Fraternità di sangue e fraternità di Spirito in tempo di guerra


crocecavalca

Le parole che leggiamo in “Fratelli tutti” (=FT) risuonano, in questi giorni, singolarmente profetiche: il principio della fraternità, collocato fra i tre principi che fondano la civiltà liberale tardo moderna, è quello meno garantito e insieme il più decisivo. La libertà di autodeterminarsi di ogni soggetto e di ogni popolo, e la eguaglianza tra i soggetti e tra i popoli sono necessari principi generali, che trovano, a livello nazionale ed internazionale, la loro normativa di riferimento. Per quanto fragili o poco efficaci, esistono leggi che sovraintendono alla libertà e alla uguaglianza. Non così accade per la fraternità. Essere fratelli è da un lato un mero dato originario e dall’altro è un grande dono. Ma il compito della fraternità sfugge alla presa delle leggi ed è lasciato come da parte.

La differenza fraterna

La fraternità viene elaborata in un complesso equilibrio di libertà e di eguaglianza, che però non basta mai a sorreggerla. Perché la logica della fraternità non è né quella della libertà né quella della uguaglianza. E’ piuttosto una logica della “differenza in comune” che implica una delimitazione tanto della libertà quanto della uguaglianza. Per essere fratelli e sorelle occorre un certo temperamento tanto della libertà quanto della uguaglianza. Come fratelli e sorelle non si è né del tutto liberi, né del tutto uguali.

Questa idea è stata espressa da papa Francesco già tre anni prima della Enciclica FT, in un discorso del 2017:

La parola-chiave che oggi meglio di ogni altra esprime l’esigenza di superare tale dicotomia (tra efficienza e solidarietà) è “fraternità, parola evangelica, ripresa nel motto della Rivoluzione Francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. È stata la testimonianza evangelica di San Francesco, con la sua scuola di pensiero, a dare a questo termine il significato che esso ha poi conservato nel corso dei secoli; cioè quello di costituire, ad un tempo, il complemento e l’esaltazione del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fraternità è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro diritti fondamentali, di partecipare diversamente al bene comune secondo la loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il loro lavoro o il loro carisma di servizio”

(Francesco, Messaggio alla Accademia delle Scienze Sociali del 24.04.2017 che si può leggere qui)

Oggi incontriamo sulla nostra strada una grave sfida. La delicatezza della fraternità, che è così diversa sia dalla libertà, sia dalla uguaglianza, riposa precisamente sulla sua “aspirazione universale” – alla stregua di libertà e di uguaglianza – ma poggia anche sulla contemporanea radicazione in una storia particolare. All’ideale universale corrisponde una radice particolare.

Fraternità reale e ideale

La fraternità inizia sempre in un contesto familiare, tribale, locale, nazionale, in una determinata lingua, in una tradizione di usi e di costumi. Si è fratelli in relazione ad un atto puntuale di generazione e ad un atto temporale di cura. Veniamo formalmente da un uomo e da una donna, che però ci rendono fratelli perché ci crescono insieme. I fratelli e le sorelle sono certo “figli diversi”, ma all’interno di una uniformità data, di una cura comune. Per questo la fraternità è allo stesso tempo esperienza di differenza e di identità. C’è però anche un versante violento della fraternità, che è allo stesso tempo interno ed esterno ad essa. E’ interno al “legame paterno e materno” (rispetto al quale si crea conflitto tra fratelli diversi) ed è esterno al legame, rispetto a coloro che sono “non fratelli” dal punto di vista particolare. Fratelli e sorelle si sentono minacciati sia dalla “origine” (che potrebbe non riconoscerli) sia dagli “altri” (che possono aggredirli). I fratelli e le sorelle così appaiono esposti ad un duplice “fronte di scontro”: tra di loro, nel conflitto per la successione nella identità; e con gli altri, per la difesa della identità dalle negazioni. In qualche caso può accadere che i due registri si sovrappongano e che la lotta interna e quella esterna si sovrappongano. In questi casi, quando l’altro da sé è “parte di sé”, (ossia quando il “non fratello” è “fratello”, il nemico è il più caro amico) la furia della violenza e la impossibilità di evitarla giungono a livelli quasi indominabili, perché si sente minacciata contemporaneamente tanto la identità quanto la sicurezza.

Essere fratelli in Cristo

L’annuncio della “fraternità in Cristo” è esercizio di promessa di riconoscimento di sé e di misericordia verso l’altro. Che cosa è la fede cristiana se non il superamento della paura della morte: confidenza nel Padre/Madre e comunione col prossimo. Che cosa è la salvezza se non la impossibilità della guerra? I fratelli si sentono tutti riconosciuti e si colgono in comunione con tutti. E tuttavia, alla radice della comunità, sia nel racconto storico, sia nel racconto biblico, si devono riconoscere “fratelli in guerra”. Caino e Abele nella Genesi, Romolo e Remo a Roma, Edipo e i suoi figli/fratelli a Tebe. Nello scontro di una guerra, come oggi la sperimentiamo, la fraternità non aiuta affatto a guadagnare uno spazio di mediazione. Anzi, proprio tra “popoli fratelli” la contesa può essere più aspra, più profonda, più tragica. Dove la guerra sconfina in “guerra civile”, in “resa dei conti”, in “faida familiare”, dove si è più prossimi alla “fraternità naturale”, alla fratellanza di sangue, la fratellanza universale, la fratellanza in Spirito può essere vissuta come un “flatus vocis”, una illusione, una ideologia. Persino le chiese possono arrivare a questa bestemmia: vedono solo il “proprio popolo” e crocifiggono ancora le vittime. Questo è il dramma della guerra: che fa dubitare dei fratelli. E la ammirazione per le forme “naturali” di fraternità si capovolge, immediatamente, in preoccupazione per la assolutizzazione dell’altro come nemico.

