Elogio dell’inesemplare (/4): la debolezza e la specie (di Marcello La Matina)


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Ultima parte del testo di Marcello La Matina sull’inesemplare, dove approda ad una correlazione tra teoria sulla violenza, parabola del Samaritano ed elogio della debolezza (ag)

D – Elogio della faiblesse

Il Samaritano della parabola evangelica coglie il sentore di questa inesemplarità, mentre il sacerdote e il levita colgono solo la mancanza di esemplarità dell’individuo-Uomo ridotto dai briganti ‘mezzo morto’ (ἡμιθανής). Inoltre, occorre presupporre che l’individuo personale – quello cioè che nasce dalla disaffiliazione del singolo dalla classe, cioè dell’individuo faible dalla specie – possa non essere soltanto umano. Un certo albero, un certo gatto, un dato fiore possono schiudere la persona dalla propria individualità, soprattutto nella rivelazione della loro faiblesse. Il fatto che non si sia spesso in grado di differenziare una quercia dall’altra o un elefante dal suo vicino non è un argomento contro il riconoscimento della loro personalità. Al contrario, quasi sempre una difficoltà nel classificare offre lo spunto per ripensare la dimensione personale del vivente uomo alla luce della οἰκειώτης che il Creato possiede in quanto tale.

 Se questo è plausibile, la riflessione sulla violenza ci avvicina a una diversa spiegazione della debolezza. Contrariamente a quanto sovente si crede, la debolezza non è la causa, ma la conseguenza della perdita di marche specifiche. Non si diventa deboli perché ci si ammala, ma si viene etichettati “malati” quando certi individui si ritengono minacciati dalla esemplarità imperfetta del sofferente che cercano di espellere dalla classe-Uomo. Parimenti, non si è deboli perché donne, o perché vecchi: si viene etichettati dispregiativamente “vecchi” o “donne” solo quando l’individuo supposto esemplare si sente minacciato dalla coesistenza di individui che considera esemplari imperfetti della sua specie. Inoltre, se le cose stanno così, se la debolezza è il frutto di una opzione classificatoria interna a una specie, allora possiamo scorgere il carattere squilibrante della malattia, che può essere imputata non solo a chi è ritenuto perdere esemplarità, ma anche a chi ne acquisisce in eccesso. Lo dice molto bene Massimo il Confessore, quando scrive che «la malattia è chiaramente una carenza della salute, e un eccesso materialità: una condizione priva di misura e di ordine»: 1 si tratta di una inesemplarità che può assumere indifferentemente le forme della mancanza o quelle della sovrabbondanza di tratti caratterizzanti.

Che si tratti di una violenza sempre frutto di una opzione classificatoria e non di una conseguenza necessaria è facile capirlo da pochi esempi. La ‘debolezza’ di un vecchio può rivelare saggezza, quella di una donna può dischiudere una diversa visione della vita, e quella di un ‘malato’ può conferire senso alla relazione. Una rivelazione di questo senso è dischiusa nel Vangelo, dove si dice che il Figlio di Dio è venuto come medico per i malati, non per i sani. Ora, non esiste in senso logico una “classe dei malati”. Il malato – ogni potenziale individuo malato – è tale in quanto si discosta dalla sanità della specie e non già perché costituisce un’altra specie. In senso logico, non esiste neppure una classe dei “medici”: solo la relazione terapeutica istituisce e articola qualcosa come una malattia e qualcosa come una relazione terapeutica. Non sarà mai sottolineato abbastanza che la violenza scaturisce dalla paura del simile e non, come spesso si crede, dalla paura del diverso. La donna è “simile all’uomo” nel mistero della differenza sessuale: diremo che essa – proprio perché sempre umana senza dover essere uomo – mette in crisi la nozione stessa di Uomo come specie. Ed è per questo motivo che la differenza sessuale può difficilmente essere spiegata in termini di genere e specie e differenza. Da parte sua, Vecchio non è una classe diversa da Uomo, ma i suoi individui sono piuttosto segmenti temporali della classe Uomo, dal momento che non posseggono né esemplificano alcuna proprietà che non sia già di per sé una Merkmal posseduta ed esemplificata da altri individui della specie Uomo: il vecchio è tale per la sua temporanea imperfezione nell’esemplificare la pienezza di Uomo. Queste imperfezioni esistono soltanto nella ideologia degli individui che ritengono sé stessi degli esemplari-al-quadrato e non accettano che altri esemplari (che stessi ritengono esemplari imperfetti) siano etichettabili in modo omonimo.

