Il fatto e la tradizione: spunto sistematico intorno alla questione del ministero ordinato femminile
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E’ del tutto comprensibile che la dottrina cristiana, per fondare adeguatamente se stessa, sia grandemente interessata a “fissare” alcune parole e alcune azioni del Signore come definitivamente normative. Ma tanto le parole quanto le azioni non sono mai autoevidenti. Richiedono una interpretazione, che è iniziata già con la prima comunità cristiana. I primi cristiani hanno dovuto interpretare la vita e le parole del Signore attraverso una obbedienza creativa. E lo hanno fatto con libertà, come attestano i 4 vangeli canonici, tra loro molto diversi e talora difficilmente conciliabili. E’ ovvio che la soluzione ideale (o la pretesa ingenua) del magistero sarebbe quella di trovare una “parola pura” o un “fatto puro” che vincoli tutta la tradizione, nei secoli dei secoli. Ma anche sulle parole più solenni del Signore il margine di interpretazione è sempre rimasto ampio. Un esempio illuminante è costituito dalle parole sul pane e sul calice durante l’ultima cena. La domanda che nei secoli è sorta è stata: valgono per tutti o solo per alcuni? La risposta non è stata facile: “prendete e mangiate”, “prendete e bevete” non si lasciano aggirare facilmente. Ma è stato sufficiente concentrare la attenzione sulla “consacrazione”, degradare la comunione a “uso del sacramento”, per trovare la soluzione che appariva migliore o forse solo più comoda: le parole sono vincolanti solo per colui che presiede la celebrazione. Tutti gli altri possono o non accedere del tutto alla comunione, o comunicarsi sempre “sotto una sola specie”.
Ricordo questo esempio perché riguarda “parole esplicite del Signore”, che la tradizione ha interpretato in modo forte, con autorità, senza negare a sé la facoltà di farlo.
Se Gesù non parla, ma agisce, come nel caso della chiamata dei Dodici, e lo fa rivolgendosi a 12 maschi, questa azione ha certamente valore normativo, ma solo grazie ad una interpretazione dell’azione stessa, che risente della cultura con cui è pensata e di chi l’ha formulata. Qui credo sia utile uscire dalle astrazioni con cui la chiesa talvolta pensa di poter uscire dal proprio imbarazzo. Il “fatto storico”, che fonda la tradizione del “ministero ordinato”, non può essere risolto semplicemente in una “opzione definitiva per il sesso maschile”. I Dodici, infatti, non solo sono maschi, ma sono circoncisi e sono galilei. Nelle fonti evangeliche il fatto è caratterizzato da tutte queste connotazioni: maschi circoncisi galilei. Che cosa è avvenuto subito, già alla prima generazione cristiana? La Chiesa ha dovuto interpretare questa “normatività”: forse che tutti i ministri della Chiesa dovessero essere maschi circoncisi galilei? Il racconto che riguarda Paolo, secondo Luca e secondo Paolo stesso, chiarisce bene come la terza condizione già per Paolo non valesse (non essendo galileo), mentre valevano le prime due (maschio circonciso). Ma proprio Paolo è apparso, in una complessa discussione con Giacomo e con Pietro, il sostenitore della possibilità che anche la circoncisione non fosse una condizione necessaria né per la fede in Cristo né per l’esercizio del ministero ecclesiale. Ma non è stato ancora Paolo a scrivere che in Cristo “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)? Curiosamente la tradizione ha preferito dare la parola ai testi (pseudo)paolini più misogini, piuttosto che a questa profezia di unità, in cui differenze religiose, di libertà e di sesso non sono condizioni di esclusione, ma di comunione!
Ecco allora una questione sistematica di grande rilevanza: ciò che Gesù ha posto nella attestazione neotestamentaria, come azione di incarico apostolico, è vincolato dalla condizione territoriale, religiosa o sessuale del soggetto incaricato? Lo sviluppo libero con cui le prime generazioni hanno assunto la libertà di scostarsi da quanto attestato come azione di Gesù non può essere considerata una “infedeltà”. Perché dovrebbe essere “definitivamente infedele” una maturazione che è avvenuta molto più tardi, in condizioni storiche complesse, ma che ha manifestato la possibilità, anche per le donne, di esercitare quella “auctoritas” che per molti secoli è stata riservata soltanto ai maschi? Questo “pregiudizio” può essere risolto semplicisticamente nel “fatto ritenuto inequivocabilmente attestato”?
