Fragilità rituale: mani, volti e spazi. Perché celebrare è diventato così difficile?
Mi è subito piaciuta la richiesta di riflessione, che mi è giunta dalla diocesi di Carpi. Nel Laboratorio che hanno organizzato in quella comunità, con un percorso “on line” di 4 incontri, hanno voluto affrontare la questione della relazione tra “eucaristia” e “fragilità”. Questa prospettiva mi ha spinto, in qualche modo, ad un atto di “ripensamento”. Il che significa, in generale, un tipo di azione che la Chiesa dovrebbe essere allenata a fare. Cambiare prospettiva, guardare in un altro orizzonte, convertirsi, esercitare la “metanoia”, stupirsi per una “dottrina nuova” è proprio questa la irruzione della incarnazione e della risurrezione nella vita del fedele, che lo costringe non tanto ad “allinearsi”, o ad “adattarsi”, ma a leggere più in profondità.
Il vangelo, in quanto messo alla prova dalla pandemia, non cambia, ma può essere compreso meglio. E, del vangelo, quello che qui mi sta a cuore chiarire è proprio la “prassi liturgica”, se e nella misura in cui tra Vangelo e azione rituale vi è una relazione strutturale. Noi ripensiamo la prassi liturgica alla luce del Covid 19. E’ possibile? Ed è giusto? Provo ad articolare la mia riflessione in 4 brevi passaggi:
a) anzitutto intendo chiarire che cosa sia questo “oggetto” (prassi liturgica) e come dobbiamo cercare di comprenderlo;
b) mi chiedo poi quale sia stato l’impatto fondamentale del Covid 19 sul nostro modo di vivere la chiesa e la liturgia;
c) in terzo luogo mi soffermerei sulla importanza della fragilità non soltanto “fuori” della liturgia, ma proprio al suo interno, quasi come una “condizione di possibilità” dell’atto rituale;
d) infine, tutto il percorso potrebbe farci intravvedere, da lontano, che cosa possiamo progettare per il “dopo”, per quando tutto sarà finito, e tutto potrà ricominciare.
Ora provo ad affrontare, uno per uno, i 4 punti che mi sono proposto. Con una piccola premessa.
0. Premessa sulla prospettiva di lettura
Non è facile comprendere ciò che sta accadendo da circa un anno. Possiamo leggerlo a diversi livelli. Ovviamente a livello sanitario, come pandemia. Ma anche a livello economico, come crisi gravissima. A livello personale, come solitudine e lontananza, isolamento e ansia. Ma anche a livello inconscio, psicologico, relazionale, spaziale, temporale…
Il fenomeno che viviamo, con la sua potenza che ci turba, ci spaventa e ci sollecita, manifesta dinamiche profonde, nasconde alcune cose e altre le porta alla luce. La domanda sulla relazione tra “eucaristia” e “fragilità” introduce, tuttavia, una prospettiva singolarmente efficace nel costringerci a guardare diversamente le cose ecclesiali, e quelle liturgiche in particolare. Ciò che mi è parso interessante ed utile, in questo modo di tematizzare la questione, sta proprio nello scoprire che la liturgia cristiana non sta semplicemente “di fronte” alla fragilità, ma esige una esplicita “forma fragile”, che oggi ci è preclusa. Nella liturgia accade una “perdita di controllo di sé”, che oggi è diventata difficile, se non impossibile. Questo mi ha colpito, per la sua fecondità. Cerco di presentarlo senza ulteriore indugio, secondo i passaggi anticipati.
1. La prassi liturgica senza riduzioni
Bisogna anzitutto capirsi bene: la domanda che poniamo sulla “prassi liturgica” si riferisce ad un ambito di fenomeni, di cui uno in particolare svetta a tal punto, da oscurare tutto il resto. Prassi liturgica è certamente la “eucaristia”, la messa, il precetto festivo, inteso però non solo come “contenuto”, ma come forma. Però, oltre ad essa, vi sono tutti gli altri sacramenti (iniziazione, guarigione e servizio/vocazione). Ma vi è anche il pregare comunitario nelle forme più o meno ufficiali, comunitarie o individuali.
