Il dibattito sulla Riforma Liturgica


Pubblico le prime pagine di un saggio che si può leggere integralmente sull’ultimo numero della rivista on-line “Reportata” ( http://mondodomani.org/reportata/grillo03.htm)

La Riforma liturgica è “tragica” o “profetica”?
Due riletture per celebrare il 50^ del Concilio Vaticano II

“Bisogna rendersi conto che una nuova pedagogia spirituale è nata col Concilio: è la sua grande novità; e noi non dobbiamo esitare a farci dapprima discepoli e poi sostenitori della scuola di preghiera che sta per cominciare. Può darsi che le riforme tocchino abitudini care, e fors’anche rispettabili; può darsi che le riforme esigano qualche sforzo sulle prime non gradito; ma dobbiamo essere docili e avere fiducia: il piano religioso e spirituale, che ci è aperto davanti dalla nuova Costituzione liturgica, è stupendo, per profondità e autenticità di dottrina, per razionalità di logica cristiana, per purezza e per ricchezza di elementi cultuali ed artistici, per rispondenza all’indole e ai bisogni dell’uomo moderno”.
                                    Paolo VI

La istituzione di una “giornata della memoria liturgica” oggi sarebbe cosa provocatoria, ma paradossalmente necessaria, per recuperare il senso della profondità storica e della vocazione ecclesiale, nella grande confusione che viene continuamente proposta e alimentata “in re liturgica” da settori limitati ma influenti della compagin ecclesiale. Un tale auspicio può certo scaturire dal disagio di chi opera oggi in campo pastorale, ma deve anche essere nutrito da una adeguata documentazione storica, che spesso, a causa della propria deficienza, approda ad analisi e a ricostruzioni del tutto campate per aria, che facilmente confondono la causa con l’effetto e spesso approdano – non solo nelle improvvisazioni dei giornalisti, ma anche nelle affermazioni inavvertite di prelati e di presunti teologi – alla colpevolizzazione del Concilio Vaticano II e della Riforma stessa per la crisi in cui versa la liturgia Proprio in nome di questa esigenza di recupero storico delle autentiche questioni ecclesiali e rituali sottese alla Riforma Liturgica e che toccano il corpo ecclesiale da almeno 150 anni, vorrei qui  tentare una rilettura degli ultimi 50 anni mediante una ricomprensione della eredità storica di alcune comprensioni del processo di Riforma che fin dagli anni ’70 si sono presentate nel corpo ecclesiale, con ricostruzioni più o meno congetturali, pertinenti o impertinenti, dei passaggi storici che tale Riforma ha comportato. Per il nostro tempo una tale ricostruzione è assolutamente urgente, onde evitare di leggere in modo troppo miope sia i recenti preoccupanti sviluppi sia le antiche insuperate ambizioni.

0. Illustrazione del percorso

Può forse sorprendere che già alla fine degli anni ’70 possiamo trovare negli scritti di J. Ratzinger e di  H.-U-von Balthasar alcune delle idee che ritroviamo, 30 anni dopo, al centro del testo del Motu Proprio “Summorum Pontificum”, con cui si pretenderebbe di “liberalizzare” la forma del rito romano precedente alla Riforma Liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Forse alcune delle “intenzioni segrete” di questo ultimo documento possono essere adeguatamente comprese considerando un “dialogo a distanza” tra due testi di Ratzinger e di Von Balthasar, che in qualche modo esplicitano meglio ragioni a favore e ragioni contrarie rispetto al testo della riforma. Proviamo ad esaminarli, per trarne utili indicazioni sul senso della Riforma liturgica, ieri e oggi. Procederemo in questo modo: dapprima esamineremo un testo “autobiografico” di J. Ratzinger (1.) , da cui desumeremo alcune conseguenze circa il modo con cui oggi è necessario “datare” il Movimento Liturgico (2); quindi considereremo la prospettiva di Von Balthasar (3.) dalla quale trarremo indicazioni complessive sulle “sfide” che oggi stimolano e minacciano la coscienza ecclesiale circa la Riforma Liturgica (4.), cui faremo seguire cinque tesi conclusive (5). che riassumono la visione complessiva – e complessa – verso cui il Concilio Vaticano II ha voluto condurci e che oggi occorre profondamente e strategicamente recuperare.

1. La Riforma liturgica come “tragedia” nella autobiografia di J. Ratzinger (1977)

Il primo testo che voglio considerare è tratto dalla Autobiografia che l’attuale papa Benedetto XVI ha scritto nel 1977, a 15 anni dal Concilio Vaticano II. Si tratta, come è evidente, di un testo “non magisteriale”, che quindi può essere commentato dal teologo con una certa libertà. Anzitutto leggiamo da esso questa lunga citazione, che manifesta nell’allora Arcivescovo di Monaco – poi Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e infine Papa Benedetto XVI – una comprensione “tragica” dell’impatto che la Riforma Liturgica ha avuto per la vita e la identità della Chiesa. Per chiarire il senso e la portata di questo testo, vi si parla di ciò che accade immediatamente dopo il Concilio (negli anni 65 e seguenti), ma la stesura è di più di 10 anni dopo. Ecco il testo:

“Il secondo grande evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l’irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di «riforme» liturgiche.
Non c’erano semplicemente una Chiesa cattolica e una (114) Chiesa protestante poste l’una accanto all’altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati.
Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell’introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti.
Non c’è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse (115) in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita «etsi Deus non daretur»: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II”.

