Eucaristia, ordine ed episcopato in S. Tommaso d’Aquino: un paradigma da superare


santommaso1 Alla radice degli imbarazzi che oggi attraversano il corpo ecclesiale, a riguardo delle relazioni tra episcopato, ministero e centralità eucaristica – e che spesso perdono lucidità sulla sacramentalità costitutiva dell’episcopato, sulla articolazione del ministero ordinato e sulla comprensione dinamica della eucaristia – si trova quella sintesi maestosa che il Dottore Angelico ha insegnato nel 13 secolo a Parigi e che è diventata uno dei fondamenti argomentativi del “modo cattolico” di intendere la tradizione episcopale, sacerdotale ed eucaristica. La evoluzione storica, tuttavia, ci consegna non soltanto la piena valorizzazione di ciascuno dei tre termini, attraverso una profonda revisione della loro definizione, ma anche una correlazione diversa e più dinamica tra i tre. Ed è su questo piano, ossia sulla correlazione dei tre temi, che scopriamo una verità allo stesso tempo imbarazzante e stimolante. Vorrei enunciarla inizialmente, per poi verificarla velocemente sui principali testi di Tommaso.

Una comprensione alta, ma statica della eucaristia – dominata dalla idea di “transustanziazione” e quindi fondata sulla duplice coppia concettuale sostanza-specie e essenza-uso – ha condizionato la comprensione sia del sacerdozio, sia dell’episcopato. Poiché il sacramento dell’ordine viene pensato in relazione esclusiva al “corpo di Cristo vero”, ossia alla consacrazione del pane eucaristico riservata al prete/sacerdote, la gestione del “corpo di Cristo mistico” viene di fatto spostata integralmente sul Vescovo. Così la differenza tra “potestas ordinis” (sul sacramento) e “potestas iurisdictionis” (sulla chiesa) discende da una comprensione della eucaristia che si limita a tematizzare l’effetto intermedio (corpo sacramentale) e rende “esterno” al sacramento l’effetto di grazia (corpo ecclesiale). Una revisione della teologia eucaristica, che in Tommaso esprime una verità del sacramento troppo limitata e troppo unilaterale, implica necessariamente una profonda revisione della teologia del ministero ordinato. Proviamo a seguire Tommaso nella articolazione del suo ragionamento fondamentale su ordine e episcopato, che appare strettamente dipendente da una definizione minimale e parziale dell’eucaristia.

1. Episcopato e ordine: officium e non sacramentum

Due citazioni dal Commentario alle Sentenze presentano in modo efficace la lettura della relazione tra presbitero/sacerdote e vescovo. Nella prima vediamo descritti gli “atti del sacerdote” con una distinzione preziosa: da un lato il prete “consacra l’eucaristia” (e lo fa in modo diretto e immediato, per autorità divina), mentre dall’altro “prepara il popolo a ricevere questo sacramento”, ma può farlo solo se ha ricevuto la autorità dal superiore (papa e vescovo come autorità umane).

Super Sent., lib. 4 d. 24 q. 3 a. 2 qc. 1 co.

Respondeo dicendum ad primam quaestionem, quod sacerdos habet duos actus: unum principalem, scilicet consecrare verum corpus Christi; alium secundarium, scilicet praeparare populum ad susceptionem hujus sacramenti, ut prius dictum est. Quantum autem ad primum actum actus sacerdotis non dependet ab aliqua superiori potestate, nisi divina; sed quantum ad secundum dependet ab aliqua superiori potestate, et humana. Omnis enim potestas quae non potest exire in actum nisi praesuppositis quibusdam ordinationibus, dependet ab illa potestate quae illas ordinationes facit. Sacerdos autem non potest absolvere et ligare nisi praesupposita praelationis jurisdictione, qua sibi subdantur illi quos absolvit; potest autem consecrare quamlibet materiam a Christo determinatam; nec aliud requiritur quantum est de necessitate sacramenti, quamvis ex quadam congruitate praesupponatur actus episcopalis in consecratione altaris, et vestium ejus. Et ita patet quod oportet esse supra sacerdotalem potestatem episcopalem quantum ad actum secundarium sacerdotis, non autem quantum ad primum.

Nella seconda citazione si precisa, più in generale, la differenza tra l’episcopato inteso come officium e come sacramentum. Questo passo si rivela decisivo: la trattazione dell’episcopato, dal punto di vista sacramentale, è praticamente vuota, perché del tutto sovrapposta al prete/sacerdote. Viceversa essa diventa significativa nella prospettiva dell'”officium”. Tommaso attesta qui la convivenza di una prospettiva “dell’officium” e di quella “del sacramento”. In questo modo egli giustifica le citazioni storiche, con cui deve confrontarsi e che affermano “apertis verbis” che l’episcopato fa parte dell’ordo. E Tommaso ad esse risponde: l’episcopato appartiene all’ordo come “officium”, ma non all’ordo come “sacramentum”.