Se però cerchiamo di capire ciò di cui stiamo parlando, e che talora è sembrato sfuggire alle discussioni di questo ultimo anno, dobbiamo riconoscere che la “messa” ha alcune caratteristiche, che gli ultimi 60 anni hanno fatto emergere con grande rilievo: è una azione comune, un raduno comunitario, un incontro corporeo con il Signore, in una logica svincolata dalla necessità, nella quale conta l’ azione e la forma, non solo il contenuto. Per questo il ruolo della “actuosa participatio” e la funzione di “linguaggio comune” dei riti diventa il modo ordinario della “celebrazione”, come atto di Cristo e della Chiesa, che è assemblea celebrante e comunità sacerdotale.
Accanto alla celebrazione eucaristica, con tutta la sua inaggirabile rilevanza, vi sono tutte le altre dinamiche sacramentali, nella loro qualità di “riti di passaggio”, e quindi modellati da logiche di “necessità” che abbassano inevitabilmente il livello di gratuità. Non a caso nel tempo più duro della pandemia la “scissione” tra esequie, matrimonio, battesimo ed eucaristia segnalava, con evidenza, il prevalere dei “minimi necessari” sui “massimi gratuiti”.
Ancora, in una terza dimensione, la preghiera comune, nei ritmi del tempo. Che può diventare preghiera monastica, preghiera parrocchiale, preghiera domestica. La casa, il tempo, lo spazio diventano “condizioni di preghiera”. Come vedremo, le condizioni imposte dal “protocollo sanitario” hanno messo a nudo i limiti di una “concentrazione eucaristica” del culto cristiano che rischia di diventare una forma di “paralisi ecclesiale”, nel momento in cui la celebrazione eucaristica diventa o impossibile o difficile. Il recupero di uno spazio del “culto cristiano” più ampio – previo e ulteriore – rispetto alla eucaristia costituisce un punto obiettivo, che richiede non solo diversa organizzazione, ma la scoperta di più sottili priorità.
Ciò che comunque qualifica questa dimensione nella sua integralità – appunto di “azione rituale” – è la relazione intima tra il Signore e la sua comunità. Questo nucleo attraversa trasversalmente tutta la liturgia rendendola luogo di interruzione e di trasgressione delle forme private e pubbliche della relazione. Irrompe una parola e una azione che non lascia nessuno né in privato né in pubblico. Ma vediamo perché questo oggi è diventato tanto difficile.
2. L’impatto fondamentale del COVID-19 sulla vita civile, sulla comunità ecclesiale e sulla prassi liturgica
Come era inevitabile, questo fenomeno macroscopico della pandemia, che ha modificato le forme di vita, di produzione, di sviluppo e di percezione, essendo stata “verbalizzata all’eccesso”, è divenuta piena di “luoghi comuni”. Capirne la natura e l’effetto non è semplice. Quando ad aprile abbiamo visto camminare per le strade dei paesi cervi dalle alte corna, lunghe file di papere attraversare sulle striscie; quando abbiamo scorto i delfini farsi prossimi alla riva e gli uccelli beccare le nostre briciole ben dentro le nostre finestre, abbiamo capito che era accaduto un fatto ben più grande di una emergenza sanitaria.
Provo qui a proporre una interpretazione socio-liturgica del Covid19. Lo faccio in tre passaggi:
2.1. La scomparsa della espressione comunitaria
La emergenza sanitaria, dal punto di vista dell’ordine pubblico, ha determinato un fenomeno impressionante. Riconoscendo “sicure” solo le case private, ha appiattito sostanzialmente sullo stesso modello di “protocollo” sia gli spazi pubblici sia gli spazi comunitari. Rispetto alla struttura della società che prevede tre livelli di esperienza e di espressione (la casa privata, la piazza pubblica e i luoghi comunitari come le chiese, le associazioni, i bar, le palestre, le piscine, i circoli ricreativi) ha drasticamente diviso tra la sfera “privata” e tutto il resto, che è stato ricondotto alla normativa pubblica.
