Il cristiano sospende la liturgia, se è liturgia (di Mauro Festi)


crocecavalca

Nel dibattito di questi giorni, una riflessione accurata sulle relazioni tra “celebrare ecclesiale” e “contagio comune” esige percorsi di argomentazioni assai articolati. Mi pare che questo testo di Mauro Festi  porti un contributo importante, con argomenti non scontati, e permetta un avanzamento obiettivo della coscienza comune. Esso segnala con grande lucidità come alcune posizioni di “indifferenza” verso la comune assunzione di responsabilità nel prevenire il diffondersi della epidemia rischino di condurre la Chiesa a posizioni di marginalità e di irresponsabilità e ad offuscare il senso stesso della celebrazione ecclesiale. Lo ringrazio di cuore per aver inviato il suo testo a questo blog e lo pubblico molto volentieri: lo reputo infatti altamente significativo per un franco dialogo ecclesiale. (a.g.)

Il cristiano sospende la liturgia, se è liturgia

di M. Festi

Le parole di E. Bianchi su twitter hanno provocato un diffuso sgomento, anche tra coloro che normalmente si trovano in sintonia con lui. Concludendo il messaggio al grido “il cristiano non sospende la liturgia!”, Bianchi ha messo in discussione che l’impedimento della liturgia sia una forma di solidarietà con chi soffre, ha paura e cerca consolazione. È per solidarietà che sono state sospese le celebrazioni?

 Sospensione della liturgia e attuale missione della Chiesa

 La sospensione della liturgia è temporanea riorganizzazione di tempi, luoghi e atti di una comunità, in vista della tutela della vita e del bene di una più ampia collettività, che supera i confini locali. In tal senso, l’unico grido possibile è quello comune contro il medesimo male che minaccia.

Ma qual è questo male, e come lottare contro di esso? Qui si gioca la delicata articolazione del piano umano e del piano divino, che mi sembra in questa situazione sia andata in tilt. Si sono mescolate e confuse diverse domande, che non siamo ancora capaci di “maneggiare con cura”, e che mettono in questione complessivamente i nostri immaginari sulla missione della Chiesa. Come essere profezia qui dentro? Che cosa vuol dire celebrare, dare gloria a Dio e santificare gli uomini in questa situazione? In che maniera abitare la porzione di mondo in cui siamo, secondo l’autorità tipica del regnare di Dio, che è deposizione di sé per amore, per la vita di colui e di colei di cui ci facciamo prossimi? Nella provocazione di chi si trova nella posizione di Bianchi mi sembra che si mostri la nostra incapacità di non ridurre una delle tre dimensioni all’altra e di articolarle tra loro.

Chi difende il “diritto” del cristiano alla liturgia manifesta una problematica concezione dell’amore, come relazione con il prossimo e tutela del bene comune; ma anche interpreta la presa di parola in contesto pubblico in chiave difensiva e autoreferenziale, che mina alla base ogni possibilità di annuncio bello e buono e di confessione di fede. La partecipazione alle celebrazioni diventa difesa dal male tutta in carico a Dio; la carità semplice intercessione; la profezia un dar ragione di un Dio contro l’uomo, più che di un Dio per l’uomo. Chi, dall’altro lato, difende i “diritti dell’uomo”, tende a dare il primo posto alla cura e alla tutela della vita e del bene comune, non riuscendo, però, a rendere del tutto ragione di come si possa prendere forma dall’amore alla maniera di Cristo, e di come si caratterizzino la parola e l’azione dei cristiani a partire dalla loro fede.

Forse occorre riconoscere che tutto questo non abbia nulla di immediato, e che al momento, non sappiamo far altro che polarizzarci quando parliamo di liturgia e di carità, di Chiesa e società civile, di religiosità e profezia, di fede e scienza.

 La realtà viene prima dell’idea: evidenze di sanità mondiale

 Un ostacolo che mi sembra di cogliere al nostro “ben posizionarci” nella situazione è costituito dal ragionare in astratto, fuori dalla realtà. Alcuni dati dell’’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ci aiutano a portarlo ad evidenza.

