Dottrina cristiana e divenire della sessualità umana. Una lettera dei vescovi scandinavi.

Un breve testo, scritto dai Vescovi Scandinavi, presenta la sessualità umana con grande accuratezza. Ne riproduco il testo integrale, sottolineandone poi alcuni elementi che restano in discussione, senza negare la bontà del tentativo di uscire dalle contrapposizioni troppo nette tra dottrina cristiana e cultura comune
1. Il testo della lettera
Regione Episcopale Scandinava
LETTERA PASTORALE SULLA SESSUALITÀ UMANA
Quinta domenica di Quaresima 2023
Cari fratelli e sorelle,
I quaranta giorni di Quaresima sono un richiamo ai quaranta giorni in cui Cristo digiunò nel deserto. Ma non solo. Nella storia della salvezza, i tempi di quaranta giorni segnano varie tappe nell’opera della redenzione portata avanti da Dio e che continua ancor oggi. Un primo intervento ebbe luogo ai giorni di Noè. Avendo visto la rovina operata dall’uomo (Genesi 6,5), il Signore sottopose la terra a un battesimo purificatorio. “Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi 7,12). Da qui un nuovo inizio.
Quando Noè e i suoi parenti tornarono in un mondo ripulito dall’acqua, Dio fece il suo primo patto con “ogni carne”. Promise che mai più il diluvio avrebbe distrutto la terra. Agli uomini chiese giustizia: onorare Dio, costruire la pace, essere fecondi. Siamo chiamati a vivere beati sulla terra, a trovare gioia gli uni negli altri. Il nostro potenziale è meraviglioso finché ricordiamo chi siamo: “perché a immagine di Dio, Egli ha fatto l’uomo” (Genesi 9,6). Siamo chiamati a dare compimento a questa immagine attraverso le scelte di vita che facciamo. Per ratificare la sua alleanza, Dio pose un segno nel cielo: “Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando apparirà l’arco sulle nubi, io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Genesi 9,13, 16).
Il segno dell’alleanza, l’arcobaleno, oggi è rivendicato come simbolo di un movimento allo stesso tempo politico e culturale. Riconosciamo quanto c’è di nobile nelle aspirazioni di questo movimento. Le condividiamo nella misura in cui parlano della dignità di tutti gli esseri umani e del loro desiderio di visibilità. La Chiesa condanna ogni ingiusta discriminazione, qualunque sia, anche quella che si fonda sul genere o sull’orientamento sessuale. Dissentiamo da esso, tuttavia, quando il movimento propone una visione della natura umana che astrae dall’integrità incarnata della persona, come se il sesso fosse qualcosa di accidentale. E ci opponiamo quando tale visione viene imposta ai bambini come una verità provata e non un’ipotesi ardita, e imposta ai minori come un pesante carico di autodeterminazione al quale non sono preparati. È curioso: la nostra società tanto preoccupata per il corpo, di fatto lo prende alla leggera, rifiutando di vedere il corpo come segno di identità, e supponendo di conseguenza che l’unica individualità sia quella prodotta dall’autopercezione soggettiva, costruendo noi stessi a nostra immagine.
Quando professiamo che Dio ci ha fatti a sua immagine, questa non si riferisce solo all’anima. Appartiene misteriosamente anche al corpo. Per noi cristiani il corpo è legato intrinsecamente alla personalità. Noi crediamo alla risurrezione del corpo. Naturalmente, “saremo tutti trasformati” (1 Corinzi 15,51). Cosa sarà il nostro corpo nell’eternità è difficile immaginarlo. Crediamo nell’affermazione biblica, fondata sulla tradizione, che l’unità di mente, anima e corpo durerà per sempre. Nell’eternità saremo riconoscibili per quello che già ora siamo, però gli aspetti conflittuali che ancora impediscono lo sviluppo armonioso del nostro vero sé saranno stati risolti.