2.2. La privatizzazione della relazione
Questo ha di fatto eroso totalmente (a marzo-maggio) o parzialmente (da giugno in poi) gli spazi comunitari, che si sono ridotti o agli spazi privati, o alle logiche “da remoto”, o si sono “adattati” alle norme vincolanti sul piano pubblico. La privatizzazione di tutte le forme comunitarie, o la loro trasmigrazione “on line” è stato un evento che resterà nella storia. I segni di questo evento dirompente non sono ancora superati. Oggi, sebbene in una versione attenuata rispetto al periodo marzo-maggio, ne abbiamo ancora una larga esperienza.
2.3. Esposizione pubblica della liturgia
Questa condizione “strutturale” ha di fatto profondamente inciso sul versante “espressivo-esperienziale” della nostra chiesa delle nostre liturgie. Perché la Chiesa, appunto, si colloca anzitutto sul versante comunitario. Ha certamente relazioni sia con la dimensione privata, sia con quella pubblica, ma la sua verità è di essere “luogo di comunione”, luogo di riconoscimento, luogo di contatto, luogo di prossimità. La sottrazione dello spazio comunitario e la sua assimilazione allo spazio pubblico ha rimosso il luogo e il linguaggio elementare della vita ecclesiale.
A questa condizione paradossale giova l’interrogativo che ho sollevato all’inizio: in quale rapporto sta tutto questo con la “fragilità”?
3. La domanda specifica che viene dal laboratorio di Carpi: che ne è della fragilità?
Ecco, qui io vorrei dire una cosa che la domanda proveniente da Carpi mi ha fatto scoprire. Ed è proprio il “bisogno viscerale” di una liturgia “fragile”, che la pandemia rende molto difficile per tutti noi. Sembrerà un paradosso, ma con la pandemia e il suo giustificato “protocollo sanitario”, le nostre liturgie hanno perso la loro naturale e necessaria fragilità. Proprio perché siamo tutti “vulnerabili”, ci difendiamo reciprocamente. Ma questo accorgimento sanitario prezioso, ci impedisce di abitare pienamente la regione comunitaria della esperienza. Cerco di chiarirlo in questi sei brevi passaggi.
3.1. Liturgie “pubbliche”
Come dicevo prima, la pandemia ha “reso pubbliche” le nostre liturgie. Nel senso che ha sottratto loro quella differenza “comunitaria” che si esprime in modo elementare, con i più immediati linguaggi del corpo, dello spazio, del tatto, del volto, del movimento. Lo scivolamento “in pubblico” dell’azione rituale le fa smarrire il suo linguaggio proprio e la irrigidisce in una serie di “osservanze” che si sovrappongono e interferiscono pesantemente sul registro simbolico-rituale.
3.2. Tre parole: hands, face, space
Proviamo a capirlo meglio attraverso le parole inglesi con cui, in un primo momento (oggi sono diverse) è stato reso uniforme il comportamento dovuto in contesti pubblici e comunitari. Nel Regno Unito si vedeva scritto, in ogni dove:
HANDS – FACE – SPACE
ossia
MANI -VOLTO – SPAZIO
Il presidio sanitario viene così sintetizzato in tre “luoghi corporei” come le mani, il volto e lo spazio. Il contagio si vince lavorando accuratamente e minuziosamente sul tatto.
3.3. Deserto corporeo
L’attenzione a “sanificare le mani”, talora coprendole anche con guanti, la puntuale copertura di bocca e naso con mascherine e il distanziamento di almeno un metro che si interpone tra i soggetti sottraggono ai luoghi pubblici e comunitari ogni corporalità della relazione. Lo fanno, sia ben inteso, per giusti motivi sanitari. Ma desertificano lo spazio pubblico e comunitario della relazione, spostandola integralmente e decisamente sul piano della vita privata. Uno spazio pubblico, e soprattutto un luogo comunitario, cui è sottratta molta parte del suo potenziale comunicativo, risulta sempre meno vivibile. Così il privato, sicuro, diventa rifugio e quasi tentazione.
