Il latino e il non verbale: la sfida della e alla Riforma Liturgica


Dopo la intervista rilasciata a “messainlatino”, proprio in seguito alle posizioni espresse da alcuni commentatori, penso sia utile aggiungere queste considerazioni di fondo (ag)

Persino nel nome il blog “messainlatino” evoca l’orizzonte di una identità legandolo ad una lingua. Ad una lingua che ha mediato la cultura, anche la cultura ecclesiale, per molti secoli, in occidente e non solo in occidente. Uno dei passaggi epocali favoriti dalla Riforma Liturgica, quello forse simbolicamente più forte, è stato di aprire una fase storica in cui il cattolicesimo ha assunto il compito, certo gravoso, ma anche meraviglioso, di ascoltare e celebrare, di annunciare e riflettere, facendo uso delle lingue parlate. Questo ha certamente contribuito a mettere in moto fenomeni del tutto incontrollabili. Ogni lingua essendo una cultura, una forma mentis e una “forma di vita”, la assunzione delle numerose lingue parlate nel corpo dell’unica chiesa ha sollevato, in modo più aspro di prima, il problema della unità. Non perché il latino risolvesse tutti i problemi. Ormai da secoli il latino dei francesi, quello dei tedeschi e quello degli italiani non era la stessa lingua. A maggior ragione non lo è oggi. Siccome il latino non è più la lingua della vita di nessuno, il suo uso “ecclesiastico” subisce la pressione fortissima delle lingue parlate, che lo “de-formano” e lo “ri-formano”. Non si vive secondo la grammatica e la sintassi, ma sono le grammatiche e le sintassi che rispecchiano gli “usi” esistenziali, nel mondo e nelle chiese. Un latino “fuori uso” (nelle case, nelle scuole, nelle biblioteche o nei negozi) perde la relazione alla vita e chiede continue integrazioni dalle lingue del tutto vive.

Per questo “messainlatino” è il programma non semplicemente “liturgico”, ma “ecclesiale” di traslocazione della tradizione in un museo. C’è però un vantaggio che oggi il latino guadagna obiettivamente e che ci deve far pensare. Il latino, proprio perché fuori uso comune, e perciò non chiaro, non limpido, o forse oscuro o addirittura, incomprensibile per molti di quelli che lo domandano o lo pretendono, anche con violenza, proiettando sulla “messainlatino” tutta la loro domanda di salvezza,  lascia però il resto della percezione umana molto più attento. Non è un paradosso il fatto che l’orecchio, proprio perché non capisce, diventa (oggi molto più di ieri) attento a tutti i registri non verbali. La domanda di “messainlatino” può essere legittima nella misura in cui è una domanda (mascherata) di “altri registri comunicativi”.

Ecco allora la sfida che oggi la Chiesa cattolica è chiamata, soprattutto grazie ai due passi fondamentali compiuti da papa Francesco. Chiudere la esperienza disastrosa del “parallelismo rituale” (con Traditionis Custodes) e invitare la chiesa, riunificata nella sua “lex orandi”, a riscoprire la forza iniziatica e spirituale dei suoi riti (con Desiderio desideravi), significa riferirsi a liturgie che parlano non solo le “lingue del popolo”, ma che usano “tutti i registri non verbali”. Qui la Riforma Liturgica è sfidata dalla storia recente. Aver pensato che il “rito antico” potesse guarire il “rito nuovo” dai suoi limiti è stato un errore di valutazione assai grave. Ma i limiti del “nuovo rito” restano. Non sul piano dei contenuti e delle forme rituali, ma del modo con cui vengono posti e percepiti.  Il rito, con tutte le sue provvidenziali novità di struttura e di parole, resta una “forma”, che vive molto più di “non parole” che di “parole”. Questo solleva la questione decisiva, che formulo in questi termini. La riforma liturgica è un passaggio “necessario”, ma “non sufficiente”. La necessità dice che non ci sono possibilità di celebrare come se la riforma non ci fosse mai stata. In questo è stato un errore dare questa facoltà, che ha illuso diversi soggetti di potersi ricostruire una Chiesa come se il Concilio Vaticano II non ci fosse mai stato. Ma è errato pensare che la domanda di “messainlatino” non riguardi anche la forma nuova del rito romano. Sapere che la riforma, con tutta la sua necessità, resta “insufficiente” significa capire che si alimenteranno ancora le domande scomposte e confuse di “ritorno al passato”, finché non si darà ai nuovi riti la figura personale ed ecclesiale, individuale e comunitaria, di iniziazioni alla preghiera, come linguaggio primordiale, di iniziazione all’ascolto della parola, che rivela e converte, e di iniziazione all’incontro con ogni altro, per scoprirne e onorarne la infinita dignità. Questo punto diventa oggi decisivo e può accomunare tutti nel lavoro differenziato sull’unico rito vigente, senza risentimento alcuno e con tutta franchezza del caso.

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