E’ ben possibile che la Chiesa ritenga di vincolare la tradizione ministeriale al sesso maschile: ma se non sa più spiegarlo, come hanno fatto audacemente molte generazioni lungo la storia, usando però sempre gravi pregiudizi culturali e sociali, letture bibliche unilaterali e nozioni antropologiche oggi impresentabili, per giustificare la esclusione femminile dalla autorità, è difficile che possa fondarlo semplicemente su un “fatto”. La soluzione sembra comoda, ma non è efficace: o, meglio, sposta tutta la efficacia o sul passato o sul silenzio o sulla paura. E non si confronta con i “segni dei tempi”. La appartenenza etnica e la appartenenza religiosa, che sono “fatti” posti da Gesù nella scelta dei Dodici, hanno avuto scarsa incidenza sulla tradizione: si è potuto riconoscere di essere fedeli a Gesù ordinando “non galilei” e “non circoncisi”. Perché mai si dovrebbe vincolare la “divina costituzione della Chiesa” alla riserva maschile, se non si sa spiegarla altrimenti che mediante un duplice rimando storico, che pretende di essere oggettivo, ma che oggettivo, come abbiamo visto, non è:
– ciò che ha fatto Gesù avrebbe vincolato le tradizioni successive, ma non sul piano etnico o religioso, bensì solo riguardo al sesso del ministro;
– ciò che la tradizione successiva a Gesù ha ritenuto di fare, in continuità o in discontinuità, lo ha giustificato con argomenti che discriminano pesantemente la donna sul piano della autorità.
Bloccare la ermeneutica della tradizione, vincolando addirittura il mistero della fede alla “esclusione della donna dal ministero sacerdotale” mi sembra un atto di grande debolezza e una attestazione di paura. Esso pretende di asserire la posizione “definitiva” della Chiesa sulla base di “fatti oggettivi”, che sono invece il frutto di una ermeneutica profondamente segnata da una cultura del pregiudizio. Ed è curioso che la tecnica di “chiarimento e di blocco della discussione” sia avvenuta con un escamotage che assomiglia ad un sofisma: affermo che la esclusione della donna dal ministero sacerdotale è un “prodotto storico” definitivamente vincolante, ma chiedo alla teologia di impegnarsi a spiegare questo “mistero”, al quale il magistero non sa dare altra spiegazione che considerarlo, non si sa bene come, appartenente alla “divina costituzione della Chiesa”. Il fatto originario non vincola se non in una ermeneutica teologica sostenibile: il magistero non deve spiegare tutto, guai se lo facesse, ma deve quanto meno indirizzare una mediazione teologica. Invece tutte le ragioni che il magistero recente ha avanzato appaiono fragilissime e tendono ad una forte polarizzazione tra “fatto” e “dogma”. La esclusione della donna sarebbe, allo stesso tempo, un “fatto ovvio”, condiviso da sempre, da tutti e ovunque (ma solo prima del XIX secolo), e un “contenuto vincolante della fede” di sempre. Tanto il primo argomento, quanto il secondo, non sono però conclusivi. Ed è qui, io credo, che la ermeneutica teologica e magisteriale non è autorizzata a considerare chiuso il discorso. Roma ha parlato, ma essendosi espressa soltanto sul piano di “dati positivi” che non sono univoci, e sul piano di asserzioni di una teologia di autorità che non risulta formalmente indiscutibile, la discussione resta aperta oggi più che mai. Non è estendendo a dismisura l’ambito della “dottrina definitiva” che ci si può schermare in aeternum dall’emergere di nuovi segni dei tempi, che non sono l’inizio della fine, ma forse solo un varco attraverso cui lo Spirito può ancora parlare e persuadere. Una integrazione, per quanto graduale, della donna nel ministero ordinato è più fedele alla tradizione rispetto ad una dogmatizzazione positiva e immotivata della sua esclusione.Già Agostino sapeva che “ratio” e “auctoritas” sono due modi di imparare. La seconda viene prima sul piano cronologico, ma solo la seconda afferra la realtà. Aver anticipato per autorità una soluzione che la ragione non sa giustificare crea più problemi di quanto si potesse immaginare 30 anni fa. L’apertura sinodale sul “ministero ordinato del diaconato femminile” potrebbe creare lo spazio perché la autorità ascolti la ragione comune e la ragione teologica sappia diventare veramente autorevole.
Il fatto è però che, anche recentemente (2018), la Santa Sede ha ribadito essere un pronunciamento definitivo, appartenente al deposito della fede. Le sue osservazioni sono interessanti, ma è come parlare di cosa avrebbe fatto la Madonna se non fosse stata concepita senza peccato originale… Non è una critica ma una constatazione
La interpretazione non è infallibile se ragiona male. Spesso si confonde. È il papa a porre atti infallibili, non un prefetto