3.4. Gli emoticon senza volto
L’organo del tatto, dell’olfatto, della parola e il linguaggio delicatissimo dello spazio, così alterati, incidono profondamente sulla possibilità di “espressione” e di “esperienza” della relazione. La mascherina impedisce di essere riconosciuti e di esprimersi con la mimica facciale. Gli “emoticon” sono muti, se hanno la mascherina! Se di un volto vedi solo gli occhi e se solo gli occhi possono esprimere le parole, la espressione della propria esperienza e la esperienza della altrui espressione risultano pesantemente ridotte, confinate, mutilate.
3.5. La corazza contro il contagio/contatto
Ma c’è un altro aspetto che deve essere considerato: le misure di prevenzione, che giustamente prendiamo a causa della nostra fragilità rispetto al contagio sanitario, paralizzano proprio il “linguaggio della fragilità”! Ossia quel linguaggio che esprime il bisogno di mani accolte, accoglienti, riconcilianti e riconciliate, di corpi vicini e che si accolgono, di volti che chiedono riconoscimento e che hanno bisogni da esprimere. Uomini e donne con “mani pulite” (senza peccato), anaffettivi e inespressivi (senza ascolto e senza parola), che tengono sempre le distanze (autosufficienti) sono “troppo forti”, troppo poco capaci di confessare la loro fragilità. La giusta corazza contro la pandemia ottunde i sensi, allontana il prossimo, impedisce la espressione, limita la esperienza. Le relazioni soffocano, la fede non respira. Non si può accarezzare con l’armatura.
3.6. Una prassi senza grammatica
Così, inevitabilmente, il protocollo sanitario ha in certa misura “bloccato” e “ridotto” le nostre liturgie, che vivono di linguaggi corporei, di forme, di raduni, di canti, di festa comune. Se la parentesi non è una parentesi, ma è un lungo periodo, possiamo pensare, progettare, sperare che, quando tutto sarà finito, ritroveremo la forza di “desiderare” mani sensibili, volti espressivi e riconoscibili, distanze accorciate, prossimità promettenti? Potremo tornare ad essere “fragili” nel nostro celebrare? Potremo essere ancora capaci di non “difenderci” nell’atto di culto? E’ questo il punto di speranza, per il quale occorre una profezia di avventura e non di sventura.
4. E per il dopo? Che cosa possiamo custodire di tutto questo?
Forse questo tempo ci può consegnare un compito: recepire davvero, fino in fondo, la parola buona del Concilio Vaticano II e della sua riforma. Nella luce di quell’evento, che ci ha insegnato in modo nuovo la “fragilità liturgica” e ci ha liberato da “protocolli” troppo rigidi e troppo individualistici, possiamo provare a immaginare quello che sarà a partire da quanto abbiamo sotto gli occhi. Quello che vediamo può farci scorgere, da lontano, ciò che non vediamo, ma speriamo.
a) Effetto “diapositiva”: la Chiesa in controluce
Esasperando i contrasti, costringendoci a fare “per forza” quello che spesso facevamo già per scelta (tenere le distanze, non riconoscere e non essere riconosciuti…) la pandemia porta alla luce, in una forma altrimenti difficile da immaginare, il bisogno di “espressione” e di “esperienza” della fragilità. Così, proprio nel momento in cui siamo più fragili, non riusciamo a esprimere col corpo la fragilità. E possiamo così sperare di prendere congedo da quei “protocolli impliciti” che imperversavano – già prima – sulle nostre mani, sui nostri volti e sui nostri spazi.
b) La gratuità corporea della messa
Paralizzando il corpo che celebra, la pandemia ci fa sentire il bisogno di uscire dai “protocolli” che ci eravamo cuciti addosso senza bisogno di un “governo” che ce li imponesse. Radunarsi con gusto, avvicinarci all’altare, cantare insieme, scambiarsi la pace, comunicare al pane e al calice, processionalmente approssimarsi gli uni agli altri in Cristo: ecco quello che mancava già prima – almeno nella intenzione di pienezza – e che ora sarà di nuovo possibile, desiderabile, augurabile.
