“Il mio primo figlio lo chiamerò Don Mario”. Un ricordo di Don Genta (07/02/1917 – 04/11/2010)
Vorrei riprendere, quasi dieci anni dopo, solo con alcune piccole aggiunte, un testo che scrissi poco dopo la morte di Don Mario. Quanto è stato importante per me e per i miei cari averlo incontrato e frequentato. E quante cose ho imparato da lui, sulla Chiesa e sul mondo, sugli uomini e sugli angeli. Voglio farlo nel giorno anniversario della sua morte, per ravvivarne una presenza che mai si è allontanata, mai si è oscurata, mai si è indebolita. E che è stata, per molti, punto di svolta e bussola di riferimento, e lo resta ancora, intatta e solenne come allora.
“Il mio primo figlio lo chiamerò Don Mario”.Un ricordo di Don Genta (07/02/1917 – 04/11/2010)
Gli esordi ai primi del 900
Don Mario Genta era nato il 7 febbraio del 1917 e si è congedato dalle cose visibili il 4 novembre del 2010. Novantatre anni di vita, di cui più di 80 passati nel cuore della vita ecclesiale. I suoi ricordi dei primi tempi del Seminario erano rimasti vivissimi in lui, con tutto il distacco dalla madre da lui patito nella carne, a soli 11 anni. E poi, lentamente, Mario visse il consolidarsi di una vocazione al servizio ecclesiale, durante gli anni 30, fino alla ordinazione, nel 1940, per mano del Vescovo Scatti. Nato durante la prima guerra mondiale, ordinato alla vigilia della seconda, era poi rimasto, per qualche tempo, in Seminario come Vicerettore subito dopo gli anni della guerra, durante i quali aveva imparato a lottare contro la dittatura, a aiutare i poveri e i prigionieri, a collaborare attivamente con la resistenza partigiana, proteggendo però prima i partigiani dai fascisti e poi i fascisti dai partigiani.
Le origini contadine
Era nato al Polo Nord di Legino (SV), da una famiglia contadina il cui padre, a causa di una alluvione distruttiva che si era portata via casa e campo, aveva dovuto emigrare negli Stati Uniti – “Ah sanavabicciu” era l’espressione che gli era rimasta come imprecazione da quel periodo di duro lavoro all’estero. Secondo queste origini Mario è rimasto, per tutta la vita, uomo del popolo, legato alla sana semplicità della terra e alla schiettezza più elementare delle cose, cui tendeva sempre, sia all’interno che all’esterno della Chiesa.”La fede l’ho imparata da mio padre e da mia madre” diceva. E non aveva mai perso il rapporto con la terra, con i fiori, con gli alberi (su cui saliva, ancora, da novantenne), e la confidenza con alcuni animali (soprattutto con l’asino, con il gallo e le galline) che imitava con gusto teatrale.
Il lavoro degli operai
Si era impegnato, fin da subito, nella “pastorale operaia”, con le ACLI e poi nel porto di Savona. Il contatto, i rapporti e gli scontri con le “masse operaie” non erano facili, per un prete, agli inizi degli anni 50. Tuttavia Mario si era sempre mosso con una miscela efficace di solidarietà, di generosità e di autorevolezza, che incontrava le vite dei singoli e spuntava le armi avverse, vincendo così anche le resistenze più dure. Con questo stile aveva cominciato in alcune fabbriche di Savona, per poi istallarsi nella zona del Porto, dove, a partire dagli anni 50, cominciò a progettare il circolo della Stella Maris, la Chiesa di S. Raffaele e tutto il movimento di operai, marittimi, volontari e preti, di artisti e di teologi, che avrebbe caratterizzato quel luogo, da allora fino ad oggi. Ed è sorprendente che quando il porto di Savona ha cominciato a cambiare strutturalmente, negli ultimi 15 anni, facendosi più lucido, esclusivo, rileccato, passando dal commercio e dalla pesca al diporto e alle crociere di massa, il più acuto nel pensare le nuove sfide, le nuove esigenze, i nuovi servizi necessari, restava ancora lui, nonostante i (o forse grazie ai) suoi 90 e più anni.