Questo testo, con la sua sorprendente durezza, comporta alcuni “giudizi” talmente carichi di “pregiudizi” da risultare del tutto disorientanti per una valutazione pacata e serena dei fatti in gioco. Anche se oggi J. Ratzinger è Vescovo di Roma e Papa, siamo evidentemente liberi di giudicare con grande libertà e parresia un suo “scritto autobiografico”, che non rappresenta un documento magisteriale, ma può utilmente farci comprendere alcune delle logiche del magistero liturgico dal 2007 ad oggi.
Anzitutto è singolare un primo aspetto: lo scandalo è suscitato in Ratzinger non dalla Riforma Liturgica, ma dalla “promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli”. Curiosa espressione, legata a una ricostruzione storica del tutto ipotetica, congetturale e sorprendentemente ideologica. Mentre Pio V avrebbe semplicemente “rielaborato il messale in uso”, il divieto di “quel messale” ha comportato “ una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Ciò che qui viene affermato dipende da una ricostruzione assolutamente manichea della possibile continuità. Può esservi continuità soltanto se si continua a usare il messale tridentino. Mentre non si riesce a comprendere come dovrebbe essere concepita una “riforma” che non ricada in questa “tragica rottura”. In realtà, la storia, se osservata con una sguardo meno pregiudicato dalla paura e dalla insicurezza, dice proprio un’altra cosa. Ossia che, come Pio V ha fatto nel 1570, e dopo di lui altri papi in modo meno sistematico, Paolo VI, sia pure con altri mezzi e con altre competenze a disposizione, ha fatto nel 1969. Il rito romano trova continuità mediante la riforma, non accanto e nonostante essa. L’immagine utilizzata (“si fece a pezzi l’antico edificio e se ne costruì un altro”) dice bene questo modo pregiudiziale e ingiusto di considerare la storia concreta della Riforma.
Si deve aggiungere, di conseguenza, che questa ricostruzione congetturale della storia degli ultimi 50 anni approda ad un giudizio che capovolge la causa e l’effetto: a causa della Riforma postconciliare si è entrati nella crisi della liturgia. Non si dice una sola parola sul fatto che la crisi della liturgia preesisteva da almeno un secolo rispetto al Concilio. Anzi si pretende – qualche pagina prima – di dimostrare che anche nel rito preconciliare la “partecipazione attiva” era una realtà pienamente in atto.
Di qui, da questo animo turbato per una rappresentazione drammatica e tragica della identità compromessa dalla Riforma Liturgica, scaturisce l’intento di una “riconciliazione liturgica” e di un “nuovo movimento liturgico” per ritrovare la continuità perduta. E’ evidente che, all’interno di una tale ipotetica ricostruzione, sarebbe possibile una riconciliazione e una continuità soltanto “ripristinando la vigenza del rito preconciliare”. Ciò costitisce una chiara premessa a ciò che, 30 anni dopo, si è tentato di fare attraverso il Motu Proprio Summorum Pontificum. Ma il “sistema” che ne è sorto – astrattamente – genera soltanto confusione e incertezza, insicurezza e dubbio. Non riconcilia, ma esaspera le differenze e i conflitti, mette in luce i risentimenti e i pregiudizi. Crea, di fatto, identità parallele irriconciliate e tuttavia pericolosamente ufficializzate.
Dietro a tutto ciò, tuttavia, si profila un’ombra. Il testo non lascia intendere che cosa l’autore pensi della “necessità” della Riforma liturgica. Ed è anche evidente che il testo autobiografico, pur arrivando indirettamente alla medesima conseguenza del “Motu Proprio”, è molto più esplicito e pesante nel giudizio negativo circa la Riforma Liturgica. La persuasione di un possibile “regime parallelo” tra rito vecchio e rito nuovo può essere sostenuta – al di là delle questioni pratiche che ne derivano irrimediabilmente – solo se si è convinti che la Riforma non sia stato un “atto necessario” successivo al Concilio Vaticano II. Nonostante le rassicurazione che il Motu Propri (e la lettera che lo accompagna) si affrettano a precisare, rimane molto chiaro la presa di distanza obiettiva che tale documento rappresenta circa la “necessità” della Riforma Liturgica. Su questo, io credo, dovrebbe essere puntata oggi l’attenzione. Se quando riformo un rito, lascio che il rito precedente continui tranquillamente la sua corsa, posso affermare di essere veramente convinto della necessità della Riforma? La “pedagogia rituale” può considerarsi riconosciuta? La questione, 35 anni dopo, resta aperta. E non è per nulla una questione semplicemente autobiografica…

 (per leggere il seguito… http://mondodomani.org/reportata/grillo03.htm)

Share