Grammatica e teologia: chiasmo e parallelismo nel Messale romano italiano


duemessali

Appena uscita la nuova traduzione italiana della III edizione del Messale Romano, era emersa la potenzialità del nuovo testo, nella recezione della riforma liturgica, ma si erano fatti notare anche i limiti di una prospettiva limitata e talora angusta, con cui, ufficialmente, dal 2001 al 2017, era stato pensato l’atto di traduzione dei testi liturgici. Vorrei mettere alla prova proprio questo “limite ideologico”, parzialmente presente nel nuovo Messale, esaminando un testo minore, che rimane quasi nascosto al momento della celebrazione, ma che, proprio per questo, appare esemplare di una visione  dell’atto del tradurre che non è esagerato definire “meschina” (pusilli animi). Presento prima la “teoria”, poi la “applicazione pratica” e il suo effetto contraddittorio sul modo di concepire le “lingue moderne” e sulla stessa identità ecclesiale.

a) Una strana teoria sulle “figure retoriche”

Tutto comincia con la svolta, proposta con autorità nel 2001 dalla V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam, nella quale viene formulato un principio generale di “traduzione letterale” che si specifica, sorprendentemente, in una regola particolare che vorrei citare per esteso. Ecco il testo:

“Il genere letterario e retorico dei vari testi della liturgia romana dev’essere conservato” (LA 58). 

Questa regola ha in sé un elemento di inevitabile sorpresa: in effetti, sebbene sia comprensibile che il genere letterario e retorico di un testo possa passare da una lingua ad un altra, la questione decisiva rimane: in quale misura essere fedeli ad un testo significa riportarne non soltanto il contenuto, ma anche la forma? Qui, come è evidente, le lingue sono diverse proprio perché sono “forme letterarie e retoriche” diverse di contenuti affini. L’idea che “tradurre dal latino” consista nel portare in italiano (e in qualsiasi altra lingua-madre) non solo il contenuto, ma la “forma” del latino, esige una vigilanza assai grande sui rischi di fraintendimento del contenuto a causa della forma. E’ vero che la traduzione letterale può avere un vantaggio:

“Ci si ricordi infatti che la traduzione letterale di espressioni che sono colte con meraviglia nel parlare vernacolo, per questo stesso fatto possono stimolare l’interesse dell’uditore e offrire l’occasione per un insegnamento catechetico”  (LA 48).

Ma è altrettanto vero che una traduzione che non traduce, ma suscita solo meraviglia e domanda di chiarimento catechistico, si colloca in una strana posizione rispetto al testo e al servizio alla tradizione. Pertanto, come è evidente, non si può ritenere decisivo un criterio drastico per risolvere le diverse ambiguità che ogni traduzione solleva. E le scelte non possono essere comandate da un criterio rigido.

b) La applicazione ad un testo minore

E’ evidente che ciò che vale per le singole parole o espressioni, ancor più vale per le figure retoriche, il cui valore, nel testo biblico o nel testo liturgico, deve essere di volta in volta valutato e ponderato. Per questo sono rimasto assai sorpreso dal fatto che un testo minore, durante il rito della Presentazione delle offerte, sia stato “ritradotto” secondo un criterio rigidamente letterale, sulla cui fondatezza ed efficacia si potrebbe largamente discutere. Mi riferisco alla “apologia” (una delle poche rimaste dopo il Vaticano II) con cui il prete, a bassa voce, mentre si lava le mani, dice:

Lava me, Dómine, ab iniquitáte mea,
et a peccáto meo munda me

Questo testo, che la Riforma postconciliare ha profondamente ridotto e rimaneggiato rispetto al testo preconciliare, era stato tradotto, nelle edizioni precedenti, con questo testo italiano:

Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato

La traduzione assumeva, in italiano un duplice compito: riduceva l’effetto di apologia personale del prete – che pure non scompariva del tutto –  e scioglieva la figura retorica del chiasmo (ossia della disposizione “incrociata” tra verbo e complemento) in quella del parallelismo.

