Il battesimo e il potere: in dialogo con Fulvio Ferrario


fontebapt

Il “responsum” della CdF e la Nota dottrinale che lo accompagna hanno suscitato la attenzione non solo di teologi cattolici, di cui ho parlato nel post di ieri. Anche il teologo sistematico della Facoltà Valdese di Roma, Fulvio Ferrario, ha scritto un breve commento che merita di essere considerato e discusso. Lo riporto così come lo leggo su FB.

La questione del potere (di Fulvio Ferrario)

Se la fonte è affidabile, alcuni battesimi celebrati nella chiesa cattolica sarebbero a rischio invalidità, a motivo dell’uso del plurale, “Noi ti battezziamo”, al posto del singolare, “Io ti battezzo”, pronunciato dal sacerdote. Il tentativo di porre il ministro in relazione alla comunità, mediante il “noi”, porrebbe in ombra, secondo l’obiezione magisteriale, il ruolo unico e insostituibile del sacerdote.
Ci si può chiedere se, in una fase di scristianizzazione galoppante e con chiese e società squassate da questioni di vita o di morte, un tale problema sia pastoralmente davvero decisivo. Sarebbe, però, una domanda superficiale. La questione del ministero, nel dibattito tra le chiese e nelle chiese, è in realtà la questione del potere: chi lo detiene e come lo difende. Dall’ordinazione di uomini e donne alla cosiddetta ospitalità eucaristica, i temi più svariati sono da ricondurre alla domanda sul potere nelle chiesa o, più precisamente, al tentativo di molti che lo detengono di non mollarne neppure un grammo. Il monopolio del sacramento è, si può ben dire, “segno efficace” del monopolio del potere. Nella storia del cristianesimo, la Riforma protestante e le sue conseguenze costituiscono un tentativo (uso l’indeterminativo per prudenza, ma a dire il vero non ne conosco altri) di costituire un’alternativa a tale monopolio clericale. (F. Ferrario)

Mi sembra che il commento metta in luce bene un elemento paradossale e veramente insidioso della Nota, che può essere letta nei termini proposti da Ferrario anche quando, come credo, è animata, almeno in parte, proprio dalla intenzione opposta. Siccome non è un problema nuovo, ma si ripropone da almeno 500 anni, questo diverso modo di giudicare le medesime esperienze può essere occasione di scontro o di crescita comune. Io scelgo questa seconda possibilità e provo a “rispondere”, cercando di lasciarmi provocare fino in fondo dalla critica del prof. Ferrario.

Avere il potere di perdere potere

A me pare che il testo della Nota, per quanto, come ho già segnalato nei miei post precedenti (prima qui e poi qui), utilizzi argomenti non del tutto coerenti al loro interno, e che in qualche caso risultano obiettivamente deboli, abbia tuttavia l’intento principale di affermare, nella sostanza, non il “potere del prete”, ma il fatto che “il ministro del battesimo non ha autorità sulla forma del sacramento”. Qui bisogna evitare due assunti che vengono quasi spontanei: che il ministro del battesimo sia il prete – il che non è necessario – e che, nell’esercitare il proprio ministero, il ministro affermi se stesso piuttosto che la autorità di Cristo e della Chiesa.  Rispetto alla “formula” – con cui si identifica, in modo classico e forse estenuato, la continuità con il Signore – nessuno ha potere. So che questa affermazione può essere usata in modo soltanto retorico e può essere impiegata per “bloccare” la tradizione, ma la affermazione, di per sé, è piuttosto sulla assenza di potere che non sulla sua affermazione.

Certo, le dinamiche del potere non sono mai lineari e tanto meno limpide. Tenere per sé tutto il potere è la illusione di tutte le istituzioni, Chiesa compresa. Ma in questo caso, anche per il ricorso non banale ad alcune fonti preziose citate dalla Nota, mi sembra chiaro l’intento di “salvaguardare la tradizione nella sua libertà”. Visto che soggetto della celebrazione è Cristo e la Chiesa – e questo viene ripetuto più volte e con testi non equivocabili – il ruolo del “ministro” non è “sostitutivo” o “supplettivo”. Effettivamente il “noi” è davvero soggetto reale della azione liturgica. Come ci ricordano due testi fondamentali del CCC, citati dalla nota: n. 1140 «Tota communitas, corpus Christi suo Capiti unitum, celebrat» e n. 1141: «Celebrans congregatio communitas est baptizatorum», questo è il contesto implicito del “noi” che diventa “io” nella formula. Io non vedo qui un “monopolio clericale del sacramento”, ma il tentativo – faticoso nel linguaggio e della argomentazione – di mantenere la differenza tra Cristo e Chiesa e tra Chiesa e Cristo. La funzione del ministro – che nel battesimo non è detto sia un ministro ordinato – è proprio questa non identificabilità tra Cristo e la Chiesa. Io chiamerei “pastorale” proprio questa preoccupazione di mantenere la differenza, anche se la Nota tende a dare invece di pastorale una connotazione soggettivistica che non è per nulla originaria nel termine. Forse proprio questa “disattenzione” verso il vero significato del livello pastorale della questione impedisce alla Nota di collocare la questione della “formula” nel contesto vitale e vivace della “forma verbale” e della “forma rituale” che, agli occhi troppo classici del documento, tendono a diventare soltanto quantité négligeable. Ma qui mi fermo, non senza aver riassunto tutto in una battuta, che corrisponda dialetticamente alle conclusioni di Ferrario. Sia pure in modo non lineare, e con tanti limiti, leggo nella Nota non anzitutto la ambizione di “mantenere il potere”, ma piuttosto quella di “perdere potere”.  Forse anche sub contraria specie, questo mi pare, salvo errore, l’intento portante del documento.

 

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