Il mare dentro
Fu così che la sua vita, da quegli anni 50, rimase per sempre legata al mare. Per mare aveva raggiunto la prima volta la Stella Maris di Liverpool, con una traversata di Mediterraneo e Atlantico in cui la piccola nave che lo trasportava, dopo essersi imabttuta in una tempesta – durante la quale il comandante era salito in coperta gridando “We are lost” (Siamo perduti) – era giunta infine al porto inglese senza più un solo centimetro di scafo che conservasse la vernice originaria. Era stata completamente sverniciata dagli schiaffi delle onde. Sul mare aveva raggiunto e visitato diversi collaboratori, in Inghilterra, in Svezia, in Finlandia, preti cattolici o pastori luterani, che rimasero amici per molti decenni, ospitati e ospitali, tra Malmoe, Helsinki, Londra e Savona. Fu così che il mare produsse in lui, naturalmente, un franco senso ecumenico e il gusto del dialogo aperto e curioso, che esercitò verso gli altri credenti, ma anche verso i colleghi preti che accoglieva con generosità nella sua casa, a vivere, a cucinare o a insegnare. Il mare aveva inghiottito una nave savonese – la “Tito Campanella” – e i parenti dei marinai rapiti dal mare in Don Mario hanno trovato fino alla fine conforto e dignità. Il mare visitava assiduamente, poco dopo la preghiera del mattino, da maggio a novembre, con lunghe nuotate lungo la costa. Dagli anni 70 aveva saputo restare “in forma” con questa sapiente nuotata del mattino, che concludeva la preghiera e apriva la giornata, insieme a un etto di focaccia di cipolle e un caffè macchiato. Ma poteva capitare di vederlo anche a gennaio o a marzo, in una giornata di sole, avventurarsi la mattina per mare, in costume da bagno, sotto lo sguardo sorpreso di signore fasciate nella pelliccia e di uomini dal colbacco ben calcato sulla testa.
La preghiera e la mensa
La sua giornata, negli ultimi vent’anni, era fatta di questi inizi oranti e salutari, della mensa del “basso clero”, coltivata per decenni come preziosa occasione di scambio tra alcuni preti savonesi, di preghiera delle ore osservata con gusto, di visite agli ammalati in Ospedale, di viaggi a Liverpool, a Helsinki, a Roma, a Padova, di cene a cui invitava amici antichi e nuovi, cucinando lui stesso – per 5 o per 10 o anche per 15 persone – risotti ai funghi, stoccafissi lessi, conigli affogati nel vino, insalate di pomodori, gnocchi o paste al pesto. L’esercizio quasi ascetico della ospitalità conviviale era, per lui, una necessità invincibile e una delle forme più efficaci di annuncio del vangelo e di cura per la comunione.
Le consegne umane e ecclesiali
Ma si deve ricordare una cosa molto importante: ciò che don Mario oggi sentirebbe quasi come un oltraggio sarebbe il panegirico della sua vita. Lui non amava queste cose e noi dobbiamo tenercene ben lontani. Ciò che invece gli stava a cuore era una certa forma di umanità e un certa idea di chiesa. La prima consegna che ha lasciato, a tutti savonesi e alla chiesa di oggi, potremmo ascoltarla da lui in questa particolare formulazione: “Come cristiani, siate almeno uomini e donne. Vivete rapporti diretti e schietti, abbiate care le vostre parole e le vostre relazioni. Coltivate il mangiare insieme, il nuotare all’alba, il passeggiare al tramonto. Tenete strette le parole più preziose e non gettate le perle ai porci.” La seconda consegna è una certa forma di presenza e di vita ecclesiale. Nella chiesa don Mario cercava la parola autorevole, la comunione contagiosa, la preghiera a supporto della umanità. Della chiesa voleva essere testimone credibile e senza privilegi, con il suo carattere spensierato e sorprendente.
La corda del campanile sul Monviso
Era salito, negli anni 50, sulla cima del Monviso e come unico equipaggiamento per sé e per il gruppo di ragazzi che erano con lui aveva portato soltanto la corda del campanile. E molti anni dopo, la notte, tornava a sognare quell’episodio e si svegliava di soprassalto per la paura del precipizio da cui era scampato. Così, con questa audace improvvisazione, ha continuato a vivere fino all’ultimo. Con tutta la passione e la cura necessaria. Con una formidabile fede nella vicenda umana, che diventava per lui, sempre, vangelo credibile e grazia vivibile per tutti. Anche quando è stato sorpreso dal ciclista che lo ha urtato facendolo cadere e procurandogli quella frattura al femore che lo avrebbe condotto, per diverse complicazioni, alla morte 4 mesi dopo, era pur sempre un prete 93enne, al manubrio della sua “vespa”, di ritorno da un viaggetto di 12 Km, per saldare il conto di una cena organizzata la sera prima…
La reazione opposta dei miei figli alla notizia della morte
La caduta dalla bicicletta era stata, mi pare, il primo giorno di luglio. Da quel momento la sua salute non aveva più recuperato. Era entrato in una sequenza di guai sempre più gravi, prima alle ossa, poi ai reni e all’intestino, poi al cuore, fino a morirne. I miei figli, allora di 7 e 5 anni, avevano saputo della caduta causata da un ciclista imprudente, che era scappato. Avevano anche visitato una volta, nel mese di settembre, don Mario sulla sedia a rotelle, quando era al Santuario, in un momento abbastanza buono. Ma avevano capito che il peggio non era da escludere. Così, quando diedi loro la notizia della morte, la sera del 4 novembre, restarono un attimo in silenzio. Poi Giovanni sbottò: “Vado a comprare una spada, cerco il ciclista e lo uccido!”. Margherita, invece, dopo un istante, sussurrò: “Il mio primo figlio lo chiamerò Don Mario”.