“Per grazia di Dio sono quello che sono” (1 Corinzi 15,10). San Paolo ha dovuto lottare con se stesso per fare in fede questa affermazione. Così, abbastanza spesso, anche noi. Siamo consapevoli di tutto ciò che non siamo; ci concentriamo sui doni che non abbiamo ricevuto, sull’affetto o sull’affermazione che manca nella nostra vita. Queste cose ci rattristano. Vogliamo rimediare. A volte è ragionevole. Spesso è inutile. Il cammino dell’accettazione di noi stessi passa attraverso il nostro impegno con ciò che è reale. La realtà della nostra vita abbraccia le nostre contraddizioni e ferite. La Bibbia e le vite dei santi mostrano che le nostre ferite possono, per grazia, diventare fonti di guarigione per noi stessi e per gli altri.
L’immagine di Dio nella natura umana si manifesta nella complementarità del maschile e del femminile. L’uomo e la donna sono creati l’uno per l’altra: il comandamento di essere fecondi dipende da questa reciprocità, santificata nell’unione nuziale. Nella Scrittura, il matrimonio dell’uomo e della donna diventa immagine della comunione di Dio con l’umanità, che sarà perfetta nelle nozze dell’Agnello alla fine della storia (Apocalisse 19,6). Non significa che tale unione, per noi, sia facile o indolore. Ad alcuni sembra un’opzione impossibile. Ad un livello interiore, l’integrazione di caratteristiche maschili e femminili può essere ardua. La Chiesa lo riconosce. Desidera abbracciare e consolare tutti coloro che vivono con difficoltà questa problematica.
Come vostri vescovi vogliamo sottolineare che siamo qui per tutti, per accompagnare tutti. Il desiderio di amore e la ricerca di un’integrazione sessuale tocca intimamente gli esseri umani. Sotto questo aspetto siamo vulnerabili. Ci vuole pazienza nel cammino verso l’integrazione, e gioia per ogni passo ulteriore. C’è già, per esempio, un enorme salto di qualità nel passare dalla promiscuità alla fedeltà, indipendentemente dal fatto che la relazione stabile corrisponda pienamente o meno all’ordine oggettivo di un’unione nuziale sacramentalmente benedetta. Ogni ricerca di integrazione è degna di rispetto, merita incoraggiamento. La crescita in saggezza e virtù ha uno sviluppo organico. Avviene gradualmente. Allo stesso tempo la crescita, per dare buoni risultati (o per essere feconda), deve procedere verso una meta. La nostra missione e il nostro compito di vescovi è indicare il cammino pacificante e vivificante dei comandamenti di Cristo, stretto all’inizio, ma che si dilata man mano che avanziamo. Mancheremmo nei vostri confronti se offrissimo di meno. Non siamo stati ordinati per predicare nostre piccole nozioni.
Nell’ospitale fraternità della Chiesa c’è posto per tutti. La Chiesa, dice un antico testo, è “la misericordia di Dio che scende sugli uomini” (dal midrash siriaco del IV secolo “La Caverna dei Tesori”). Questa misericordia non esclude nessuno, ma stabilisce un alto ideale. L’ideale è enunciato nei comandamenti, che ci aiutano a crescere rispetto a concezioni di sé troppo anguste. Siamo chiamati a diventare donne e uomini nuovi. In tutti noi ci sono elementi caotici che vanno messi in ordine. La comunione sacramentale presuppone un consenso coerentemente vissuto alle condizioni poste dall’alleanza sigillata nel sangue di Cristo. Può accadere che le circostanze rendano impossibile a un cattolico ricevere i sacramenti per un certo periodo. Non è per questo che cessa di essere membro della Chiesa. L’esperienza d’esilio interiore abbracciato nella fede può portare a un più profondo senso di appartenenza. Nelle Scritture gli esili spesso ci rivelano questo. Ognuno di noi ha un esodo da fare, ma non camminiamo soli.
Il segno della prima alleanza di Dio ci circonda anche nei momenti di prova. Ci chiama a cercare il senso della nostra esistenza, non tanto nei frammenti di luce dell’arcobaleno, ma nella fonte divina dello spettro pieno e meraviglioso che è di Dio e che ci chiama ad essere simili a Dio. Come discepoli di Cristo, immagine di Dio (Colossesi 1,15), non possiamo ridurre il segno dell’arcobaleno a qualcosa di meno del patto vivificante tra il Creatore e la creazione. Dio ci ha conferito “beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventassimo per loro mezzo partecipi della natura divina” (2 Pietro 1,4). L’immagine di Dio impressa nel nostro essere richiama la santificazione in Cristo. Qualsiasi considerazione del desiderio umano che ponga l’asticella più in basso di questo è inadeguato da un punto di vista cristiano.
