, almeno in philosophicis! 

Tempo, entropia e Spirito Santo

In conclusione: questo è uno Spaemann “sanza speme”, che ha  letteralmente perduto ogni traccia di speranza. Come tutti coloro che smarriscono la speranza, oscilla paurosamente tra disperazione e presunzione. Nella disperazione Spaemann sembra poter salvare solo una Chiesa che non c’è più o che forse non c’è mai stata, per condannare senza riserve quella chiesa che c’è insieme con quella che potrà esserci domani. Con presunzione, ritiene che “sciogliere il matrimonio” accomuni il disegno della legge civile a quello di cardinali e papi. Questa è presunzione, bella e buona, sia nei confronti della legge civile, sia nei confronti del papato: entrambi vengono compresi solo proiettandoli in controluce sullo schermo di modelli ottocenteschi, rigidi e superati. Disperazione e presunzione si toccano, in questa requisitoria amara e senza futuro. O, meglio, che ha un futuro solo nel perpetuare un passato rigido, in un mondo statico e non dinamico, in un mondo con poca comunicazione e molta comunione imposta, senza libertà di coscienza e con autoritarismo sfacciato. Per Spaemann il “tempo che passa” non ha alcun valore, anzi “degrada” il reale. Leggere la storia come entropia non è altro che disperare dello Spirito Santo.
Questo ideale, dunque, è tutto retrogrado, autoreferenziale, e impone modelli fittizi alla realtà, costringendo il lettore a pensare di vivere nel 1832 o nel 1921. Con queste argomentazioni, Spaemann può solo avere nostalgia di una Chiesa che parla latino, mentre tutto il mondo non lo capisce più. Di quale “fenomeno” sta parlando il nostro insigne filosofo? A quali famiglie pensa di rivolgersi? 
Bisogna riconoscere che questo suo, non quello di cardinali e papi, è soltanto “un gioco di prestigio ingannevole che getta semplicemente polvere negli occhi della gente”. Dire la verità è ben altra cosa che ripetere formule autoreferenziali e luoghi comuni. Soprattutto quando a farlo è un filosofo.  

Share