Il bene della relazione sessuale. Generazione, comunità di vita, amore e benedizione


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Le relazioni personali, le comunità di vita e le alleanza sponsali sono state da secoli interpretate con la categoria del “bene”, proprio perché fin dall’inizio vi è stata la tentazione di leggerle come un “male”. Non è un caso che la prima grande sintesi sul matrimonio, scritta da S. Agostino, abbia avuto come titolo De bono coniugali. Qualora superiamo l’idea che il matrimonio sia un male – ma questa era stata la tentazione di una parte del cristianesimo antico che è rimasta sottotraccia fino a L. Tolstoj e oltre – e se possiamo così oltrepassare anche l’idea che l’unico “sposo” di ogni uomo o donna possa essere solo Cristo e che quindi ogni “altro” matrimonio risulti illecito o peccaminoso, entriamo nella considerazione del matrimonio come un “bene”, ovvero nella teoria dei “beni del matrimonio”. Agostino ce ne ha fornito una presentazione sintetica che ha fatto scuola per molti secoli: i tre beni del matrimonio sono i figli, la fedeltà e il sacramento (ossia la indissolubilità). Il primato della generazione è chiarissimo per Agostino, poiché è la vera giustificazione centrale della vita matrimoniale. Se si è incapaci di continenza, la destinazione alla generazione rende l’atto sessuale lecito. Ma non vi è solo “generazione”, ma anche “fedeltà” e “legame per sempre”. Già per Agostino essere fedeli e legarsi per sempre ha una sua dignità, anche se non vi è generazione.

I beni del matrimonio sono tre, anzi quattro

Per lunghi secoli questa rappresentazione del matrimonio, giustificato dalla generazione, è rimasta centrale. Almeno fino al codice del 1917 – e così ufficialmente fino al 1983 – la definizione del vincolo matrimoniale come “ius in corpus” di ciascuno dei coniugi sull’altro, mostra la centralità dell’atto di unione sessuale come giustificazione teologica del matrimonio. Si deve aggiungere che, sempre a partire da Agostino, la distinzione tra “beni in sé” e “beni per altro” ha collocato il matrimonio “in funzione” sia della generazione, sia della amicizia sociale.

Ma con il mondo tardo moderno un altro modo di comprendere il rapporto tra uomo e donna veniva prendendo forza. Ora nel matrimonio ogni soggetto, oltre che generare i figli, trovava nel bene dell’altro e nel bene proprio in relazione all’altro un valore decisivo. La considerazione dello stesso piacere della carne perdeva il carattere di libidine da frenare e di intemperanza da arginare, per assumere quello di espressione ed esperienza dell’amore. Fino a portare la stessa Chiesa cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, a parlare del matrimonio come “comunità di vita e di amore” e così ad aggiungere ai classici tria bona di cui aveva parlato Agostino, un quarto “bonum coniugum”, il bene dei coniugi. In questo orizzonte, ovviamente, molte cose erano destinate a mutare.

La generazione perde l’esclusiva

La personalizzazione del matrimonio e della famiglia non è indolore, almeno per i teologi. La centralità della generazione iniziava ad essere contestata e si parlava, ufficialmente, almeno a partire da Humanae vitae, di “procreazione responsabile” o di “paternità e maternità responsabile”. Un certo “controllo” della generazione diventava possibile e ragionevole, in coerenza con la nuova rilevanza del bene dei soggetti coniugati. Questo, dal punto di vista di un pensiero sistematico, alterava profondamente il sistema latino, che Agostino aveva inaugurato autorevolmente e la cui sintesi aveva attraversato con grande forza più di un millennio e mezzo di storia.

Tuttavia non è frequente trarre le dovute conseguenze sistematiche da questa grande trasformazione: ossia si fa fatica ad ammettere che se la generazione è assolutamente centrale, è evidente che la relazione tra uomo e donna può essere “ordinata” solo se lo “jus in corpus” viene esercitato all’interno del matrimonio. Se quindi il sesso è giustificato dalla generazione, è evidente che solo il matrimonio è il luogo di esercizio del sesso. Se però la relazione tra uomo e donna ha, in sé, una valore di “bene”, l’esercizio della sessualità acquisisce una certa autonomia, non solo dalla generazione ma anche dal matrimonio. Diventa un “bene” senza dover essere necessariamente collegata con la generazione.

