Evangelo


II DOMENICA DI AVVENTO B

Is 40,1-5.9-11; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

  

Introduzione

La seconda parola che la liturgia ci propone nel vocabolario dell’Avvento «evangelo». Se il primo termine – vigilanza – era l’ultima parola di Gesù, affidata ai suoi discepoli prima della sua passione, il termine «evangelo» apre il Vangelo di Marco (Mc 1,1). Il brano evangelico (Mc 1,1-8) è costituito dall’inizio del Vangelo di Marco. Dopo il «titolo», nel quale viene sintetizzato il messaggio del secondo Vangelo, l’attenzione si sposta su Giovanni il battezzatore. Egli è un «evangelizzatore», il primo, che porta l’annuncio di uno che «viene dopo di lui» e che battezzerà «in Spirito Santo».

La prima lettura (Is 40,1-5.9-11) è tratta dal profeta Isaia ci aiuta a comprendere come l’espressione «vangelo» sia realmente al centro della liturgia di questa seconda domenica di Avvento. Per due volte nel testo compare il verbo «evangelizzare». Nella seconda lettura (2Pt 3,8-14) il buon annuncio della venuta del Signore è applicato alla vita dei credenti. Essi non devono venir meno nell’attesa del Signore, egli «non ritarda nel compiere la sua promessa». Dio non è «lento», ma «longanime» e concede a tutti il tempo per ravvedersi. Ciò che Isaia descrive con l’immagine della strada da preparare nel deserto, la seconda lettura lo traduce in un invito: «fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia».

Commento

Nel Primo Testamento il termine «evangelo», il verbo «evangelizzare», è divenuto un termine tecnico per indicare un intervento di salvezza di Dio in favore del suo popolo Israele, evento atteso, sperato, invocato. Tutto il Primo Testamento è percorso dall’attesa di un «evangelo», di una parola nuova da parte del Signore, del suo «avvento». Il profeta Isaia annuncia l’avvicinarsi di araldi di belle notizie, di evangelizzatori. Isaia ad un popolo esule e scoraggiato parla di messaggeri di belle/buone novità, testimoni che, nonostante la debolezza che l’uomo sperimenta in sé e intorno a sé (Is 40,7), la parola del nostro Dio dura sempre (Is 40,8) ed è il fondamento certo su cui costruire il futuro. Più avanti, parlano della sua stessa missione di profeta, Isaia afferma: «lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1). Un testo che in vari modi gli evangelisti, Luca in particolare, attribuiranno a Gesù e alla sua missione (cf. Lc 4,18). Nella prima lettura di questa domenica Isaia, rivolgendosi agli esuli a Babilonia, porta un annuncio di consolazione. Nella Scrittura «consolazione» non è sinonimo di semplice «vicinanza» o «sostegno» nel dolore, ma annuncio di un ribaltamento della situazione: quando Dio consola, cambia le sorti del suo popolo. Ciò che il profeta è chiamato ad annunciare al popolo oppresso dall’esilio sono «liete notizie», «evangeli». Il testo esorta un messaggero, che potrebbe essere il profeta stesso, chiamandolo letteralmente «evangelizzatore» di Sion e di Gerusalemme. La bella notizia, il vangelo consiste nel fatto che «Dio viene con potenza», per guidare il suo popolo e condurlo fuori dalla sua situazione di oppressione. Occorre tuttavia preparare una via nel deserto perché Dio possa arrivare e manifestare la sua gloria.

Il Vangelo di Marco raccoglie proprio questa espressione «evangelo»/«evangelizzare» dal Primo Testamento per iniziare il suo racconto e si mette in continuità con le attese di Israele per parlare di Gesù, indicandolo così come l’evento di salvezza di Dio: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). I primi discepoli di Gesù, ripensano alla loro esperienza vissuta con il loro maestro e chiamano la sua persona e il suo annuncio «evangelo», perché scoprono che proprio in lui si è compiuta quella parola definitiva di Dio capace di sanare e liberare l’uomo e la donna in profondità.

Con l’espressione «Evangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio» non si indica solo la bella notizia che fu l’annuncio di Gesù Cristo in opere e in parole, ma anche e soprattutto la bella notizia che fu Gesù stesso, con la sua esistenza umana, perché è in lui, nella sua umanità, che si realizza l’intervento definitivo del Signore in favore del suo popolo e dell’umanità, e si rivela in pienezza il volto di Dio. Questo «titolo» del Vangelo di Marco racchiude in se tutto l’itinerario che l’Evangelista vuol far fare al suo lettore: giungere alla scoperta di Gesù come «Cristo/Messia» e come «Figlio di Dio». Alla prima affermazione si giungerà a metà del racconto (Mc 8,29), con la confessione di Pietro; la seconda professione di fede arriverà ai piedi della croce, quando un centurione pagano «vedendo Gesù morire in quel modo», dirà: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Tutto il Vangelo di Marco è un itinerario alla ricerca di questo «evangelo», questa «bella notizia».

Giovanni Battista, che si veste come i profeti, fa da collegamento tra la prima lettura e il Vangelo. Infatti a lui vengono riferite le parola di Isaia «voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore». Nella figura e nella missione di Giovanni è come se si proclamasse che quell’«evangelo» annunciato e atteso nel Primo Testamento, viene ora riconosciuto e accolto in colui che battezza in Spirito Santo. Giovanni diventa quindi «modello» dell’uomo dell’Avvento che sa invitare tutti a «preparare la strada» per la venuta dell’evangelo di Dio.

Conclusione

Noi oggi potremmo chiederci che cosa abbiamo fatto di questa parola così preziosa, così forte. Se le prime comunità ebbero un’esperienza così forte del Signore risorto da riconoscere in lui l’«evangelo» di Dio, noi possiamo dire oggi di attendere con lo stesso entusiasmo l’«Avvento di Dio»? L’Avvento riporta la parola «evangelo» al centro della nostra vita e ci invita ad interrogarci sul nostro modo di attendere Colui che viene. Infatti l’Avvento «evangelizza» il nostro tempo, il tempo di ogni uomo e donna, la storia dell’intera umanità, annunciando che c’è qualcuno da attendere e che questo «qualcuno» è l’«evangelo» di Dio per la vita dell’uomo. L’Avvento ci ricorda che il Cristiano, non è colui che attende con paura e tristezza, un giudizio terribile e spaventoso da parte di Dio alla fine della storia, ma colui che sa che il tempo è custode di un bella notizia, di un «evangelo» di Dio che lo fa fermentare dall’interno, che crea novità lì dove tutto sembra inesorabilmente già detto. L’Avvento ci ricorda che noi siamo prima di tutto custodi di questa parola nuova pronunciata da Dio in Cristo Gesù per liberare l’uomo da tutte le sue paure che lo tengono schiavo. Siamo responsabili di una «bella notizia», la più fondamentale, per l’intera umanità.

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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