Il latino liturgico: uno strumento perfetto per l’autoreferenzialità?


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La questione della traduzione è interna alla questione della tradizione. Che cosa sia il “tramandare” può essere compreso, non soltanto, ma sempre anche – ed in modo particolarmente intenso – nell’atto del “tradurre”. Tradurre è fare esperienza della tradizione, la quale, proprio nell’atto della traduzione, si mette alla prova e insieme si rinnova. Tradurre è “luogo di comunicazione”, messa in comune, esperienza di identità e di differenza. La comunione è resa possibile da questa relazionecomplessa tra tradizione e traduzione.

Ma quando una tradizione si dispone a prendere in mano il proprio destino, e lo fa a ragion veduta, con tutta la cautela e la forza necessaria, perché avverte di non essere “autosufficiente”, allora entrano in campo ragioni, argomentazioni, strutture, che aiutano a “motivare” il mutamento. Bisogna cambiare per restare se stessi. Bisogna “tradursi” per non “tradirsi”.

Che cosa abbia da dire il “testo scritto” – scritturistico e liturgico – della tradizione non può essere, semplicemente, una questione secondaria. Anche se, e dobbiamo ammetterlo con franchezza, il “lavoro teologico dei filologi” non è l’unico ad essere chiamato in gioco a causa della accresciuta coscienza della “peculiarità liturgica all’interno della mediazione della tradizione cristiana”.

Già Y. Congar, nel famoso volume La tradizione e le tradizioni, ricordava che questo valore di mediazione deve essere attribuito alla liturgia “non come arsenale dialettico, ma […] come espressione della Chiesa nell’atto di vivere, nella lode di Dio e nella realizzazione di una comunione santa con lui” (353-354).

La polarizzazione della attenzione sul “contenuto” – ossia su come l’azione di tradurre un testo sia mediazione anzitutto della continuità di un contenutoè già il segno di una particolare “riduzione” della questione tardo moderna, che riguarda il rapporto tra la tradizione e la liturgia. Illudersi che una “traduzione letterale” risolva le questioni della tradizione degli ultimi 200 anni significa, precisamente, ignorare che la “questione della traduzione” può assumere un senso soltanto all’interno della “questione della tradizione” e della “questione liturgica”, come aspetto non secondario, ma primario, di essa. Detto in altri termini, il modo con cui formuliamo la domanda intorno al tradurre già implica, in modo tutt’altro che secondario, un certo modo – più o meno dotato di ampiezza di visione e di respiro – di intendere la Rivelazione e la Fede. Potremmo dire che, in un certo senso, i “criteri di traduzione” implicano e illustrano, in modo pressoché infallibile, la maturazione con cui la Chiesa ha camminato nella sua autocoscienza circa il proprio rapporto con ciò che è identità e ciò che, in questa identità, salvaguarda la differenza!

Oggi occorre tornare a mostrare in che modo la discussione intorno al “tradurre” risulti incastonata nella discussione su che cosa è traditio e sul modo con cui, a questa traditio possiamo assicurare una continuità, accettando che essa passi attraverso necessarie “discontinuità”, anche nel modo di tradurre i testi!

In tal senso vi sono due modi di “percepire” il ruolo delle “nuove lingue” rispetto al latino: esse vanno intese come occasioni per incontrare la grazia nella sua inesauribilità multimediale e “multilinguistica” o invece come minacce del peccato originale di farci perdere il rapporto con una grazia sostanzialmente “monomediale e monolinguistica”. Alcune caratteristiche di queste diverse prospettive possono essere interessanti:

  • la “traduzione” comporta sempre un “rischio”: altrimenti, quando non si vuole rischiare nulla, o non si traduce affatto o si fa una traduzione che non è una traduzione, ma una trasposizione formale, parola per parola, dell’originale latino, che richiede sempre la “conoscenza dell’originale” per essere intesa. La vera traduzione diventa autonoma rispetto all’originale: questa è la sua ragion d’essere e il suo limite.

  • Quanto non si vogliono correre i rischi della traduzione, la “vera traduzione” avviene sempre in “altro luogo” rispetto alla celebrazione: una catechesi e/o una omelia sostituiscono al “testo” una “didascalia” che lo rende intellegibile. Ad es., celebrando bisogna dire “per molti”, ma spiegare (prima o dopo) che significa “per tutti”, come se l’italiano non fosse sufficiente a comunicare adeguatamente la esperienza del mistero pasquale.

  • Mentre con la traduzione si “deve” far appello non solo all’intenzione dell’autore, ma anche alla esperienza dei soggetti destinatari, con la sola “traslitterazione” la garanzia della tradizione prescinde dalla celebrazione dei soggetti e persino dalla loro “esperienza”, che viene percepita come “pericolosa” per il primato di Dio. La tradizione è, letteralmente, “autoreferenziale”, ossia basta a se stessa e può istituire con le “nuove generazioni” un rapporto soltanto “attivo”, senza alcuna attesa verso di esse. In certo modo, lo Spirito santo è congedato dalla tradizione.

 Il latino, come tutte le lingue, può essere luogo di comunicazione con l’altro e luogo di affermazione di sé: il fatto che la “esperienza comune” non utilizzi più la “lingua latina” come forma espressiva ordinaria – non è più “lingua madre” per nessuno, da molti secoli – costituisce un fatto obiettivo che conduce facilmente ad un “uso del latino” come “differenza” della esperienza di Dio rispetto alla esperienza dell’uomo. Ma, a partire dal Concilio Vaticano II, noi possiamo “restare nella tradizione” se camminiamo “alla luce del Vangelo e della esperienza degli uomini” (GS 46): di tale duplice luce il latino è in grado di restituirci solo una parte della realtà. Senza riconoscere nelle “lingue vernacole” non solo uno strumento di espressione/traduzione, ma una “fonte di esperienza e di tradizione”, noi perdiamo sia lo slancio della profezia conciliare sia la esperienza degli uomini contemporanei. Finiamo per credere di poter “custodire la tradizione” senza dover imparare nulla di nuovo. In “latino” avremmo “tutto”: hic manebimus optime E questo indurrebbe la Chiesa a ritenere che la propria “autoreferenzialità” le sia sufficiente!

La teoria contenuta nel testo di “Liturgiam authenticam” asseconda in modo del tutto incontrollabile questa tendenza pericolosa, non solo per la liturgia, ma per l’intera azione della Chiesa. Rendendo il testo liturgico indifferente rispetto alla esperienza (e alla lingua) dei destinatari, lo immunizza dalla tradizione, lo isola dalla storia e lo conduce, proprio per questo, a risultare del tutto irrilevante e inefficace. Anziché servire il testo autorevole, la ossessione per la traduzione letterale lo rende estraneo alla esperienza ecclesiale e lo condanna alla emarginazione. Perché una tradizione “senza soggetti” è solo un museo, non una chiesa. A questo oggi deve essere posto rimedio: in nome della tradizione, che merita il coraggio di vere traduzioni, e non la paura di traduzioni fittizie.   

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