c) Le altre forme di “lode, rendimento di grazie, benedizione”
La messa vive di luce propria, certo, ma risplende anche di luce riflessa. Se intorno alla messa c’è poco o niente – dal punto di vista rituale e orante – la messa soffre. Se poi la messa subisce limitazioni, allora senza la alimentazione di ciò che “ritualmente” sta prima e dopo di lei, non riesce a fiorire. Prendersi cura della liturgia “extra-eucaristica” è fondamentale. Quando la chiusura è calata su di noi, lo abbiamo fatto: abbiamo dovuto improvvisare, spesso. Domani non dovremo essere pronti a una nuova pandemia, ma disposti ad alimentare la messa con la preghiera di comunità e di individui nelle case, con la preghiera di comunità e individui nel tempo, con la preghiera di comunità e individui nello spazio. Il resto del culto cristiano emerge con forza nel reclamare uno spazio, uno stile e tempi propri.
d) Il fare penitenza e le sue forme diverse
Anziché tirar fuori dall’armadio il vestito vecchio, logoro e fuori taglia delle “indulgenze” – come abbiamo fatto senza vere ragioni anche durante la pandemia – potremo imparare, sulla nostra pelle di questi mesi, che la penitenza che c’è, la pena temporale non ha bisogno di essere “rimessa”, chiede solo di essere riconosciuta. Attivare percorsi di “riconoscimento” della penitenza che il popolo di Dio compie – per malattia, per perdita del lavoro, per solitudine, per esasperazione – chiede percorsi di “riconciliazione ecclesiale” che non trovano più solo nel confessionale la loro forma-chiave. E che possono trovare vie comunitarie e vie individuali diverse, come abbiamo visto in questi mesi. La penitenza non sé mai stata tutta nel confessionale. E’ il protocollo moderno ad averci persuaso di questo. La penitenza è più grande del sacramento: questo è stato vero sempre. Ora lo è molto di più e in un modo assolutamente nuovo. Assumere la penitenza esistente e darle parola e orientamento: questo è già oggi, e di certo domani, una bella sfida per la chiesa.
e) Una nuova relazione alla fragilità e all’intreccio tra fragilità sperimentata e fragilità espressa
In conclusione, per correlare eucaristia e fragilità si deve agire a diversi livelli. Si deve riconoscere che il rito ha una esteriorità vitale e non simbolica, a cui risponde e che serve: una fragile esteriorità sofferente, che deve essere onorata, ricordata e resa soggetto. Ma il rito ha anche una fragilità che gli è costitutiva e che alimenta la attenzione all’essere fragile degli altri. La nostra fragilità rituale è connaturata all’atto di fede. Esige mani consapevoli di dover gestire un tatto rischioso e benedetto, prossimità diverse, di cui abbiamo bisogno, per essere capaci di riconoscere il volto dell’altro e di esprimere all’altro, anche nel volto, la nostra fraternità.
Prendersi cura della fragilità è anche avere luoghi in cui poterla esprimere davvero. Questi luoghi simbolici e rituali sono decisivi per sviluppare una “cura dell’altro”, avendo sviluppato una ecclesiale cura di sé. La fragilità riscattata della vita chiede di diventare evidente nelle delicate simboliche del tatto, dei volti e della vicinanza. Perdere il controllo delle mani, dei volti e delle distanze è apparsa in questo ultimo anno quasi come la precondizione per tornare a celebrare davvero.
Nei Vangeli le parole di Gesù nell’istituire l’eucaristia sono profondamente espressive del suo animo. Egli non dice che il suo sangue è versato per tutti ma per molti. In Luca dice ai discepoli «per voi». Come mai non per tutti? Sicuramente Cristo ama e vuole salvare ognuno. Ma forse si riferisce alla necessaria collaborazione della persona. Non può donarci la vita a nostro dispetto. Lui rispetta pienamente la libertà di ciascuno. Anche un ateo può a suo modo aprire il cuore allo Spirito, alla luce che gli infonde.
Pare di leggere dunque una profonda delicatezza, anche come un’impotenza, in questo Dio che muore per i suoi figli e neanche così può aprirli automaticamente alla vita. Anche dunque la discrezione di Gesù che fa di tutto per redimere ma sempre ben attento a non invadere, a non imporre. Proprio come il Padre del figliol prodigo che vediamo vegliare con trepidazione sul ritorno del giovane spingendosi fino al limitare massimo oltre il quale l’attenzione diverrebbe presenza forzosa.