Dall’uso del sesso alla esperienza della sessualità

Questo sviluppo non impedisce affatto che anche oggi si possa riconoscere nel matrimonio la unità complessa di questi quattro beni (generazione, bene dei coniugi, fedeltà e indissolubilità), ma non esclude che possano esservi forme di vita, unioni (etero- o anche omosessuali) in cui sono presenti solo alcuni di questi beni. Che restano beni, anche se non stanno dell’orizzonte della generazione. Generano amicizia sociale, fedeltà, pace anche se non generano figli.

La prima questione che dobbiamo porre è allora: è possibile che un uomo e una donna vivano la fedeltà, la indissolubilità e la cura reciproca senza generare? Questo non è affatto impossibile, anzi è reale e può anche assumere forma matrimoniale, persino sacramentale, purché la “assenza di generazione” non sia vissuta e presentata come una esplicita scelta. Così è fin dai tempi di Agostino. Il “non poter generare” non impedisce il sacramento. Ma anche nel caso in cui la non generazione fosse esplicitamente voluta, e quindi si dovesse escludere il sacramento, che cosa impedirebbe già oggi di benedire, nella unione non sacramentale, i beni che ci sono, piuttosto che maledire per il bene che non c’è?

Qui si trova un punto delicatissimo della recente tradizione morale: se il “male minore” o “bene possibile” possa essere considerato un “disordine”, e quindi un peccato, o invece un “altro ordine”, un “bene minore”.

Un solo bene può essere benedetto?

Si ricorderà che nell’anno 2010 vi fu una polemica intorno ad alcune affermazioni di Benedetto XVI circa l’uso del preservativo da parte di un “prostituto”, che in determinate circostanza poteva essere considerato come un “atto morale”.

Vorrei applicare lo stesso esempio non per quanto riguarda il giudizio morale, ma per ciò che concerne il discernimento pastorale. Poniamo il caso-limite in cui, nella vita di un “prostituto” o di una “prostituta” sia espressamente voluta – diremmo per mestiere – la assenza di generazione, la ovvia mancanza di fedeltà, ma si viva una relazione stabile, di carattere etero o omosessuale, nella quale ci si prende cura dell’altro e si vuole il bene dell’altro. Quella “comunità di vita e di amore”, percepita non come occasionale, ma con una sua stabilità acquisita, fuori da ogni prospettiva sacramentale, perché mai non potrebbe essere riconosciuta e benedetta? E se potesse esserlo, ciò non potrebbe essere a fortiori valido anche per la vita non compromessa di un uomo e una donna, o di due uomini, o di due donne, che vivano la loro infecondità naturale forzata o voluta, ma che siano fecondi nella relazione personale, sociale, culturale ed ecclesiale? Se mancassero tre dei quattro beni che costituiscono la relazione matrimoniale, ma quello sussistente fosse davvero un bene, una forma del “vivere per l’altro” e di “abnegazione”, sia pure in mezzo ai possibili disastri degli altri tre, non sarebbe proprio la Chiesa il luogo ideale di un profetico riconoscimento, piuttosto che il tribunale severo di un giudizio di esclusione?

Il centro e la periferia: i diversi linguaggi della Chiesa

Ma come dovrebbero presentarsi e sentirsi, in questo caso, i ministri della Chiesa? Come dei funzionari di una istituzione che porta e impone il centro in ogni periferia? Oppure come uomini di Dio che portano verso il centro ogni più remota e isolata periferia? La Chiesa non pone né impone il bene: anzitutto lo riconosce e lo riceve. Perciò la questione decisiva – che eventualmente si dovrebbe sottoporre al giudizio ecclesiale di una Congregazione – non sarebbe quale sia il potere della Chiesa sulla benedizione, ma piuttosto quale sia la autorità che il bene reale e il bene possibile esercita sulla stessa Chiesa. La prima domanda è quella di una Chiesa “chiusa nel suo centro”; la seconda è quella di una Chiesa davvero in uscita universale, convinta di avere un centro eucaristico, ma anche un corpo sacramentale, e infine una periferia e un “fuori di sé” da sollecitare nella lode, nel rendimento di grazie e nella benedizione. Una chiesa che sa di potere e di dover parlare con linguaggi diversi al suo centro, nel suo corpo esteso e ai margini più esterni della sua periferia. Quanta somiglianza potrebbe ritrovare in sé, ad imitazione del suo Sposo e Signore, una Chiesa che fosse abituata a mangiare con le prostitute e i pubblicani, che sapesse sostare in conversazione con donne dai molti mariti, che non perdesse occasione per intrattenersi con ciechi nati e con poveri malati, nei quali saprebbe sempre scoprire – senza troppa sorpresa e con magnanima apertura – il volto pieno di speranza delle “primizie del Regno”.

 

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