La passione per la resistenza

Quanto ci ha sorpreso vedere giovani e anziani riempire sacchi di sabbia, preparare bombe molotov, imbracciare fucili, scavare trincee. L’immaginario più serio della “difesa della patria” si è attivato con una potenza che forse pensavamo chiusa nel passato, come un capitolo superato della storia. Dobbiamo però anche chiederci se questo “resistere” e “non cedere” sia davvero ciò che risponde fino in fondo alla esigenza primaria di quegli uomini e di quelle donne. Se la loro fraternità si possa davvero compiere nello scontro contro i nemici invasori. Nessuno può negare loro il diritto di resistere. Ma quale è il prezzo di questa resistenza? E’ come se tornassimo al senso di fraternità di 230 anni fa: al tempo della Rivoluzione francese, i fratelli erano solo i francesi! Se fratelli sono solo gli italiani per gli italiani, i russi per i russi, gli ucraini per gli ucraini e i tedeschi per i tedeschi, questo potrebbe essere non solo un bene, ma anche un problema insormontabile. Se poi, come accade in questo caso, la opposizione tra russi e ucraini deriva da una “comune origine” di carattere politico, religioso e culturale, tanto maggiore appare la violenza potenziale. In casi come questo, nel nemico si vede anche, e forse soprattutto, il traditore della propria identità. Per il fatto che esiste, mina la propria identità. E per questo la alternativa secca tra vite ritenute incompatibili, diventa una terribile tentazione, quasi una vocazione. L’atto di guerra, l’inizio delle ostilità, inizia a persuadere tutti che questo è il caso: e non c’è più alternativa. Si entra in una catena di atti e reazioni che non ha più fine. Uno inizia senza volere finire, e un altro finisce senza aver voluto iniziare. O la tua vita o la mia. Ed è qui che, nella affermazione della fraternità particolare, la fraternità può smarrire ogni misericordia.

Le chiese e la guerra fratricida

Il temperamento di questa “fraternità particolare” dovrebbe essere la funzione principale soprattutto delle istituzioni religiose. Questo è il piano su cui sarebbe legittimo attendersi una parola chiara da parte di tutte le chiese, nella indicazione della “fraternità in Cristo” come recupero della dignità di ogni volto, anche del più ostile, recuperato ad una fraternità che non è di sangue, di seme o di natura, ma di grazia, di spirito e di vocazione. Questa fraternità non appare né un dato né una evidenza razionale o ideale, ma un mistero di grazia, da custodire.  La parola che sta al cuore di Fratelli Tutti si muove in questa direzione e cerca una raffinata mediazione tra questi due poli opposti: da un lato l’idea che la fraternità consista in una “evidenza dell’umano universale” e dall’altra la convinzione che la fraternità sia garantita solo dalla “autorità di una tradizione determinata”. Non di rado i cristiani, i cattolici, i pastori, e anche i teologi, sono stati tentati di identificarsi semplicemente con il secondo corno della alternativa: ed hanno posto la fraternità recisamente come risultato di una autorità e di una alterità. Fratelli Tutti non segue semplicemente questa via. Piuttosto cerca una mediazione, sapienziale, tra questi opposti. Perché sa bene che tanto la via della evidenza, quanto la via della autorità facilmente conoscono lo scacco.

Difficile fraternità

Come ho detto, la fraternità si manifesta come disastrosa sia nel racconto biblico, sia nel mito civile: Caino e Abele, da una parte, e Romolo e Remo, dall’altra, rappresentano un ammonimento tremendo: le forme di evidenza “genetica”, “tradizionale”, “sociale” della fratellanza non sono davvero consistenti. Anzi, proprio ponendosi come “parziali”, i fratelli diventano principio di guerra piuttosto che di pace. Senza vocazione – sia essa religiosa o civile, ispirata o pensata – la fratellanza può diventare un disvalore: non solo gli assassini tra fratelli, ma anche gli eccessi di favori verso i fratelli sanno violentare ogni comunione: quella familiare come quella sociale. Tuttavia, parlare di “vocazione alla fratellanza” significa superarne la pretesa evidenza e affidarla ad autorità come la parola, la legge, la famiglia, la generazione, la educazione. E l’atto di mediazione tra determinazione particolare della fraternità e esperienza universale della fratellanza sta al cuore del lavoro culturale, del compito pastorale ed anche del lavoro teologico. Vi è qui una sfida per il pensiero da assumere in toto. Se facciamo della teologia semplicemente la nemica delle evidenze moderne, sfiguriamo irrimediabilmente sia la teologia, sia le evidenze moderne. Anzi, proprio la teologia cattolica dovrebbe essere la più interessata a cogliere le ragioni della universalità del tema, per svolgerlo con la cura più diligente in tutte le sue implicazioni. Come unica via solida per scongiurare la guerra, smontandone i pretesti offensivi insieme alle illusioni difensive. I popoli hanno diritto alla autodeterminazione e alle pari opportunità, ma le vittime, i bambini e gli anziani hanno diritto alla fraternità.  

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