Ma proprio così vediamo che Cristo ci ama con un cuore partecipe, attento. Non come un computer che programma astratte logiche aziendali del bene. In Giovanni, Vangelo scritto per ultimo, questo bene liberante si manifesta ancor di più.
La lavanda dei piedi è un segno che Gesù non solo si dona nell’eucaristia ma anche ci aiuta a riceverlo pienamente. E il sacramento della riconciliazione è pure per chi ha messo il proprio cuore nelle mani di Dio, «ha già fatto il bagno», immergendosi nel suo amore. Sempre, senza aver commesso peccati volontari, abbiamo bisogno della sua venuta che ci porti gradualmente nell’abisso della vita Trinitaria e della stessa sua e nostra umanità. Lasciarsi lavare i piedi può dunque intendersi come il rinnovato approfondire, purificare, nell’incontro di grazia della confessione, anche con l’aiuto reciproco di ciascuno, la nostra apertura alla sempre più profonda comunione. Che solo lui può donarci.
Giovanni sembra voler cercare di cogliere con sincerità il senso della vita di Gesù, qui del sacramento della riconciliazione. Tra l’altro l’aiuto ad aprire totalmente il cuore a Dio è un regalo e non una dogana. Cristo afferma che il cuore di Giuda è restato almeno in parte consapevolmente chiuso ma sembrerebbe poi porgergli proprio il pane e il vino eucaristici.
In Giovanni si manifesta appunto anche il significato più profondo dell’amore eucaristico. In tale vangelo l’unico che esplicitamente vediamo nell’ultima cena ricevere il sacramento appena istituito sembra essere il traditore. Un amore senza condizioni. Che addirittura chiede a Giuda di fare presto quello che deve fare. Mostrandogli che la vita che l’Iscariota gli vuole strappare Gesù gliela dona prima egli stesso nella comunione. Cristo ha fretta, un desiderio ardente, di mostrargli che lo ama senza limiti. E forse come osservato sopra mostra così che Giuda quando si perde non ha ancora operato una scelta irrevocabile, anzi…
Il «per voi» qui è concretamente per quell’apostolo. Perciò il Signore afferma che sarebbe meglio per quel traditore non essere mai nato. Vuole fargli comprendere che rischia di rinunciare alla vita eterna. Ma anche forse gli dice quasi che non ci sarà da parte del discepolo un rinnegamento definitivo perché non è questo che Giuda stesso vuole nel più profondo del proprio cuore.
Nel brano sopra meditato (cfr Gv 13) emerge pure un’altra chiave ermeneutica: lo scandalizzarsi dei discepoli al servizio, all’amore, di Gesù. Anche per questo la Chiesa lo scopre solo gradualmente. Perché si riflette talora così poco sul boccone intinto dato a Giuda, come sul pane spezzato porto ai discepoli di Emmaus, non ancora esplicitamente pentiti e perdonati? Inoltre tutti gli apostoli hanno nell’ultima cena ricevuto l’eucaristia ma solo Giovanni non è venuto meno nella Passione. Le squadrature rischiano di cogliere poco della realtà di una persona.
Alla luce di una rinnovata attenzione ai Vangeli si può forse riconoscere che certe interpretazioni dei sacramenti della riconciliazione e della comunione sembrano nascere da una forse ancora limitata comprensione della Chiesa più che dalla vita di Gesù. È possibile perlomeno ritenere che questi intendimenti non fanno parte dell’essenziale della fede? In questo intervento pongo solo domande.
Nel Vangelo di Giovanni (Gv 6) Gesù si rivela come pane della vita che non respinge chi va a lui perché non è venuto per fare una sua propria volontà ma quella del Padre. E il Padre non vuole che egli perda nulla di quanto gli ha dato ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Lo schema chiude, divide, banalizza, nell’eucaristia Cristo si fa tendenzialmente vita di ciascuno, attira gradualmente, solo con l’amore. La Madonna di Guadalupe, che ha cambiato di aspetto e si è raffigurata meticcia, espressione di quelle popolazioni, ha forse tanto da farci scoprire sull’essenziale dell’eucaristia.
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