Super Sent., lib. 4 d. 24 q. 3 a. 2 qc. 2 co.

Ad secundam quaestionem dicendum, quod ordo potest accipi dupliciter. Uno modo secundum quod est sacramentum; et sic, ut prius dictum est, ordinatur omnis ordo ad Eucharistiae sacramentum; unde, cum episcopus non habeat potestatem superiorem sacerdote quantum ad hoc, non erit episcopatus ordo. Alio modo potest considerari ordo secundum quod est officium quoddam respectu quarumdam actionum sacrarum; et sic, cum episcopus habeat potestatem in actionibus hierarchicis respectu corporis mystici supra sacerdotem, episcopatus erit ordo; et secundum hoc loquuntur auctoritates inductae.

In questo caso il ragionamento è condotto sulla possibilità di leggere l’episcopato come “parte dell’ordo”. Tommaso esclude che l’episcopato sia un “grado dell’ordo”, perché in rapporto all’eucaristia non ha nulla di più del presbiterato/sacerdozio. Invece egli considera la possibilità che l’episcopato possa essere un grado dell’ordo, se questo viene considerato come “officium quoddam”: in quanto esercita una potestà sul “corpo mistico” (e non sul “corpo vero”) il Vescovo può essere considerato parte dell’ordo. In questo modo Tommaso utilizza, contemporaneamente, la logica del “sacramento” e la logica dell'”officium”. Nel primo caso il dono di grazia non ha nulla di specifico nel Vescovo rispetto al prete/sacerdote, perché semplicemente realizza la “conversione della sostanza del pane in corpo e sangue”. Nel secondo caso la “azione sacra” (officium) viene riconosciuta in capo al vescovo a differenza del prete/sacerdote. Perciò, ratione officii, ma non ratione sacramenti, il vescovo può essere considerato parte dell’ordo. Qui Tommaso si pone tra due epoche. Quella che ha usato la logica dell'”officium” (e non conosceva ancora il senso scolastico di sacramento) e quella che introduce la nuova terminologia.

2. Ordine sacerdotale e potestà episcopale nella Contra gentiles

Nella ScG Tommaso presenta la “articolazione dell’ordine” con un paragone con la “diversa competenza artigianale”. Così l’ordine viene paragonato al processo articolato con cui il legno è tagliato, la nave costruita, poi varata e timonata, per lo scopo della economia o della guerra…L’ordo ha come fine la “consacrazione del corpo di Cristo” e alla purificazione dei fedeli dal peccato: tutte le articolazioni dell’ordine (nei suoi 7 gradi, di cui non fa parte il vescovo) mirano a questi due fini, a livelli superiori o inferiori.

Contra Gentiles, lib. 4 cap. 75 n. 1

Considerandum est autem quod potestas quae ordinatur ad aliquem principalem effectum, nata est habere sub se inferiores potestates sibi deservientes. Quod manifeste in artibus apparet: arti enim quae formam artificialem inducit, deserviunt artes quae disponunt materiam; et illa quae formam inducit, deservit arti ad quam pertinet artificiati finis; et ulterius quae ordinatur ad citeriorem finem, deservit illi ad quam pertinet ultimus finis: sicut ars quae caedit ligna, deservit navifactivae; et haec gubernatoriae; quae iterum deservit oeconomicae, vel militari, aut alicui huiusmodi, secundum quod navigatio ad diversos fines ordinari potest.

Contra Gentiles, lib. 4 cap. 75 n. 2

Quia igitur potestas ordinis principaliter ordinatur ad corpus Christi consecrandum et fidelibus dispensandum, et ad fideles a peccatis purgandos; oportet esse aliquem principalem ordinem, cuius potestas ad hoc principaliter se extendat, et hic est ordo sacerdotalis; alios autem qui eidem serviant aliqualiter materiam disponendo, et hi sunt ordines ministrantium. Quia vero sacerdotalis potestas, ut dictum est, se extendit ad duo, scilicet ad corporis Christi consecrationem, et ad reddendum fideles idoneos per absolutionem a peccatis ad Eucharistiae perceptionem; oportet quod inferiores ordines ei deserviant vel in utroque, vel in altero tantum. Et manifestum est quod tanto aliquis inter inferiores ordines superior est, quanto sacerdotali ordini deservit in pluribus, vel in aliquo digniori.