2.4

Si fa, pertanto, strada l’idea che i campioni (i samples, gli esemplari) possano essere suddivisi non solo – come ho fatto nei miei lavori precedenti2 – in campioni genuini e campioni vicari (ad esempio, l’Icona bizantina non è la sostanza, la οὐσία del dio, ma è quel πρόσωπον che pone in esistenza una relazione vicariante tra il dio e l’orante), ma anche in campioni imperfetti o inesemplari. Fra i due estremi del campione genuino e del campione vicario va quindi posto il caso della esemplarità imperfetta, ossia la condizione che rende un individuo simile, in parte o meno, a un campione (sample) che altri individui ritengono non possegga esemplarmente (massimamente) le proprietà che dovrebbe esemplificare. Questa supposta imperfezione del campione, questa sua “inesemplarità” – ripeto – è sempre data agli occhi di qualcuno e può essere ontica, se concerne gli accidenti, o ontologica, se affetta invece differenze che sono Merkmale, cioè tratti, direbbe Wittgenstein, grammaticali della specie.

Ciò che fa nascere curiosità è il soggiacente meccanismo di individuazione: sembrerebbe infatti che il campione inesemplare sia fatto bersaglio della violenza non in quanto portatore di tratti specifici che si oppongano ad altri tratti, bensì perché sprovvisto di tratti individuativi specifici: cosa che lo colloca pertanto in una zona antropica adiafora o “nemica”. La violenza – questa la nostra ipotesi – viene perciò esercitata non verso qualcuno che possiede (e in quanto possiede) certi tratti, ma verso colui che esemplifica – in un dato linguaggio e in una data circostanza che sono comuni al violento e alla vittima – quei tratti che non possiede o che possiede in modo supposto inesemplare. In altre parole, i tratti – se così ci tocca ragionare – ci sono, sia nell’esemplare-al-quadrato sia nell’individuo inesemplare: il conflitto violento non è però una contrapposizione di tratti, ma una contrapposizione tra supposti doppi, un conflitto tra individui non differenziabili che a mezzo di una presa di posizione violenta.

Infine, chi fa violenza a qualcuno non agisce per differenza di tratti ma perché i tratti non fanno differenza ai suoi occhi. Il violento agisce nella indistinzione dei tratti e fa sempre violenza a un certo qualcuno, poiché cerca di distruggere la sua esistenza qui e ora. Non ciò che è comune è qui preso di mira, bensì il non potersi accomunare o diversificare le singolarità adiafore. Chiediamoci allora in quale relazione possono stare l’individualità e la specificità nella condizione che per solito si dà quando qualcuno attiva il meccanismo della violenza. Cosa fa violenza a cosa? Quale ontologia può sussumere la relazione violenta?

2.5

Alcuni filosofi contemporanei3 sostengono una teoria – già, peraltro, evidente nel pensiero di Simondon o Deleuze – secondo la quale una ontologia filosofica potrebbe fare a meno degli individui senza cadere nel platonismo: secondo questa corrente di pensiero, non c’è posto per individui unici e irripetibili. Tutto si spiegherebbe postulando l’esistenza di “tratti”, suscettibili di concretizzarsi come tali: tratti singolari, e però comuni e ripetibili. Se pur bene argomentata, io trovo inaccettabile questa proposta, così come mi pare da respingere ogni tentativo di ricondurre la metafisica a un unico principio (o il solo l’individuo, o i soli universali, o i Qualia, i Quanta): l’errore è in tutti questi casi un atto di eccessiva fiducia nella Ragione, un atto di ὕβρις, che sacrifica la molteplicità della vita alla tassonomia della scienza o della filosofia. Insieme a Nelson Goodman, ritengo che fare a meno degli Individui – come concrezioni uniche e irripetibili – richieda il sacrificio non indifferente del senso comune e del buon senso. Oltretutto, questa metafisica senza individui si scontra con una intuizione che personalmente, e come uomo e come studioso, ritengo insopprimibile: il sentore che l’individuo, soprattutto quando de-figurato dal pregiudizio ideologico, sia sempre unico e irripetibile.