L’uno e l’altro testamento
Don Mario ha lasciato due testamenti, brevi, essenziali, rigorosi, asciutti, scritti in un italiano che non c’è più, e che suonano molto più austeri di come lo si incontrava per lo più, ma rivelano da dove veniva e verso dove teneva orientata la barra del timone. Il primo è del 21 giugno del 1954, il secondo del 24 ottobre 2008. Nel primo scriveva: “Nella casa in cui mi trovo, presso la Chiesa di San Raffaele Arcangelo, non ho che poche e povere cose di mia proprietà. Un materasso di lana, qualche paio di lenzuola, un po’ di vestiti personali, e un po’ di libri. I libri è bene che restino legati alla Chiesa e serviranno a colui che mi sostituirà…Desidero essere sepolto nel cimitero comune e essere messo sotto terra. Il Signore abbia pietà di me. La Madonna mi assista. Gesù Eucaristia sia il mio viatico.” Il secondo testo si concludeva, 54 anno dopo, con queste parole: “A tutti gli amici del porto, volontari della “Stella Maris”, autorità, marittimi, operai, con i quali ho passato tanti anni di vita in stretta comunione di lavoro, un saluto carissimo. Buon lavoro, grazie. Sarò sempre con voi”.
Questo è stato il suo stile e lo è stato fino alla fine. Questo, a Savona, i cristiani non potranno mai dimenticarlo. Sarà sempre scritto a lettere d’oro nei loro pasti e nei loro viaggi, nei loro salmi e nei loro tuffi, nei loro scherzi e nei loro studi, nei loro incontri e nei loro addii. Per questo Don Mario resta per tutti, nella fede e nella speranza, “sia che viviamo sia che moriamo”, una continua parola di conforto, un’ inesauribile riserva di energia, un’affidabile presenza senza fine.
Gent.mo dot. Grillo,
un caro ricordo nella preghiera per questo santo sacerdote.
Quanto al resto, non demorderò finché lei stesso non avrà dato una risposta chiara nel merito di questi interrogativi che rispettosamente le rivolgo:
quale credibilità può avere una Segreteria di Stato ormai travolta da gravi scandali finanziari e morali?
Quale plausibilità una struttura gerarchica sottomessa alla più indecente piaggeria e servilismo diplomatico?
Quale affidabilità una “Santa Sede” che vede il proprio Capo di Stato esporsi per proclamare “urbi et orbi”, con un’intervista proveniente da cassetti sperduti, la necessità di tutele legali alle unioni di fatto, salvo poi non procedere minimamente in tal senso all’interno della “Sacra Città del Vaticano”?
Perché vede, alla fine, sono sempre questi i realia che il semplice fedele pone, come domande concrete, al teologo. Il quale, se teologo è e se si occupa di “humana et caelestia” come ebbe più volte a sottolineare, deve dare una risposta. Grazie.
A domande cortesi rispondo, più tardi, con cortesia. Se ci sono insulti, cancello. Questa è la regola di sempre. A più tardi
Caro Matteo,
le sue domande sono solo lamentazioni vuote. In primo luogo lei ritiene la Segreteria di Stato luogo di corruzione. Ma i casi di corruzione o di distrazione di danari o di macchinazioni poco chiare sono attribuite a singoli soggetti che, per quanto potenti, sono stati allontanati. La forza di una istituzione sta non nel non avere casi problematici, ma nel gestirli con decisione. Il che, mi pare, è accaduto. Se mai le obiezioni dovrebbero riguardare la forma e le argomentazioni del documento, che, come ho scritto ieri, ha le sue ragioni, le sue debolezze e le sue forse volute insignificanze. Se poi il fine della sua contestazione è ancora una volta papa Francesco, che lei vedrebbe contraddittorio nel parlare di cose che riguardano gli altri stati e non il suo, questo argomento è particolarmente debole. La novità sta proprio nel fatto che il papa possa serenamente parlare di una necessaria tutela anche quelle forme di vita su cui ha motivi di perplessità anche grave. Questa me pare una virtù, non un vizio. Che riprende la sapienza più dei medievali che dei moderni.
Grazie per la risposta. Per me è un’arrampica sugli specchi. Che le mie siano lamentazioni vuote, per carità, ci può anche stare, dal suo punto di vista.
Che non si veda l’enormità dell’elefante nella cristalleria è qualcosa di cui non riesco ancora a darmi una spiegazione.
Comunque, contento lei, contenti tutti.