i teologi-bambini e i vestiti dell’Imperatore


“Il re è nudo” (2)
Contro una Jurassik Park liturgica
Nella bella favola di Chistian Andersen, “I vestiti nuovi dell’Imperatore” la verità può emergere soltanto quando un bambino dichiara ingenuamente: “il re è nudo”. I molti condizionamenti, che nella favola impediscono agli adulti di “non vedere” i vestiti inesistenti del re, sono legati al timore di esporsi, alla paura di apparire sconvenienti e al terrore di non dimostrarsi all’altezza del proprio compito. Così Andersen.
Ma che cosa sta facendo, oggi, gran parte della compagine ecclesiale ufficiale, di fronte a documenti “nudi” di ragioni sostanziali e di fondamenti giuridici, di saggezza pastorale e di praticabilità reale come il MP “Summorum Pontificum” e l’Istruzione “Universae ecclesiae”? Silenzio, complimenti, parole d’occasione e generiche virate al largo sono pressoché le uniche reazioni ritenute possibili. Se un Vescovo si azzarda a dire la verità o un teologo a ragionare su problemi obiettivi, subito scatta una sorta di censura preventiva, che accusa il soggetto di “essere contro l’imperatore”. Ogni “parresia” viene bandita quando non esplicitamente censurata. E sembra quasi obbligatorio ripetere acriticamente una serie di affermazioni che appaiono, a chiunque rifletta appena marginalmente, profondamente dissonanti rispetto alla tradizione liturgica e teologica degli ultimi 50 anni.
Non può esservi dubbio che la Riforma Liturgica non volesse essere un dettaglio marginale o un nuovo soprammobile per aggiungere alla storia della Chiesa un particolare non strettamente necessario. Viceversa, chiunque legga i documenti degli ultimi 50 anni, non stenta a percepire le ragioni di urgenza e di strategia che sovrintendono al bisogno di modificare profondamente i riti della Chiesa, per assicurare alla tradizione la possibilità di comunicare ancora. Affermare che la Riforma Liturgica non ha abrogato il rito di Pio V significa, nello stesso tempo, alterare il rapporto con la tradizione degli ultimi 50 anni e introdurre nella storia della Chiesa una forma di “comprensione monumentale” che rischia la completa paralisi del presente quasi per un “eccesso di passato”. Per una tale operazione, occorreva adibire un supporto teorico robusto. Si intuiva, evidentemente, la fragilità della soluzione proposta. E si sapeva che tanto Paolo VI voleva sostituire il VO con il Nuovo, quanto Giovanni XXIII aveva pensato il rito del 1962 come provvisorio, in attesa del Concilio Vaticano II e della conseguente Riforma Liturgica.
Si è così confezionata una teoria del rapporto tra rito romano e diversi usi che appare, nello stesso tempo, teoricamente assai azzardata e praticamente molto pericolosa. L’azzardo teorico consiste nel separare il rito romano dal suo concreto divenire, ipostatizzando fasi diverse della storia, rendendole tutte indifferentemente contemporanee. Sul piano pratico, questa soluzione di fatto supera ogni “certezza del rito”, introducendo un fattore di grande conflittualità all’interno delle singole comunità ecclesiali e impedendo ai Vescovi ogni vero discernimento.
La logica dei documenti – direi quasi la loro grammatica – tende a smentire il loro contenuto. Infatti, se è vero che sul piano del contenuto viene ribadito il primato del rito ordinario (di Paolo VI) rispetto al rito extraordinario (di Pio V), i documenti sono scritti nelle categorie di Pio V e non in quelle di Paolo VI: utilizzano infatti una gerarchia di priorità capovolta tra “messa senza popolo” e “messa con il popolo” che nessun documento usa più in questo modo, dal 1970 in poi.
Ma non basta. Come nella favola di Andersen, intorno al re ci sono non solo i sarti ingannatori, ma tanti altri soggetti, che, per non apparire stupidi, si lanciano in lodi sperticate del nuovo vestito: c’è chi dice che il VO sia l’ideale per il dialogo ecumenico, ma mentre dice questa enormità sente un forte calore arrossargli il viso e non capisce il perché; c’è chi dice che finalmente questi documenti attestano un vero stile cattolico, del quale si aspettava da tempo la manifestazione, anzi la fenomenologia, che ovviamente l’evidenza della fede e la giustizia di agape già sapevano da tempo; c’è persino chi trova che il VO del 62 sia più ricco di testi biblici del successivo e che quindi il Concilio sarebbe meglio attuato dal rito romano del 1962 che dal rito del 1970. Di fronte alla spudoratezza di questa presunta “dimostrazione”, vale soltanto ristabilire il senso comune. Ossia: se il Concilio, nel 1963, stabilisce formalmente che è un obiettivo importante per la Chiesa assicurare “maggiore ricchezza biblica” al rito della messa, e se si sostiene che il rito del 1962 – che i padri Conciliari conoscevano bene, perché lo usavano quotidianamente per celebrare la messa – sarebbe stato biblicamente più ricco di quello del 1970, allora delle due l’una: o i Padri conciliari erano tutti ubriachi di mosto quando hanno votato quella richiesta di maggiore ricchezza biblica, oppure chi propone questi argomenti strampalati dovrebbe avere maggiore considerazione per i propri lettori e non giocare con le parole. Ma si sa, i tifosi applaudono anche i falli.
Una buona occasione per accorgersi della realtà c’è stata: un vero bilancio era ipotizzabile alla fine del 2010, quando tutti i vescovi hanno riferito al Vaticano il frutto di questa esperienza triennale di applicazione del MP. E’ stata una occasione mancata, sia per una forte reticenza dei vescovi, che spesso confondono la comunione con il farsi i complimenti, sia per la interessata disattenzione di un settore oltranzista della Curia romana. Ne è scaturito un nuovo documento che è ancora peggio del Motu Proprio. E’ tuttavia evidente che il suo impianto teorico risulta ancora più fragile e ricco di equivoci. Può essere facilmente frainteso, quasi come fosse una sorta di “rivincita contro il Concilio”. E’ la prassi ecclesiale a dover ritrovare le ragioni della Riforma nella “partecipazione attiva”, tenendosi così lontana da ogni forma rituale che preveda la presenza dei cristiani solo come “muti spettatori”.
Di fronte a questi tentativi di mistificazione della tradizione liturgica, bisogna trovare la forza di dire: “Il re è nudo”. Dire questa cosa – con tutta la sua dose di critica ai documenti ufficiali cuciti da sarti illusionisti – è una possibilità per tutti i cristiani, ma è un compito per quei bambini che nella chiesa si chiamano “teologi”. Purtroppo i teologi spesso si sentono e si rivelano troppo adulti e hanno gli occhi subito pronti a vedere (o addirittura ad ammirare e a magnificare) vestiti che non ci sono. Mentre essi, per ministero, sono “obbligati” a restare bambini dagli occhi vispi, a dire la verità, senza tutte le mediazioni che vincolano altri ministeri a logiche necessariamente più complesse. Di questi bambini-teologi ha bisogno la Chiesa, per coltivare una esperienza di comunione diversa da quella delle caserme o delle società per azioni, dove la critica al superiore (o al capo) è subito intesa come sgarro imperdonabile o come prova di eterodossia. Finché la Chiesa resterà diversa da queste organizzazioni, la voce dei bambini sarà salutare. Chi mai potrà avere interesse a farli tacere? O forse si penserà ai bambini soltanto per costuire una immensa “Jurassik Park” rituale, dove tutti – trattati come bambini – potranno “sentirsi a casa” al prezzo di perdere ogni senso della storia e della realtà?
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