G.E. Rusconi giudica papa Francesco: ma il peccato originale può dimenticare una grazia più originale? Su “La teologia narrativa di papa Francesco” (Laterza, 2017)
Su consiglio di un amico, ho letto con piacere il volume che Gian Enrico Rusconi ha dedicato al pontificato di papa Francesco. E mi sono imbattuto in un libro onesto, lineare, pacato, dove anche i dubbi e le perplessità sono espresse con misura e con avvedutezza. Dico subito, per chiarezza, che la tesi di fondo del volume non mi convince, anche se debbo riconoscere che il testo comprende in modo chiaro che di fronte alla figura di Francesco ci troviamo al cospetto di una rielaborazione della tradizione che merita attenzione, anche quando l’autore sembra darne una lettura troppo netta e talora sbrigativa.
La prospettiva generale
Gian Enrico Rusconi costruisce il volume su un assunto piuttosto chiaro: l’operazione che papa Francesco sta realizzando nella Chiesa cattolica costituisce una “nuova ermeneutica religiosa”, che consiste in una “narrativa religiosa” che racconta il primato della misericordia sul peccato, in una storia che continua. Questo punto, viscerale viene da Rusconi considerato come “privilegiato rispetto alla teologia sistematica” (4). Come vedremo questo è un punto decisivo della analisi che Rusconi propone del pontificato di Francesco. Secondo la sua osservazione, queste innovazioni di papa Francesco, pur giustificate per molte ragioni, hanno come conseguenza che “uno dei punti qualificanti della dottrina tradizionale rimane nel vago” (7). Ciò viene applicato ad una serie di “temi” che vanno dalla “dottrina della giustificazione” alla “famiglia”, dalla “teodicea” alla questione del “gender”. Ma tutto ruota intorno a questo punto.
L’attenzione al “peccato originale”
Quale sia questo “punto qualificante” viene ripetuto molte volte, lungo le pagine del volume: La dottrina del peccato originale appare, agli occhi di Rusconi, come il lato disatteso della tradizione, che Bergoglio aggirerebbe e rimuoverebbe anziché affrontare esplicitamente. Il primato della misericordia, in altri termini, deriverebbe non da una riformulazione integrale della dottrina, come il tema meriterebbe, ma da una “censura” del peccato originale, che metterebbe in questione la stessa soluzione adottata, in qualche modo giustificando le reazioni di resistenza, inevitabilmente scomposte. Tuttavia, ed è questo un tratto qualificante del volume, Rusconi aggiunge che su questo punto, su cui è in gioco non una lotta di potere, ma “l’evoluzione – non indolore – del cattolicesimo contemporaneo” (13), vi è forte continuità tra Francesco e Benedetto XVI, che già aveva concepito questa “profonda evoluzione del dogma” in atto. Di fronte a questo fenomeno, che l’autore riconosce apertamente con grande lucidità, la sua resistenza, tuttavia, avviene sulla base di una “tradizione teologica” che egli assume in modo disinvolto, semplicistico e del tutto acritico. Questo è, a mio avviso, il “punto cieco” del libro, che però il suo autore onestamente riconosce.
