Identikit della VI Istruzione (/6): due sono i modi di tradurre, anzi tre.
Non tutte le traduzioni sono uguali e non sempre si può tradurre con i medesimi criteri. Una giusta elasticità, che la Istruzione “Liturgiam authenticam” vorrebbe impedire, è il necessario ingrediente per un sapiente “trasporto” di esperienza da una lingua ad un altra. L’idea di uniformare tutti i criteri ad uno soltanto – ossia a quello letterale – genera soltanto o conflitto o paralisi. Purtroppo è la condizione a cui siamo giunti, affidandoci ai criteri troppo drastici e troppo nostalgici della V Istruzione. Per avviarci sulla strada di una VI Istruzione occorre maturare una visione più ampia e più realistica del tradurre, che consideri l’incontro tra lingua originale e lingua di arrivo come l’occasione per un arricchimento e non solo come una “perdita”. Riprendo qui la recensione proposta da Loris della Pietra – direttore dell’Ufficio Liturgico della Arcidiocesi di Udine e professore a S. Giustina, Padova – ad un articolo di Goffredo Boselli, monaco di Bose e liturgista.
Un buon contributo alla riflessione sulla traduzione
di Loris della Pietra
Sul rapporto fedeltà/infedeltà delle traduzioni liturgiche mi pare centrato l'articolo di G. Boselli su “Rivista Liturgica”, 3 (2010), dal titolo Le traduzioni liturgiche a servizio di un'ermeneutica del mistero celebrato.
L'autore propone una triplice modalità/possibilità di traduzione.
1. Traduzione fedele, quando il testo in lingua viva rispetta l'originale "non solo nel senso ma anche nei vocaboli, nello stile e nella forma" (p. 392). Una traduzione infedele, in questo caso, sarebbe una traduzione al di sotto delle possibilità teologiche del testo originale. Egli stigmatizza, ad esempio, la mancata resa in italiano delle dense espressioni "quadragesimalis exercitia sacramenti" (colletta della I domenica di Quaresima) e "ipsius venerabilis sacramenti celebramus exordium" (orazione sulle offerte della stessa domenica).
2. Traduzione correttiva, quando il nuovo testo rimedia ad alcune lacune del testo originale. L'esempio portato è il concetto di placatio, tipicamente medievale, e che la soteriologia contemporanea ha ampiamente superato.
3. Traduzione accrescitiva, quando la nuova formulazione accresce di significato il contenuto dell'originale, soprattutto in riferimento ad immagini o espressioni di matrice biblica. Si porta l'esempi di memores reso con "memoriale", non senza qualche ambiguità come è noto.
Mi pare che la catalogazione di Boselli giovi a comprendere che in ogni caso la traduzione non è mai la semplice trasposizione del testo originale, unico depositario del senso e della verità, mentre le versioni sarebbero delle copie minori, "infedeli", strettamente dipendenti da un testo più maturo e venerabile. La traduzione, quando è compiuta con intelligenza e nella convocazione di tutte le competenze necessarie, può anche migliorare il testo di base, rendendolo davvero "pregabile" dalle assemblee liturgiche linguisticamente e storicamente determinate. Anche il testo tradotto, dunque, contribuisce alla lex orandi; non lo sarebbe, a mio avviso, qualora, per comprenderlo a fondo, per gustarlo e anche per "praticarlo" dal punto di vista celebrativo (nel dire e nel cantare), si dovesse ritornare al testo originale perché il nuovo testo risulta troppo povero quanto al contenuto e inelegante e sbiadito quanto alla forma.
[…] Pubblicato il 16 marzo 2016 nel blog: Come se non […]
Mi permetto due riflessioni a margine: 1) dal punto di vista filologico una traduzione può essere fedele senza necessariamente rispettare l’originale ” nei vocaboli, nello stile e nella forma”, perché non sempre è possibile farlo, soprattutto “nei vocaboli”, in quanto non esiste perfetta corrispondenza di lessico tra due lingue, per cui una traduzione fedele sarà anche sempre accrescitiva o minorativa in virtù della differenza linguistica e culturale tra lingue e del differente valore denotativo e connotativo che parole di lingue diverse hanno pur appartenendo allo stesso campo semantico, la forma correttiva, mi perdoni la crudezza, è invece un “monstrum philologicum”, 2) dal punto di vista teologico, visto che di eucologia si tratta, ci andrei comunque piano col correggere espressioni o concetti che il traduttore sente teologicamente desueti, il rischio è quello di sottomettere all’arbitrio del singolo teologo/traduttore la lex orandi che è patrimonio comune di tutta la Chiesa e che porta con se, anche letterariamente, i segni del suo continuo sviluppo.