Di fronte a ciò la “potestà episcopale” è invece spostata sui fedeli, cui offrire una dottrina certa e un governo sapiente.  Un “potere superiore” deve dispensare il sacramento dell’ordine. Così la potestà episcopale resta “esterna” al sacramento  dell’ordine perché non ha come fine la eucaristia come “corpo vero”, ma solo la chiesa come “corpo mistico”. Essa ha come scopo la “summa regiminis fidelis populi”.

Contra Gentiles, lib. 4 cap. 76 n. 1

Quia vero omnium horum ordinum collatio cum quodam sacramento perficitur, ut dictum est; sacramenta vero Ecclesiae sunt per aliquos ministros Ecclesiae dispensanda: necesse est aliquam superiorem potestatem esse in Ecclesia alicuius altioris ministerii, quae ordinis sacramentum dispenset. Et haec est episcopalis potestas, quae, etsi quidem quantum ad consecrationem corporis Christi non excedat sacerdotis potestatem; excedit tamen eam in his quae pertinent ad fideles. Nam et ipsa sacerdotalis potestas ab episcopali derivatur; et quicquid arduum circa populum fidelem est agendum episcopis reservatur; quorum auctoritate etiam sacerdotes possunt hoc quod eis agendum committitur. Unde et in his quae sacerdotes agunt, utuntur rebus per episcopum consecratis: ut in Eucharistiae consecratione utuntur consecratis per episcopum calice, altari et pallis. Sic igitur manifestum est quod summa regiminis fidelis populi ad episcopalem pertinet dignitatem.

3. La dipendenza dell’ordo da una visione eucaristica troppo unilaterale

In sintesi: una visione dell’eucaristia, che a causa delle lunghe polemiche dell’alto medioevo, si è concentrata (ma anche si è ridotta) alla “verità della sostanza” – e perciò ha concentrato nella “potestas” della “consecratio” il fine ultimo della ordinazione – impone quasi necessariamente una soluzione “senza profezia” e “senza governo” alla figura del suo ministro. Così concentra nel presbitero/sacerdote il rapporto con la eucaristia da consacrare, mentre sposta sul vescovo il potere sulla dottrina e la autorità pastorale. Anche la “competenza sulla penitenza” non è esclusiva del sacerdote, perché discende dal “potere delle chiavi” e quindi deriva al presbitero/sacerdote dal papa attraverso il vescovo. In un certo senso la soluzione adottata per il sacramento dell’ordine discende da una un concezione stretta dell’eucaristia, ridotta al “minimo necessario”.

Ma se si cambia la concezione della eucaristia, e la si arricchisce di “profezia della parola” e di “presidenza ecclesiale”, restituendo al sacramento la correlazione alla comunione della chiesa come sua res, ecco che il ministero e la chiesa chiedono di essere interpretati e articolati diversamente. Il grande magistero di S. Tommaso, poi interpretato dalla scolastica e dalla teologia moderna, viene superato da una rilettura insieme più recente e più antica, che recupera allo stesso tempo:

– una comprensione della eucaristia come “partecipazione attiva”

– una visione del ministero come “partecipazione ai tre munera di Cristo”

– una visione della Chiesa come “comunità sacerdotale”.

I limiti nella lettura tomista del ministero (che non impediscono a Tommaso di scrivere altrove, in S. Th. II II, 185, 1-8, una splendida lettura “pastorale” dell’episcopato, come sintesi di vita attiva e contemplativa) dipendono da una concezione troppo unilaterale e statica dell’eucaristia. Mediante le categorie oppositive di sostanza/specie e di essenza/uso Tommaso può permettersi una geniale  difesa della verità concettale dell’eucaristia come presenza reale, al prezzo di un isolamento della “consecratio” da tutto ciò che precede e da tutto ciò che segue. Né la parola, né la preghiera eucaristica, né la comunione hanno valore di sacramento, ma solo di “uso”. Aver separato, nell’eucaristia, la res et sacramentum dalla res – per il fatto di aver sostenuto che il primo effetto è “significato e contenuto” nel sacramento, mentre il secondo è “significato ma non contenuto” nel sacramento – implica una ulteriore distinzione, che produce una pesante riduzione e stilizzazione della esperienza ministeriale ed ecclesiale. Questo eccesso, dovuto ad una teoria eucaristica troppo angusta, dalla teologia del Vaticano II è stato profondamente corretto sul piano liturgico, sul piano ecclesiale e sul piano ministeriale.

La resistenza alla visione rinnovata della eucaristia disegnata dal Concilio Vaticano II e dalla conseguente Riforma Liturgica – e che ha trovato negli ultimi due decenni nel MP Summorum Pontificum una delle forme più ostinate e radicali di realizzazione – è stata e rimane la opposizione anche ad un modello ministeriale ed ecclesiale in piena trasformazione, che nel paradigma eucaristico medievale e tridentino trova la sua eredità allo stesso tempo più autorevole e più problematica.

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