Ora, le nozioni di ciò che significa essere umano, e quindi essere sessuato sono in divenire. Ciò che oggi è dato per scontato domani può essere rifiutato. Chiunque scommette molto su teorie passeggere rischia di essere assai mortificato. Abbiamo bisogno di radici profonde. Cerchiamo allora di appropriarci dei principi fondamentali dell’antropologia cristiana, mentre ci avviciniamo con amicizia, con rispetto, a coloro che si sentono estranei ad essi. Lo dobbiamo al Signore, a noi stessi e al nostro mondo, per rendere conto di ciò in cui crediamo e del perché crediamo che sia vero.
Molti sono perplessi sull’insegnamento cristiano tradizionale sulla sessualità. A questi offriamo un’amichevole parola di consiglio. Innanzitutto: cercate di familiarizzare con la chiamata e la promessa di Cristo, di conoscerlo meglio attraverso le Scritture e nella preghiera, attraverso la liturgia e lo studio di tutto l’insegnamento della Chiesa, non solo attraverso frammenti presi qua e là. Partecipate alla vita della Chiesa. Così si amplierà l’orizzonte delle domande dalle quali siete partiti, e anche la vostra mente e il vostro cuore. In secondo luogo, consideriamo i limiti di un discorso puramente laico sulla sessualità. Ha bisogno di essere arricchito. Abbiamo bisogno di termini adeguati per parlare di queste cose importanti. Avremo un contributo prezioso da offrire se recupereremo la natura sacramentale della sessualità nel disegno di Dio, la bellezza della castità cristiana e la gioia dell’amicizia, che mostra quale grande intimità liberatrice si può trovare anche nelle relazioni non sessuali.
Il punto dell’insegnamento della Chiesa non è quello di ridurre l’amore, ma di realizzarlo. Alla fine del prologo, il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 ripete un passo del Catechismo Romano del 1566: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore. Così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell’ amore ha d’altronde il suo ultimo fine” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 25; cfr. Catechismo Romano, Prefazione 10; cfr. 1 Corinzi 13,8).
Da questo amore è stato fatto il mondo, e ha preso forma la nostra natura. Questo amore si è reso manifesto nell’esemplarità di Cristo, nel suo insegnamento, nella sua passione salvifica e nella sua morte. L’amore ha trionfato nella sua gloriosa risurrezione, che celebreremo con gioia durante i cinquanta giorni della Pasqua. La nostra comunità cattolica, dalle molte sfaccettature e dai tanti colori, possa testimoniare questo amore nella verità.
Czeslaw Kozon, Copenaghen, presidente
Anders Cardinale Arborelius, Stoccolma
Peter Bürcher, Reykjavik
Bernt Eidsvig, Oslo
Berislav Grgic, Tromso
Marco Pasinato, Helsinki
David Tencer, Reykjavik
Erik Varden, Trondheim
2. Alcune considerazioni sul testo dei Vescovi scandinavi
Le 4 pagine del testo redatto dai vescovi della Regione Scandinava hanno il merito di concentrare in breve spazio un ragionamento accurato, di cui ora vorrei mettere in luce e commentare alcune affermazioni centrali. Procedo riprendendone il testo con alcune sottolineature in grassetto, su cui poi mi soffermo commentandole.
a) benedire le nozze e benedire una unione: è possibile distinguere?
“Ci vuole pazienza nel cammino verso l’integrazione, e gioia per ogni passo ulteriore. C’è già, per esempio, un enorme salto di qualità nel passare dalla promiscuità alla fedeltà, indipendentemente dal fatto che la relazione stabile corrisponda pienamente o meno all’ordine oggettivo di un’unione nuziale sacramentalmente benedetta. Ogni ricerca di integrazione è degna di rispetto, merita incoraggiamento. La crescita in saggezza e virtù ha uno sviluppo organico. Avviene gradualmente. Allo stesso tempo la crescita, per dare buoni risultati (o per essere feconda), deve procedere verso una meta. La nostra missione e il nostro compito di vescovi è indicare il cammino pacificante e vivificante dei comandamenti di Cristo, stretto all’inizio, ma che si dilata man mano che avanziamo. Mancheremmo nei vostri confronti se offrissimo di meno. Non siamo stati ordinati per predicare nostre piccole nozioni.