Il Portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica (www.epicentro.iss.it), in un comunicato sull’entrata in vigore nel 2007 del nuovo Regolamento sanitario internazionale (https://www.epicentro.iss.it/globale/oms-Ihr), rende conto di come una delle necessità che hanno portato alla revisione del precedente regolamento è legata a tale presa di coscienza: “all’inizio del XXI secolo, a causa delle pressioni di natura demografica, economica e ambientale si era creato un contesto particolarmente favorevole, come mai prima di allora, all’emergere di malattie infettive, nuove ma non solo. Negli ultimi decenni si è visto che nessun Paese può difendersi da solo dalle malattie e dalle altre minacce alla salute pubblica. Tutti i Paesi sono esposti infatti alla diffusione di organismi patogeni e al loro impatto economico, sociale e politico”. A questa presa di conoscenza si giunse con la Sars (2003), che fece emergere la nostra condivisa vulnerabilità e il bisogno di mettere in campo misure protettive collettive, condividendo la responsabilità di garantirne l’applicazione. Per la prima volta, i Paesi si sono trovati concordi su questo approccio, esigito da un mondo complesso, in cui le parti interagiscono tra loro e gli equilibri vanno tutelati insieme, pena il mancato raggiungimento dell’obiettivo. Che in contesti pubblici, ufficiali e internazionali si declina come contenimento, prevenzione e salvezza, per far fronte a quella che l’allora direttore generale dell’OMS non esitò a definire l’odierna minaccia principale alla salute globale: la pandemia influenzale. Minaccia ancora reale, se all’inizio del 2020 l’Assemblea generale dell’ONU, nello stilare le sfide per il nuovo decennio, ha incluso ancora il lavoro per arrestare la diffusione delle malattie infettive, prepararsi alle epidemie, e guadagnare la fiducia del pubblico. Per quanto, stando al rapporto di gennaio di valutazione dello stato di salute in Europa, l’Italia si collochi tra i paesi più longevi, si fanno rilevare la permanenza di differenze di accesso alle cure e alle strutture sanitarie, legate a fattori socio-economici: anche la garanzia del servizio sanitario nazionale (ai cui ¾ della spesa provvedono i fondi pubblici) non basta. Inoltre 1/6 degli ultrasessantacinquenni ha limitazioni nelle attività di base della vita quotidiana e necessita di assistenza a lungo termine; proprio la fascia di popolazione più esposta alla mortalità del virus. Si muore, infine, ancora soprattutto per cardiopatia ischemica e ictus, che necessitano di posti letti in terapia intensiva, se si arriva in tempo.

 La realtà viene prima dell’idea: evidenze di sanità locale

 Solo un ragionare in astratto può far scegliere di tirarsi fuori dal mondo. Possiamo permetterci di sragionare sulla prevenzione, solo perché, nel caso in cui le cose andassero male, avremmo comunque la garanzia che qualcuno, a livello locale, nazionale e internazionale, si prenderà cura di noi, e pagherà per noi. Chi non ha questa garanzia si mostra molto più attento, perché sa di non avere 3700€ da pagare soltanto per un tampone, senza contare degenza, esami, cure, assenza da lavoro libero professionista…Possiamo permetterci di sragionare sulla prevenzione, solo se non abbiamo a fianco persone che per questa crisi hanno perso il lavoro, si stanno indebitando, non riescono a pagare i dipendenti; o chi lavora in ambito sanitario, sapendo di essere sempre esposto al contagio e di poterne essere fonte per i propri cari. Non sragioniamo se uno di quei morti era mia nonna o mia mamma, e non importa che avesse già un quadro clinico delicato (come molti, a una certa età), perché se non fosse stata contagiata, avremmo potuto condividere ancora un po’ di vita insieme; o magari quel morto che non si conta è mia sorella, perché non ha avuto accesso a un posto in terapia intensiva, perché non ce n’erano disponibili. O se sono io, in stato terminale per il tumore con cui lotto da anni, che ho avuto la sfortuna di essere ricoverato in un ospedale della zona rossa prima che diventasse tale, e so che morirò da solo, perché la mia famiglia non è di quel paese, e non può accedervi in alcun modo. Può sragionare solo chi non fa parte degli “untori”, per i quali è stato messo in piedi un servizio psicologico ad hoc, perché della prevenzione fa parte anche tracciare gli incontri dei contagiati, e se tu hai contagiato qualcuno che è morto, lo senti sulla pelle che quella benedetta chiacchierata di un giorno come gli altri, se non l’avessimo fatta, forse il mio amico sarebbe vivo. E perché io guarisco e lui no?

