Il mistero della “lex orandi”: in dialogo con A. Scola


Dopo aver letto l’interessante Prolusione di A. Scola su “Il Regno” 19/2007, ho scritto al Direttore del Regno, Lorenzo Prezzi, questa breve lettera

Caro Direttore,

Il Regno sta contribuendo non poco al dibattito italiano sul recente Motu proprio “Summorum Pontificum” (=SP). La pubblicazione del testo di S.E. A. Scola (cit.) merita perciò attenta considerazione. Ne apprezzo molto il tono e il taglio. Rinviando ad altro luogo per un esame più articolato (cfr. www.statusecclesiae.net) vorrei qui mettere in luce solo le principali questioni che rimangono aperte.
L’orizzonte in cui A. Scola colloca la questione del rapporto tra lex orandi/lex credendi è quello caratterizzato da due distinzioni interne all’azione rituale: da un lato quella tra istituzione e forma liturgica, dall’altro quello tra parte immutabile e parte suscettibile di cambiamento. Queste differenze vengono utilizzate come criterio per valutare la lex orandi. Tuttavia, sebbene il rito sia una realtà complessa, la lex orandi non può godere di una sorta di “extraterritorialità” rispetto alla concreta forma celebrativa; in tal caso essa guadagnerebbe in chiarezza, ma perderebbe ogni rilevanza: soltanto la lex credendi – in certo senso immunizzata da “ogni” azione – sarebbe la garanzia dell’azione liturgica! Inoltre bisogna riconoscere che la distinzione tra parte mutabile/immutabile, autorevolmente assunta dal Concilio Vaticano II, intendeva dischiudere soltanto lo spazio di una concreta e autorevole “mutazione della forma” (come riforma), e non aveva in alcun modo l’intento di assicurare la irreformabilità di un cosiddetto “uso antico”.
Ne risulta che le idee di “istituzione/forma liturgica” e “parte immutabile/mutabile” non sono dello stesso ordine del concetto di “lex credendi/lex orandi”. Quelle classiche nozioni sono state elaborate per giustificare la possibile mutabilità rispetto a quanto è immutabile: ieri giustificavano la “riformabilità” della forma liturgica, oggi possono illudere sulla coesistenza contemporanea di forme storicamente divenute, mentre la coppia lex orandi/lex credendi indica la dipendenza della verità creduta dalla verità celebrata, e proprio in ciò apre ad una logica “altra”.
In effetti, se noi giudichiamo le “varietates legitimae” non più solo sul piano diacronico (ossia tra tempi e ordines diversi), o soltanto su quello sincronico (ossia nella stessa unità di tempo e di ordo), bensì in una ardita sovrapposizione di diacronico/sincronico, determiniamo un certo capovolgimento delle intenzioni con cui tali distinzioni sono state formulate e applicate – 50 o 500 anni fa. Di fatto, quando Scola dice che una pluralità di forme (o di usi) dello stesso rito non altera la “lex orandi”, conclude bene, ma da premesse troppo limitate.
Non vi è dubbio, infatti, che è stata proprio la Riforma liturgica a liberare energie positive nel calibrare sempre diverse modalità di “variazione” nelle forme rituali. Ad es., introducendo la possibilità che la “forma latina” della consacrazione eucaristica potesse risuonare, ufficialmente, in tante traduzioni quante sono le lingue parlate dagli uomini e dalle Chiese. La stessa logica ha portato a poter celebrare – ad es. in Italia, dal 2004 – il sacramento del matrimonio con tre formule diverse del “consenso” e con quattro varietà di “benedizione degli sposi”. Ancora, nella eucaristia, il passaggio da una sola preghiera eucaristica alle 11 attuali costituisce una modalità di “variazione” legittima della forma, che arricchisce potentemente la “lex orandi”, e così rilancia sulla “lex credendi” una nuova sorprendente ricchezza.
Se poi usciamo da questa articolazione sincronica all’interno del medesimo “Ordo” e proviamo a considerare la varietà diacronica che si manifesta tra diversi “ordines” della medesima tradizione, allora vediamo bene come le caratteristiche dell’Ordo del 1969, rispetto quelle del 1575 (o 1962), presentino profonde differenze, comprensibili soltanto mediante quella “evoluzione dei riti” – guidata dallo Spirito Santo – che assicura alla Chiesa la tradizione nel rinnovamento e il rinnovamento della tradizione.
Questa pluralità – limitata alla sincronia dentro il medesimo Ordo e alla diacronia tra Ordines diversi in tempi diversi – permette un’armonica crescita della coerenza tra lex orandi e lex credendi, senza differenze laceranti, ma neppure senza omologazioni prive di radici. Viceversa, la logica “nuova” introdotta dal SP – e che perciò non può non destare qualche legittima preoccupazione – prevede un intreccio e una sovrapposizione tra varietà sincroniche e varietà diacroniche, proponendo sincronicamente varianti tra ordines diacronicamente diversi!
Orbene, quando entra in vigore un nuovo rituale complessivo per la eucaristia o per il battesimo, per la penitenza o per il matrimonio, le varianti vigenti sono quelle rese possibili dal nuovo ordo, non quelle che il nuovo ordo ha storicamente e canonicamente inteso sostituire, emendare, riformare, per ricondurre la Chiesa alla tradizione. Che senso avrebbe una riforma che non riformasse nulla, ossia che rendesse sempre possibile fare come se nulla fosse stato? Infatti, se stabilissimo che sono “legittime” tutte quelle varietates sincronicamente e diacronicamente “esistenti come vigenti” – indifferentemente ieri o oggi – rischieremmo di trasformare la chiesa in un museo o in un ipermercato rituale, che riciclerebbe come “prodotti disponibili” anche i monumenti della tradizione, rinunciando così alla propria identità storica e vitale.
Per chiarire meglio tale questione, si può ricordare che lo stesso Concilio Vaticano II ha stabilito come la “forma rituale” dell’eucaristia debba essere riformata secondo caratteristiche che prevedano – tra l’altro – “maggiore ricchezza biblica”, “comunione sotto le due specie” e “concelebrazione”. Nessuno di questi elementi costituisce né “istituzione” né “parte immutabile” del sacramento e tuttavia deve essere valorizzato precisamente per il fatto che viene considerato come elemento della “lex orandi” in grado di arricchire e strutturare, nutrire e formare la “lex credendi”. Ciò costituisce un elemento di obiettiva differenziazione tra “ordines diacronicamente diversi” per i quali sembra contraddittorio stabilire una possibile contemporaneità, in cui ricchezza e povertà biblica, possibilità e divieto di concelebrazione o di communio sub utraque possano semplicemente convivere. In questo caso il diverso uso comporta inevitabilmente una diversa lex orandi, purché si accetti di interpretare il termine non con le categorie della classica teologia dogmatico-sacramentaria, ma secondo la nuova “mens” liturgica.
Questo esempio illustra bene la diversa logica dell’adagio “lex orandi/lex credendi” rispetto alla distinzione classica tra istituzione e forma liturgica. Ciò che nel passato serviva a individuare il “minimo necessario” di ogni sacramento, nel nuovo linguaggio cerca di additare il “massimo gratuito” di ogni celebrazione, mentre nella rilettura offerta da SP la lex orandi – schiacciata com’è tra “evidenze di fede” e “usi liturgici” – rischia di ridursi ad un semplice “flatus vocis”.

Andrea Grillo

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