Eucaristia: eccesso d’amore da non sprecare… (di Giordano Remondi)


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Il caro amico Giordano Remondi reagisce al mio post di ieri e alimenta con competenza e finezza il dialogo sul “fare eucaristia” che caratterizza il dibattito non solo ecclesiale degli ultimi mesi, segnato dai “divieti sanitari di assembramento”. Perché la “libertà di culto” non diventi un concetto formale e vuoto, occorre chiarire teologicamente che cosa significhi il suo vertice eucaristico.

L’intervento di ieri, Primo maggio 2020, compiuto dall’amico Andrea Grillo mi offre lo spunto per agganciarmi ad un aspetto della quasi ormai vexata quaestio di celebrare la Messa festiva riuscendo ad applicare anche solo qualcuna delle numerose restrizioni nei movimenti che viviamo dai primi di marzo in tutta Italia, seppur con regole diverse regione per regione.

Lasciando da parte il metodo del Comunicato Cei di domenica sera 26 aprile, che appena letto non capivo se ero stato svegliato da un incubo, entriamo invece nel merito di una questione aperta da due mesi e sulla quale nessuno può permettersi di dire una parola perentoria e conclusiva. E non occorre, per ora, convocare un Sinodo straordinario sulla celebrazione della Messa nel “giorno del Signore” – il leopardiano dì di festa nel cammino verso la piena comunione del Regno – per rispondere a domande nuove in una situazione apocalittica, che, dovremmo tutti saperlo, significa rivelare la speranza di ripartire dalle ceneri. Avremo tempo per pensarci!

Nel frattempo, mi ha consolato quest’ultimo blog dell’amico Andrea, il cui apporto in scienze liturgiche nel recente manuale di 445 pagine, pubblicato dalla Queriniana, è già significativo nel titolo e sottotitolo: Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica. Mi è possibile contribuire collegandomi alla parte del suo intervento dove medita sul vangelo del giorno (Gv 6,51-58). Mi permetto l’aggancio rifacendomi ad alcuni miei studi molto datati, ma che mi sono apparsi ancora validi dopo aver finito, prima della pandemia, di leggere il suddetto manuale.

Guardiamo allo svolgimento di ogni nostra Messa: dapprima c’è la chiamata ad entrare in relazione con il Signore che – secondo Giovanni, mandiamolo a memoria! – è già pane nutriente nell’ascolto del vangelo. Tale relazione è il requisito indispensabile per essere coinvolti dentro il dono totale del Signore, che riceviamo facendo nostra la Sua comunione, in modo da aver la forza di testimoniarlo nel cammino fino alla morte. Il suo “eccesso” di amore da non “sprecare”!

A prima vista non comprendiamo il motivo della differenza tra relazione-comunione e quella che noi siamo abituati a chiamare Rito della comunione. E allora qui si profila il peculiare apporto che ci viene offerto proprio dal brano di ieri, venerdì della Terza settimana di Pasqua (Gv 6,51-58). L’evangelista precisa che esiste un secondo modo voluto dal Signore per sostenerci: ci “invita” a fare comunione con Lui dentro un banchetto delle nozze dell’Agnello (sono ancora parole di Giovanni in Ap 19, ). Tradotto in pratica, ci dice che non è sufficiente essere in comunione ascoltando il vangelo e partecipando in piedi alla Preghiera eucaristica. Bisogna sedersi per festeggiare le nozze!

Le cose dovrebbero essere arcinote, ma, quando si leggono i brani così lunghi del Quarto Vangelo, ci sono sorprese. Cosa spinge Giovanni ad approfondire? C’è una domanda posta da interlocutori refrattari: «Come può darci costui la sua carne da mangiare?». Finora il testo in effetti aveva parlato soltanto di un pane dal cielo dato da mangiare (v. 31). Mancava il sangue. Il pane è Gesù in cui credere come dono venuto dal Padre per metterci in contatto con la vita eterna. Mentre nel brano di oggi Gesù dà vita al mondo nuovo donando se stesso: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Ecco il passaggio dall’essere pane disceso dal cielo al dare la vita. Resta un po’ tra le righe il modo in cui Gesù dona se stesso per la vita del mondo. Questo modo è la morte di croce liberamente accettata, che diventa sorgente di eternità.

Allora, dall’approfondimento del vangelo di Giovanni, cambia qualcosa per noi nell’intendere la celebrazione eucaristica, tra l’altro convergendo sul vangelo di Emmaus di domenica scorsa dove, senza il riscaldamento del “muscolo del cuore” tramite l’ascolto, gli occhi non si aprono per fare comunione col crocifisso-risorto? L’invito del Signore si completa, per noi convocati ad un unico altare-mensa, ad assimilare il suo dono di sé. Così ogni credente che lo accoglie insieme con altri entra in una comunione più profonda, ogni volta che riceve il corpo e il sangue. Un corpo e sangue indissociabili non solo come rito istituito dal Signore, ma come verità di un ingresso nella sfera del dono di sé, al punto da venire consumati, dissanguati. A questo punto sarebbe meglio dire secondo il testo: più che essere noi a desiderare di fare la comunione, è la comunione divina che già dimora in noi a volerci coinvolgere.

Ma come attuarlo secondo verità nell’amore, se il rito festivo diventa impacciato nei movimenti da studiare come se fossimo a teatro, nel pieno rispetto di norme igieniche a cui saremmo obbligati? Meglio digiunare, tanto il Signore del Quarto vangelo ci assicura che ci nutre lo stesso. E allora se pensassimo ad una Liturgia della Parola, tanto per essere ecumenici sul suolo europeo «di dolore ostello»?

Giordano Remondi, Mantova

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