Ora, invece, il principio della “traduzione letterale” ha invece condotto la nuova traduzione ad una sorprendente ripresa sia dei due “possessivi” e a ristabilire il chiasmo come “modo” della espressione. Ecco il nuovo testo:

Lavami, o Signore, dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Ne deriva – più o meno direttamente – uno strano italiano, una strana retorica e una strana teologia del ministero.

c) Le forma precedente del testo

Può essere utile, per comprendere il motivo della evoluzione che il Concilio ha introdotto, comprendere che questo momento della celebrazione della messa, insieme ad altri soprattutto nei riti di comunione, si era infarcito di “formule di apologia”, con le quali il prete chiederva di essere reso degno di ogni atto di avvicinamento alle offerte e al sacrificio. In particolare si deve notare che per questo gesto di purificazione con l’acqua, la sua definizione come “lavabo” era legata alla formula in uso, costituita da una lunga citazione dal Salmo 25, 6-12 e che suonava così:

Lavabo inter  innocentes manus meas /  et circumdabo altare tuum, Domine, ut audiam voces laudis / et enarrem universa mirabilia tua.
Domine, dilexi decorem domus tuae / et locum habitationis gloriae tuae.
Ne perdas cum impiis, Deus, animam meam / et cum viris sanguinum vitam meam, / in quorum manibus iniquitates sunt, / dextera eorum repleta est muneribus. /  Ego autem in innocentia mea ingressus sum;
redime me et miserere mei. / Pes meus stetit in directo, / in ecclesiis benedicam te, Domine.

Che in traduzione suonerebbe così:

Lavo nell’innocenza le mie mani / e giro attorno al tuo altare, Signore,
per far risuonare voci di lode / e per narrare tutte le tue meraviglie.
Signore, amo la casa dove dimori / e il luogo dove abita la tua gloria.
Non travolgermi insieme ai peccatori, / con gli uomini di sangue non perder la mia vita, perché nelle loro mani è la perfidia, / la loro destra è piena di regali. Integro è invece il mio cammino; / riscattami e abbi misericordia. Il mio piede sta su terra piana; / nelle assemblee benedirò il Signore.

Non si può non notare come la riduzione del latino post-conciliare, che intenzionalmente ha alleggerito la forza poetica di un testo che risultava sproporzionato rispetto al momento della azione rituale, ma aveva una sua coerenza e forza, che ora il testo non ha e non vuole avere. Per questo tanto più sorprendente è che si sia voluta mantenere la duplice accentuazione “privata” del testo e la sua forma retorica “arcaica” rispetto alla normale espressione italiana. In questo caso, mi pare, si tratta di una inutile e duplice forzatura.

c) La lettura inadeguata della lingua moderna

Ciò che sorprende, ben al di là del caso specifico, è proprio la relazione inadeguata con la lingua di arrivo. E ciò almeno per tre motivi:

– in primo luogo, una traduzione dal latino, che non tenga conto del fatto che da più di 50 anni esiste una “tradizione italiana” della espressione liturgica, sembra proprio fraintendere il rapporto tra lingua latina e lingue parlate. L’errore teorico di fondo consiste nel pretendere di concepire le “lingue-madri” come semplici strumenti di espressione del latino. Questo è semplicemente falso. E un tale abbaglio condiziona pesantemente il modo con cui si sono risolti una serie di problemi, che ogni traduzione evidemente pone;

– in secondo luogo, la pretesa che una traduzione “non interpreti” è una forma ideologica di comprensione della traduzione. Interpretare non è una “aggiunta” alla traduzione, ma una sua “condizione”. Dovremmo dire così: se non interpreti, non traduci. Per questo l’idea che “rendere parola per parola” sia il miglior servizio al testo è soltanto una forma ideologica, quando non viene corretta e adattata, di volta in volta.

– in terzo luogo, è evidente che non sempre il chiasmo antico debba essere reso col parallelismo moderno. Il chiasmo ha le sue buone ragioni, anche oggi. Quando però si tratta di un testo senza pretese poetiche e senza fonti bibliche  – come sarebbe stato se si fosse conservata la citazione di un salmo – modificare il parallelismo italiano degli ultimi 50 anni con il chiasmo latino appare solo come un esercizio burocratico della traduzione, che non è utile a nessuno. Rende solo in un italiano peggiore un testo latino di per sé senza pretese.

d) le tracce di una “condizione di minorità”

Come avevo già notato ad inizio del Tempo di Avvento (qui) la fedeltà alla tradizione non è mai solo “fedeltà alla lettera”. Se una fase della storia recente della Chiesa si è potuta illudere di poter considerare la lingue parlate come “semplici strumenti del latino”, ed ha lasciato una traccia significativa anche in questa traduzione italiana del Messale, possiamo però riconoscere che “uscire dalla minorità” significa assumere tutta la complessità del rapporto tra le lingue. Riconoscendo tuttavia che il primato vero non può mai essere quello di una lingua che non è più viva, ma solo quello delle lingue parlate dai bambini. Alle quali possiamo far gustare tanto i parallelismi, quanto i chiasmi, ma come in un giardino zampillante di sapienza, non come in un museo pedante per formule di autodifesa.

 

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