Nell’ospitale fraternità della Chiesa c’è posto per tutti. La Chiesa, dice un antico testo, è “la misericordia di Dio che scende sugli uomini” (dal midrash siriaco del IV secolo “La Caverna dei Tesori”). Questa misericordia non esclude nessuno, ma stabilisce un alto ideale. L’ideale è enunciato nei comandamenti, che ci aiutano a crescere rispetto a concezioni di sé troppo anguste. Siamo chiamati a diventare donne e uomini nuovi. In tutti noi ci sono elementi caotici che vanno messi in ordine. La comunione sacramentale presuppone un consenso coerentemente vissuto alle condizioni poste dall’alleanza sigillata nel sangue di Cristo. Può accadere che le circostanze rendano impossibile a un cattolico ricevere i sacramenti per un certo periodo. Non è per questo che cessa di essere membro della Chiesa.”
Tra le cose che appaiono più opportune nel testo vi è certamente la comprensione di una “gradualità” di condizioni che i soggetti vivono all’interno del loro vissuto personale e sessuale. Ma appare altrettanto chiaro che questa “fatica del discernimento”, condotta con grande linearità, non corrisponde a “forme ecclesiali” capaci di riconoscere queste diverse condizioni. Come non esiste solo la “comunione eucaristica”, ma tante altre forme di “espressione cultuale” nella vita del cristiano, così non esiste solo la “benedizione nuziale”, ma anche un azione del “benedire” che riconosce altre forme di legame, di unione e di progetto di vita comune. Una nozione troppo stretta di sacramento e una certa preclusione alla valorizzazione di un “sacramentale” come la benedizione creano una forte tensione tra un regime verbale della accoglienza e un regime liturgico e sacramentale della esclusione. Credo che questo dipenda da un uso troppo rigido e stereotipato della tradizione liturgica, che è più elastica di quanto si pensi. Se è vero che nel percorso di vita si può cadere in esperienze di “indegnità” rispetto alla comunione eucaristica, è altrettanto vero che in questa visione la eucaristia diventa solo il premio per i perfetti e non riesce ad assumere la figura del “farmaco per chi è in cammino”. Qui, come è evidente, il linguaggio dei vescovi scandinavi, pur nutrito a fondo dallo spirito di Amoris Laetitia nel suo regime espressivo, continua ad usare soltanto le categorie fondamentali di Familiaris consortio e si limita ad affermare una comunione ecclesiale che non riesce a trovare espressione sul piano liturgico-sacramentale. Questo è un punto debole del testo.
b) La identità personale e il ruolo della sessualità
“Ora, le nozioni di ciò che significa essere umano, e quindi essere sessuato sono in divenire. Ciò che oggi è dato per scontato domani può essere rifiutato. Chiunque scommette molto su teorie passeggere rischia di essere assai mortificato. Abbiamo bisogno di radici profonde. Cerchiamo allora di appropriarci dei principi fondamentali dell’antropologia cristiana, mentre ci avviciniamo con amicizia, con rispetto, a coloro che si sentono estranei ad essi. Lo dobbiamo al Signore, a noi stessi e al nostro mondo, per rendere conto di ciò in cui crediamo e del perché crediamo che sia vero.”
