Idealizzazione sinodale e dispositivo di blocco: una curiosità procedurale sul “gruppo 5”


Dopo la conclusione della prima Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, con una decisione del febbraio e marzo 2024, del papa e della Segreteria del Sinodo, si istituivano 10 gruppi di studio per lavorare su temi specifici. Con la attribuzione del tema “ministero ecclesiale e donne” al “gruppo 5”, secondo quanto pubblicato dall’Osservatore Romano il 9 luglio scorso, venivano poste le premesse per ciò che con la Apertura della Seconda Assemblea del Sinodo dei Vescovi abbiamo ascoltato da parte del Prefetto Fernandez, nella sua relazione, che ha manifestato gli orientamenti assunti, all’interno dell’Ufficio, sul tema in questione. In effetti, se si legge quella pagina dell’Osservatore ( che si può trovare qui ) si nota facilmente la forma assunta dagli altri 9 gruppi di studio (che si presentano come un elenco di membri che costituiscono il gruppo) e la dicitura che invece si riferisce al gruppo 5. La riporto qui per esteso:

Gruppo 5
Alcune questioni teologiche e canonistiche intorno a specifiche forme ministeriali (RdS 8 e 9)

L’approfondimento delle tematiche in oggetto — in particolare la questione della necessaria partecipazione delle donne alla vita e alla guida della Chiesa — è stato affidato al Dicastero per la Dottrina della Fede, con il coordinamento del Segretario per la Sezione Dottrinale, Mons. Armando matteo, e in dialogo con la Segreteria Generale del Sinodo. Il Dicastero ne ha avviato lo studio secondo le procedure stabilite nel suo Regolamento proprio, in vista della pubblicazione di un apposito Documento.

Questa dicitura lascia intendere almeno tre cose importanti:

a) Che il tema della “partecipazione delle donne alla vita e alla guida della Chiesa” veniva sottratto non solo al dibattito sinodale, ma anche al confronto tra membri di un gruppo specifico.

b) Che del tema si sarebbe occupata la “sezione dottrinale” del Dicastero.

c) Che sul tema il Dicastero stesso avrebbe avviato la stesura di un Documento, che quindi, secondo tempi e modi propri della organizzazione di quell’Ufficio, avrebbe esposto una “dottrina specifica”, in modo totalmente autonomo rispetto al lavoro sinodale.

La prima osservazione riguarda il fatto singolare per cui, se si può lavorare e studiare in gruppo su tutti gli altri temi di riflessione sinodale, sul tema del “ruolo della donna” tutto viene confidato ad una “autorità dottrinale”, senza alcun confronto. L’idea che sulla “donna nella Chiesa” vi sia una “dottrina” che non si confronta con la storia e con la esperienza, ma che scende dall’alto di una “ontologia rivelata” sul femminile viene confermata dalla procedura sinodale. Una simile procedura di “scorporo” si può spiegare solo così. Di qui il paternalismo della conclusione già anticipata dalle anticipazioni sulla struttura del documento (“il Dicastero ritiene che non vi sia ancora spazio per una decisione positiva del Magistero sull’accesso delle donne al diaconato come grado del sacramento dell’Ordine”).

La seconda osservazione riguarda il modo di intendere il confronto sinodale. Il metodo dell’ascolto e della capacità di rileggere la tradizione partendo dalla esperienza delle chiese viene apertamente contraddetta su un punto decisivo. Se si affida il tema integralmente ad un “Ufficio di curia” si ammette, in modo piuttosto candido, che la chiesa sinodale può essere una retorica suadente, ma incapace di incidere sulle procedure con cui la Chiesa fa esperienza di sé. Se la esclusione della donna dal ministero ordinato è considerata una “verità di fede” (cosa che ci si guarda bene dal dimostrare, ma che viene affermata apoditticamente) è evidente che si trasforma facilmente il tema della riserva maschile in un “valore non negoziabile”, da sottrarre alla valutazione plurale.

La terza osservazione riguarda il riapparire, in una forma piuttosto netta, del “dispositivo di blocco” come strategia di immunizzazione della Chiesa cattolica dalla esperienza. Questa strategia, elaborata tra fine XIX e inizi XX secolo, e superata parzialmente nel tempo del Concilio Vaticano II, è riapparsa con forza a partire dagli anni 80 del XX secolo e si è affermata soprattutto con i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Al suo centro sta una paradossale affermazione di incompetenza: la chiesa “non ha la facoltà” (ad es di estendere la ministerilità della unzione dei malati, di celebrare la prima confessione dopo la prima comunione, di impedire la celebrazione secondo il rito antico o di ammettere le donne al ministero ordinato, ecc.). Questo registro della “mancanza di potere” progressivamente diventa incapace di comprendere quella “fiducia nella autorità” che il Concilio Vaticano II aveva riscoperto, riconoscendo alla Chiesa la facoltà, la capacità e la autorità di riformare se stessa. Questo ha caratterizzato, profeticamente, tutti i primi anni del pontificato di Francesco, che nel suo “ritorno al Concilio” ha di fatto riabilitato la Chiesa a poter riformare se stessa. Ovviamente bisogna ricordare che nel momento in cui la Chiesa nega di avere una autorità, conferma indirettamente di avere la autorità opposta. Se io dico di non avere la facoltà di assumere una decisione positiva sulla ammissione delle donne al diaconato, affermo, indirettamente, di continuare ad avere la facoltà di assumere la decisione positiva di escluderle. In questo modo si “blocca il sistema”. Lo si fa certamente in buona fede. Lo si fa per una questione di “onore”. Ma così si perde da un lato la capacità di riconoscere pienamente la dignità della donna come soggetto ecclesiale autorevole. Ma ancor più si perde l’autorità di saper riconoscere la dignità della Chiesa, nel saper leggere profeticamente i segni dei tempi. In questa dignità sta il suo onore.

Come è evidente, su altri temi, soprattutto sui temi meno legati a decisioni dirette e concrete, altri Gruppi di studio hanno potuto e saputo svolgere relazioni molto più ricche e promettenti. E’ certo, tuttavia, che la occasione perduta di un confronto realmente sinodale sulla esperienza ecclesiale delle donne, che potesse aprire alla Chiesa cattolica un percorso nuovo di riconoscimento e di dignità, segnala un deficit di dottrina e di disciplina, un deficit di esperienza e di linguaggi,  un deficit di cultura e di discernimento, che rischia di produrre soltanto un ulteriore documento puramente difensivo di un assetto ecclesiale e di una cultura idealizzata che non c’è più. “In ogni idealizzazione c’è una aggressione”, diceva papa Francesco a inizio pontificato, citando Freud. Sulle donne le idealizzazioni escludenti e aggressive, che addirittura scorporano la loro esperienza dal dibattito comune e dalle decisioni condivise, restano all’ordine del giorno.

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