Il gioco di Francesco. A zona, a uomo, in contropiede, ma senza catenaccio


Wenders

E’ appena iniziato il secondo giorno del triduo. Nella notte tra il 2 e il 3 aprile rivedo “Un uomo di parola”, di Wim Wenders. Non è solo un film, o un documentario, ma è un “èpos” solenne, che sovrappone, con la maestria del grande regista tedesco, volti, suoni, parole, con una eleganza indimenticabile. E’ una inaspettata “Wahre Bewegung”! Le prime ore del giorno del silenzio sono riempite dalla parola forte della fede, ma di una fede aperta, libera, pura, goioisa e giocosa.

Quale migliore occasione per chiedersi: qual è il gioco del papa? Come gioca papa Francesco? E allora ripenso alle parole di Luigi Sartori, uno dei grandi padri della teologia italiana dopo il Concilio Vaticano II, quando, per parlare della teologia del Concilio, aveva detto: eravamo abituati a giocare il catenaccio, a giocare solo in difesa, e il Concilio ci ha fatto giocare all’olandese, all’attacco, e ora dobbiamo imparare.

Mi pare una bella metafora, che si può applicare al papa. Francesco gioca all’olandese: parte all’attacco, gioca a tutto campo, non difende se non facendo il suo gioco. A questo non siamo abituati. Anche se alcuni aspetti dei suoi predecessori hanno imparato questo modulo dal Concilio – Paolo VI nella fine mediazione culturale, Giovanni Paolo II nella generosa apertura interreligiosa, Benedetto XVI nel confronto acuto con aspetti della modernità – ora Francesco lo ha preso come regola: non si gioca di rimessa, non si conta sull’errore dell’avversario, ma si prende l’iniziativa.

Questo significa che “tenere il campo” non è anzitutto una questione di “controllo”, ma di “processo”. Il gioco è “a zona”, ma questo implica, contemporaneamente, un gioco “a uomo” che diventa primato della prossimità, della vicinanza, dello stare abbracciati, del formare carovana.

Il gioco di Francesco appare così una sorta di “calcio capovolto”. Che cosa si fa, nel calcio? Quando hai la palla, ti devi smarcare, e quando la palla è degli altri, li devi marcare. Ti allontani per vincere, e ti avvicini per non perdere. Questa regola, profondamente radicata nel calcio, è stata, per non pochi secoli, anche la regola della Chiesa. Ma la intuizione di Giovanni XXIII, il Vaticano II e oggi Francesco hanno capovolto non solo la piramide, ma la regola del gioco: lo smarcarsi è per cercare l’altro, e l’avvicinarsi è per incontrare, non per bloccare. Certo, resta il contropiede. Francesco gioca sempre in contropiede, ruba il tempo, salta l’ostacolo, fa le finte col corpo. Per questo non è facile capirne il gioco. Le scuole classiche del gioco ecclesiale sono tutte spiazzate. Tutto viene riletto da Francesco analogicamente e per questo risulta de-ideologizzato.

Nel gioco di Francesco ogni registro “digitale” e “formale” subisce una piegatura più o meno accentuata. Il protocollo è sempre relativo, se Dio vuole. Forse il fianco più vulnerabile di questo gioco a tutto campo, pur così efficace, sta proprio su quel livello in cui l’elementare e l’istituzionale si incontrano e si fondono: ossia il rito, che non è protocollo. Proprio l’inizio del triduo pasquale – la messa in coena domini – è stata fin dall’inizio un punto di elaborazione potente, in cui la forma digitale del rito e la analogia della carità si sono incontrate e scontrate positivamente. Se il Vescovo di Roma “apre il Triduo” in un carcere di periferia, lava i piedi a detenute donne musulmane, ottiene una effetto evangelico di una tale potenza, che può sopportare una certa piegatura dell’ordo rituale, fino a ottenerne anche una plausibile riforma. Che è riforma dell’atto, ma non del suo senso. Di altro ordine, e in altro contesto, si può anche arrivare ad una celebrazione dell’inizio del triduo in una “cappella privata” di curia. La analogia della carità e la digitalità del rito sono di nuovo in grande tensione. Il contropiede è assicurato, ma l’atto ecclesiale, tradotto in forma rigorosamente privata, non regge all’impatto, diventa esile, senza visibilità e soprattutto privo del soggetto popolo. Francesco non fa mai catenaccio, e tanto meno lo ha fatto in questo caso. Ma nel gioco in contropiede e a zona il momento di marcare “a uomo” – cosa sempre ammirevole – non riduce mai un rito pasquale di soglia ad occasione per altro. Per questo gli ufficiali di curia possono sempre pensare di farsi “la loro messa” privatim, persino il giovedì santo, ma perdono con questo il senso di ciò che deve accadere, poiché spesso non conoscono altro che il più classico dei catenacci. Invece la piramide, quando l’hai capovolta, non si lascia più girare. E chi gioca a tutto campo, come Francesco, giustamente non rinuncia mai al contropiede, ma non si piega in nessun modo al catenaccio difensivo, perché non avrebbe nulla da difendere di proprio.

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