 La realtà viene prima dell’idea: evidenze di sanità ecclesiale

Credo che la coerenza di pensiero di chi non attribuisce autorità alla società civile e alle istituzioni sanitarie dovrebbe prendere la forma di una obiezione di coscienza, con dichiarazione pubblica di assunzione delle conseguenti responsabilità. Se la prevenzione è inchinarsi alla paura del contagio, e se il rimedio è celebrare, e ne sono convinto, rinuncio ad ogni forma di cura nei miei confronti, e sono anche, però, consapevole, che se dovessi sbagliarmi, e dovesse accadere come in Corea del Sud, in cui una delle maggiori cause di diffusione del virus risulta la riunione clandestina di adepti (numerosissimi) di una setta cristiana, devo essere pronto a pagare, penalmente e civilmente, e devo assumermi l’onere di accettare che le istituzioni in cui non ho creduto ricostruiscano l’ammontare economico del mio disprezzo del bene comune, ringraziando di non vivere, a livello civile, in regime di legge del taglione, dove la vita si paga con la vita.

Ma davvero vogliamo esporre la Chiesa a questo, nel tempo in cui la sua credibilità è ai minimi storici? In cui la sua profezia è già profondamente irrilevante per molti? L’unica forma di non solidarietà certa è tirarsi fuori da questo mondo, il nostro, perché saremo stati impedimento ad una azione “in solido”, compatti nella lotta per la custodia del bene comune, non che abbiamo, ma che siamo. L’incomprensione della parola solidarietà, insieme alla parola liturgia (servizio del popolo: quindi perché le celebrazioni senza popolo?!/ servizio per il popolo: quindi perché la liturgia a tutti costi contro il bene comune che è il popolo?!), e insieme alla parentela tra salute e salvezza (salus, no?), mette in risalto la situazione di estraneità che è andata creandosi tra il “noi ecclesiale” e “gli altri”. Dove il “noi ecclesiale” è realmente soggetto pericoloso per il bene comune, quando si associa alla dis-abilità alla respons-abilità di almeno una parte del clero, che continua a celebrare in sfacciato atteggiamento di noncuranza delle basilari norme igieniche, incapace di modificare le proprie abitudini che domandano ora una ferrea disciplina del proprio corpo per il bene dell’altro; e almeno di una parte di popolo, che ritiene di non esporsi al contagio in situazioni di reale dubbio di tutela della salute pubblica. Tutto è in carico a Dio, il quale, però, in quaresima, offriva a noi l’occasione di imparare a disporre di noi, nella profezia, nel culto e nella carità. Non sarà che ci sono dei segni dei tempi da cogliere tra le righe di questo tempo? Ad esempio sulla nostra parziale debolezza di soggetto ecclesiale, sulla nostra parziale incapacità di esercitare responsabilità, sul nostro non saper fare discernimento e quindi non essere capaci di dar carne alla creatività dello Spirito, o sul nostro non aver mai fatto leva sui ministeri battesimali, a pena di trovarci ora a non saper parlare che di un solo luogo della vita cristiana, l’eucaristia, e solo in termini clericali e apologetici?

(immagine: Crocifisso di Luca Cavalca)

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