Se adesso chiamiamo ‘persona’ (πρόσωπον) questa unicità irripetibile data nel faccia-a-faccia, allora possiamo ammettere che l’Altro, ogni altro che non sia sempre esemplarmente l’individuo di una data specie, è per l’individuo il fenomeno molare che permette di cogliere la trascendenza come rivelazione, non di qualcosa ma di qualcuno. L’imperfetta esemplarità che cogliamo in una data persona rende possibile per l’individuo autotrascendersi e trascendere così i limiti della sua specie. Per questa via viene infatti scoperta la differenza assoluta tra me, individuo, e quel dato individuo che è insieme a me, qui e ora, la persona, il πρόσωπον, letteralmente: colui-che-mi-sta-faccia-a-faccia. Il πρόσωπον non è un campione imperfetto della specie, ma il limite stesso della mia pretesa vis tassonomica. Colui che mi sta ora faccia-a-faccia è colui che mi fa assumere la mia condizione di soggetto come fosse una positio debilis. In questo si dà una evidente inversione di ruoli: la debolezza supposta di “colui che mi sta ora faccia-a-faccia” rivela la reale debolezza della mia pretesa di sciogliere mediante il calcolo induttivo o deduttivo la questione cruciale di ogni grammatica: la ratio che lega il tipo alle sue repliche, il type ai tokens, gli individui ad una specie.

3. Postludio

Occorre resistere alla tentazione di innalzare teoreticamente l’esemplare al suo presunto tipo. L’imperfezione del token smette di esistere non appena io rinuncio a riferirlo a un type. Facile, a questo punto, parafrasare la pensosità di Ludwig Wittgenstein, per tentare una conclusione più nostra. Io direi che la supposta debolezza di un campione nell’esemplificare la sua specie significa la debolezza e i limiti della mia grammatica e, così, dello stesso mio mondo. È solo quando abbiamo sentore di una presenza inamovibile e insupponibile (quella del πρόσωπον) che possiamo esser-ci davanti ad Altri come ci-siamo davanti al mistero, all’eros, alla morte – che diventa così ‘sorella’ morte. Il riconoscimento della persona (questa ἀναγνώρισις che non presuppone la riduzione del Qui e dell’Ora ad un luogo o evento passato o ad una precognizione spaziotemporale data) è riconoscimento del carattere cronosensitivo della conoscenza, che è sempre genuinamente erotica. La disposizione cronosensitiva annuncia l’ingresso dell’Altro nell’orizzonte cognitivo del soggetto mentre ne dissolve la grammatica. Nella sensitività all’altro che ad-viene può sciogliersi il perverso legame che lega le ragioni del linguaggio alle loro conseguenze violente. Liberati dall’ansia di classificare ogni nuova istanza, possiamo sottrarci alla cogenza dei predicati familiari e ascoltare, finalmente, quel che si rende manifesto nell’incertezza dei sostrati. E può accadere allora, nell’amore, come nella vita teoretica, che la potenza si riveli debolezza, e la stoltezza si riveli cosparsa – come voleva Benjamin – di schegge del tempo messianico.

Marcello La Matina

F I N E (4/4)

 

1 «Ἡ νόσος, εὔδηλον, ὡς ἔλλειψίς ἐστιν ὑγιείας, καί ὑπερβολή σωµάτων ἐνύλων, οὔτε µέτρον, οὔτε τάξιν ἐχοµένη» (Max. Conf. Ἐκ τοῦ ἁγίου Ἱεροθέου).

2 Mi permetto di citare il mio L’accadere del suono (Mimesis, Milano 2017), dove assumo come la relazione stessa con il suono da noi prodotto abbia una origine indessicale che non può essere eradicata; questa origine, questo grambo del suono, è la sua matrice e la sua madre, e lo custodisce sempre come un individuo unico e irripetibile.

3 Alcuni di questi pensatori sono tra i miei preferiti, sia per rigore metodologico sia per originalità. Tuttavia, come a volte accade, non posso condividere le conclusioni cui essi pervengono. E sono quasi dispiaciuto che tra questi autori e me si debba dare un tale disaccordo. Per parte mia, ritengo irrinunciabile la nozione di individuo e quella, prossima ad essa, di πρόσωπον. Anzi, è forse perché non si dà scienza delle cose individuali (individuum est ineffabile) che la filosofia deve pensare oltre il limite della metafisica e della classificazione degli enti. Scriveva Vladimir Lossky che la “persona” non è definibile se non come «l’irriducibilità stessa dell’individuo alla propria natura». Un recente lutto mi ha privato di mia mamma. E sono certo di non aver con lei perduto solo dei features o dei qualia, ma una individualità (un concretum) irripetibile.

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