Il divenire delle nozioni di essere umano e di essere sessuato sono una ammissione di grande importanza, che fa onore al documento. La scommessa su teorie passeggere è certo sempre rischiosa, ma lo è altrettanto una scommessa cieca su teorie fondate su una cultura e su un ordine sociale che non è più il nostro. Per questo è fondamentale, come dice il testo “appropriarci dei principi fondamentali della antropologia cristiana”. Ma come avviene questa “appropriazione”? Questo passaggio non sembra implicare un dialogo profondo con la cultura ambiente. I principi fondamentali della antropoloiga cristiana vengono non anzitutto dal Catechismo, ma dalla luce che la Parola e la esperienza di uomini e donne gettano sulla tradizione (secondo il chiaro dettato di GS 46). Nessuna “teoria passeggera”, come nessuna “visione classica” garantisce del tutto. Sarebbe unilaterale pensare che lo sviluppo delle nozioni di essere umano e di essere sessuato restino esterne ad una “comprensione della tradizione”, che funzionerebbe da sé, quasi fuori dello spazio e del tempo. La pretesa di difendere il “vangelo della sessualità” insieme alla società chiusa, che ne ha interpretato le evidenze in modo unilaterale, è un rischio a cui il testo resta esposto. Credere nel vangelo non può essere confuso con il credere in una società ordinata secondo una lettura unilaterale del sesso solo come “funzione della generazione”. La insufficienza dei “tria bona” classici mostra un versante scoperto della tradizione che abbiamo il compito di superare, anche mediante l’ascolto della esperienza contemporanea, proprio nella sua più dura laicità, dalla quale abbiamo non solo da distinguerci, ma anche da imparare.
c) la tensione con la cultura e i “segni dei tempi”
“Molti sono perplessi sull’insegnamento cristiano tradizionale sulla sessualità. A questi offriamo un’amichevole parola di consiglio. Innanzitutto: cercate di familiarizzare con la chiamata e la promessa di Cristo, di conoscerlo meglio attraverso le Scritture e nella preghiera, attraverso la liturgia e lo studio di tutto l’insegnamento della Chiesa, non solo attraverso frammenti presi qua e là. Partecipate alla vita della Chiesa. Così si amplierà l’orizzonte delle domande dalle quali siete partiti, e anche la vostra mente e il vostro cuore. In secondo luogo, consideriamo i limiti di un discorso puramente laico sulla sessualità. Ha bisogno di essere arricchito. Abbiamo bisogno di termini adeguati per parlare di queste cose importanti. Avremo un contributo prezioso da offrire se recupereremo la natura sacramentale della sessualità nel disegno di Dio, la bellezza della castità cristiana e la gioia dell’amicizia, che mostra quale grande intimità liberatrice si può trovare anche nelle relazioni non sessuali”.
Con tutta la ricercata delicatezza di forme espressive, tuttavia la considerazione parallela della “dottrina cristiana sulla sessualità” e del discorso laico sul sesso non sembra riconoscere un aspetto decisivo, che qualificherebbe meglio tutto il discorso. I vescovi dicono che la percezione dei limiti dell’insegnamento tradizionale dipenderebbe da una considerazione parziale di tale insegnamento, mentre i limiti della lettura laica sarebbero oggettivi. Qui manca del tutto il ricorso, credo necessario, alla nozione di “segni dei tempi”. La trasformazione del sesso in sessualità, che si è prodotta nella “società laica” degli ultimi 200 anni, ha messo in movimento un positivo ripensamento della tradizione cristiana. La personalizzazione del matrimonio e del sesso non è soltanto un merito della tradizione cristiana, ma viene anche dal contributo della lettura laica. Perché non si dovrebbe riconoscere, ad esempio, che la attenzione all’individuo non è solo “caduta individualistica”, ma anche “scoperta di autenticità”? Certo tanto la tradizione cristiana quanto la cultura laica sono anche piene di “pregiudizi” che devono essere superati. Ma se è giusto riconoscere che la Chiesa ha ricchezze che meritano di essere custodite a favore anche di chi non crede, è altrettanto importante dire che la cultura laica può insegnare alla Chiesa a comprendere e ad esprimere i propri tesori in modi e forme più profonde e più adeguate. Anche la cultura laica ha un contributo profondo da offrire alla dottrina cristiana, liberandola da alcuni cortocircuiti, che la hanno identificata tendenzialmente con una “società chiusa”. Una maggiore chiarezza su questo aspetto di reciprocità, nel rapporto tra cultura cristiana e cultura laica, avrebbe ulteriormente giovato al documento e alla sua positiva recezione.