Il punto cieco, onestamente riconosciuto
Rusconi, infatti, in passaggi-chiave del suo libro, propone una critica di Francesco (e di Benedetto) mettendoli in contrapposizione,non tra loro ma direttamente con S. Anselmo e con la sua teoria della “soddisfazione”: la necessaria riparazione del peccato di disobbedienza al comando divino da parte dei progenitori. Questo immaginario del “peccato originale” – che per Rusconi continua ad essere insuperato – sarebbe il punto debole della proposta teologica e pastorale di Francesco. Qui, come è evidente, gli strumenti teologici di Rusconi, che lui stesso, con grande onestà, dichiara essere del tutto elementari, si rivoltano contro il libro e lo rendono meno efficace di quanto avrebbe potuto essere. Se tutto viene giudicato sulla base di una “scontro” tra una lettura poco più che catechistica della tradizione e una analisi molto più raffinata delle sue conseguenze pastorali ed ecclesiali, è evidente che l’operazione sconta un “deficit teologico” che poi non riesce a recuperare e che condiziona irreparabilmente analisi e prospettive. Che “originale” sia il peccato e che non si riesca a riconoscere una “grazia più originale”, questo è il difetto di una impostazione “classica” che da almeno 200 anni ha messo in moto una “revisione” della impostazione anselmiana, di cui Rusconi non ha nessun sospetto. In questo “percorso di revisione” anche la elaborazione di una “teologia narrativa” – che è molto più che una “teologia giornalistica” – è un fenomeno che ha più di mezzo secolo e al quale hanno partecipato fior di teologi e di pastori, non solo cattolici: ma anche di questo sembra che Rusconi si senta vincolato ad una versione ridotta del Catechismo di Pio X, confondendolo con Agostino, con Tommaso o con il Concilio di Trento.
La questione della teologia nella cultura italiana
Come dicevo fin dall’inizio, Rusconi è ben consapevole di questo limite. Anzi, più volte mette le mani avanti ammettendo la propria “incompetenza teologica”: “i teologi professionali considerino pure queste domande come ingenue, impertinenti e incompetenti” (142). Qui, evidentemente, non si tratta di squalificare un approccio non-teologico, che anzi risulta prezioso. Piuttosto si tratta di esigere che non si creino “miti” che tali non sono: le tesi di S. Anselmo non sono “rigorosamente logico-metafisiche” e Benedetto e Francesco non sono “improvvisatori” senza rigore. Questa immagine dipende semplicemente da mancanza di cultura teologica. Ma qui, e voglio dirlo subito, Rusconi non c’entra. O meglio la sua posizione non è altro che il frutto di un “assetto culturale italiano” che dalla seconda metà dell’800, con il consenso dello Stato liberale e della Chiesa antiliberale, prevede una reciproca estraneità tra cultura accademica e cultura teologica. Si è diffusa così l’idea – ben presente anche in chi, come Rusconi, si è formato alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – che la cultura accademica resti estranea alla teologia, e che la teologia, da parte sua, resti estranea alla cultura. Leggendo Rusconi, come già mi era successo leggendo Severino, anch’ egli figlio della Cattolica, si resta impressionati dal fatto che tutti i riferimenti sono “critici”, ma quando si parla di teologia il massimo di competenza è il catechismo che si è imparato da bambini, e forse anche dimenticato, e che si confonde con la “grande tradizione”. Chi oserebbe fare così parlando di Dante, di Galilei, di Leopardi o di Kant? Chi penserebbe mai che il loro pensiero si identifichi con il Bignami? So bene che questo non dipende soltanto da un vizio della “cultura laica”, ma anche da un parallelo vizio della cultura cattolica. Ma la somma di due vizi non fanno mai una virtù.
Il bilancio positivo
Cionondimeno, desidero confermare che il libro, pur con questi limiti piuttosto pesanti, offre molte serie riflessioni sul cammino di “ritrasmissione”, di “rinarrazione” e di “rielaborazione” della tradizione cristiana che papa Francesco sta compiendo, sulla scia della teologia del XX secolo. Su questo punto, a me pare, Rusconi resta molto lucido. Si fa aiutare da Blumenberg e non si lascia incantare dai testi critici contro Bergoglio, di cui riconosce chiaramente la pretestuosità. Se sapesse anche quanto poco contano, sul piano teologico, le firme apposte a questi documenti di insulti, saprebbe valorizzare ancora meglio il cammino coraggioso e profetico che la Chiesa sta compiendo sotto la guida autorevole di papa Francesco. Tale cammino, che potremmo definire di “traduzione della tradizione”, si trova talvolta pienamente riconosciuto nella lettura “laica” e onesta che Rusconi ne sa proporre. E questo, per la cultura italiana, non è poco.
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