Rispetto al testo recensito nel post, mi pare che S. Meligrana usi il termine “fedele” in senso lato e non “tecnico”, come fa Boselli. Non dimentichiamo, infatti che Boselli propone una “catalogazione” rispetto a traduzioni che sono tutte “fedeli” nel senso in cui ne parla Meligrana. Pertanto non è affatto sorprendente che vi siano casi in cui la fedeltà sia mediata, inevitabilmente, da vocaboli, stili e forme diverse. Il dissidio sta, a mio avviso, nella differenza tra un uso “generico” di fedeltà e un uso “tecnico”: per Boselli la traduzione “fedele” è quella che può permettersi di mantenere vocaboli, struttura e stile tra lingua di partenza e lingua di arrivo. Per questo motivo mi trovo in difficoltà a capire perché diventi un “monstrum philologicum” la “traduzione correttiva”. Anche qui, correttiva non significa che qualcuno vuole correggere la liturgia o la dottrina del passato, ma che “tradurre” non permette di mantenere né gli stessi vocaboli, né la stessa struttura, né lo stesso stile. D’altra parte lo sviluppo della “lex orandi” come può accadere se non si accetta il principio di una traduzione non solo letterale? Dietro queste perplessità, bene espresse da Meligrana, vedo apparire non solo la legittima cautela verso forme arbitrarie di “traduzione”, ma piuttosto una certa incomprensione dello sviluppo della lex orandi, come della lex credendi. Se si parla di “continuo sviluppo”, bisogna accettare che questo “sviluppo” possa continuare anche oggi e domani. Perché mai dovremmo pensare che lo sviluppo fosse possibile solo per il passato e non anche per il presente e per il futuro? Non renderemmo così le nostre traduzioni – e le nostre liturgie – pezzi da museo e non atti vitali?
Mi permetta di spiegarle perché, a mio parere, una traduzione “correttiva” è un monstrum philologicum. Ogni traduzione è il tentativo più o meno riuscito di trasportare un testo da un universo culturale ad un altro, questo comporta che il traduttore debba conoscere bene il testo di partenza (con tutto il mondo culturale in cui si situa) e quello d’arrivo (anche questo con l’intero mondo culturale in cui dovrà inserirsi) di conseguenza in ogni traduzione vi sono delle scelte interpretative che un traduttore deve fare a causa dello strumento linguistico di partenza e di quello d’arrivo, correggere deliberatamente un testo perché lo si ritiene datato non è la stessa cosa che renderlo comprensibile attraverso un’adattamento culturale, nel primo caso (deliberata correzione) il traduttore fa un arbitrio e viene meno al rapporto fiduciale col lettore destinatario della traduzione che si aspetta di trovarci il pensiero e il mondo culturale dell’autore tradotto, il secondo caso (adattamento culturale) è il caso ordinario di ogni traduzione che voglia essere utile a mediare culturalmente. La traduzione correttiva proposta nel Post mi sembra più simile al primo caso che al secondo, ma posso aver frainteso il post. Grazie della Pazienza.
Caro Sergio Meligrana,
sono grato per questa domanda e non è proprio la pazienza ad essere in gioco, ma piuttosto la prudenza e la comprensione. Ora la sua obiezioni ha certo un suo fondamento. Perché se si tratta di “correggere” un testo, questo appare, di per sé, più frutto di un arbitrio del traduttore che di una esigenza del testo. Considerando il testo, nella sua astrattezza e assolutezza, la sua contestazione non fa una piega. Ciò che invece mi pare che debba entrare in gioco, in questo nostro caso, è il carattere “liturgico” del testo. E dico liturgico, distinguendolo dal testo biblico. Sul testo biblico io avrei una certa esitazione ad assumere la “via correttiva”: ad es. io, come forse pensa anche lei, non mi sento d’accordo con quella tendenza, anche diffusa e con delle ragioni, ad emendare i “salmi imprecatori”, sottoponendoli, diciamo così, ad un giudizio “politicamente corretto” sulla base delle sensibilità maturate nel tempo, nella società e nella coscienza. Ma questo vale per un testo scritturistico, che la Chiesa “riceve” e che in qualche modo “resiste”. Viceversa io credo che il testo liturgico – testo di una colletta, di una preghiera eucaristica, di un post-communio, possa essere sottoposto a traduzione anche correttive. Le faccio un esempio, che mi sembra lampante, e nel quale non si potrebbe assolutamente trattare il testo liturgico come il testo biblico. Prendiamo la “vexata quaestio” delle intercessioni del Venerdì Santo. La preghiera preconciliare “pro iudaeis” diceva:
Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur.
Sappiamo che già dal 1959 prima GIovanni XXIII e poi la Riforma Liturgica superarono il testo, con una Riforma, che sostitui il testo con uno nuovo.
Ma se oggi noi dovessimo utilizzare liturgicamente una traduzione del testo, come potremmo restare “fedeli al testo” se nel frattempo la teologia del rapporto tra cristianesimo e giudaismo è profondamente mutata? Siccome il testo liturgico non è un testo “da museo”, ma “per la vita”, dovremmo disporre inevitabilmente di una “traduzione correttiva”. In altri termini, poiché il testo liturgico non è solo “letteratura acquisita”, ma “testo in atto”, chi lo proclama è responsabile di quello che dice. E se il testo originale è stato scritto all’interno di una comprensione “superata” – dell’uomo, della donna, della Chiesa, di Dio, delle relazioni sociali, della natura… – deve essere adeguato ad una comprensione diversa. Ripeto, questo vale per il testo liturgico, mentre sul piano della scrittura sarei molto più cauto e attento a lasciare anche una forte tensione.
Una traduzione correttiva interviene necessariamente tutte le volte in cui il testo liturgico introduce rappresentazioni o giudizi legati ad una certa epoca e non più adeguati per una epoca diversa. Ed è questo il principio di un “necessario sviluppo” della lex orandi. Ovviamente, di fronte al mutamento culturale, le strategie sono molteplici: non si traduce affatto; si traduce ad litteram; si traduce in modo correttivo; si compone un testo nuovo. La tradizione è fatta di tutte queste possibilità: nessuna esclusa e spesso tutte incluse…