Il Natale: tra religione civile e profezia di pace


 

crocestella

Senza considerare l’uso strumentale del Natale, che i politici senza argomenti di volta in volta cercano di cavalcare come occasione di consenso, e su ciò non vale neppure la pena soffermarsi, mi sembra utile considerare con attenzione le ragioni “di buon senso” che R. Balduzzi ha proposto come argomentazione fondamentale in favore della conservazione dei simboli religiosi nella città postmoderna. Mi pare sia il caso di discutere a fondo questa posizione che, nella sua ragionevolezza e plausibilità, tende a “ridimensionare” il Natale e la sua profezia di pace, in una lettura che rischia di restare a metà strada tra la mediazione politica e la insignificanza religiosa. All’articolo comparso oggi su “Avvenire”, che ripropongo, rispondo brevemente di seguito.

Laicità e dintorni. Ma chi ha davvero paura del presepe?

di Renato Balduzzi

in “Avvenire” del 3 dicembre 2015

Ritorna di tanto in tanto, la discussione sull’esposizione di simboli religiosi cristiani in luoghi pubblici (scuole in particolare) e sulla pratica, all’interno di tali luoghi, di tradizioni religiose o di ispirazione religiosa. La resistenza, talvolta espressa in modi e forme per così dire singolari (si veda la recente polemica, o polemichetta, sulle feste scolastiche in vista del Natale e sui relativi canti popolari), a tali simboli e a tali tradizioni viene per lo più ricondotta al principio costituzionale di laicità dello Stato. Sul punto, è sempre utile ricordare la cosiddetta sentenza Casavola n. 203 del 1989 della Corte costituzionale (più volte richiamata, anche in epoche recenti), che affermò con chiarezza sia che il principio di laicità ‘implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione’, sia che il valore della cultura religiosa e i princìpi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano ‘concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato-comunità, che si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini’. Qualche cosa di simile ebbe a sostenere, in un intervento degli ultimi anni, il cardinal Martini quando, premesso che per lui ‘la cosa più importante è avere il Crocifisso nel cuore’, invitava a ‘tenere conto delle tradizioni’, sottolineando che ‘chi viene dal di fuori deve imparare a rispettare tutto ciò’, e concludeva valutando incongrua e inopportuna la rimozione del medesimo dai luoghi pubblici. In ottica non troppo dissimile, la Corte europea dei diritti dell’uomo chiuse nel 2011 una nota controversia sul medesimo tema constatando l’inidoneità del crocifisso appeso al muro a ledere le sensibilità delle persone ed escludendo di poterlo considerare un momento di indottrinamento da parte dello Stato. Varrebbe la pena che tutti tenessero presenti, sempre, questi precedenti e queste argomentazioni. Davvero inverosimile è oggi vedere nel crocifisso o nel Natale una minaccia o un’arma contro chi professa altre religioni o ha determinate convinzioni etico-filosofiche, e non piuttosto il segno umile, povero e disarmato della nostra più profonda umanità: l’invito a cercare sempre pace e giustizia, in spirito di dialogo e di mitezza. Ad essere più buoni, cioè più umani. Davvero, non c’è da avere paura del Natale.

Perché il Natale, senza fare paura, deve ancora “inquietare”?

Se il Natale non deve far paura, ma infondere pace, concordia, rispetto, accoglienza, umanità, questo è dovuto non alla sua qualità “civile”, ma al suo significato religioso, come anticipazione drammatica della fede pasquale. Il Natale annuncia la pace e la accoglienza “sub contraria specie”, parlandoci di un disegno assassino, di un rifiuto, di un mancato riconoscimento. Senza questa interpretazione forte, i simboli del natale e della Pasqua, diventano “segni civili di appartenenza”, soprammobili, orecchini, disegni sulle T-Shirt o sui diari scolastici. Questo è un fenomeno inevitabile e le argomentazioni di una Corte Costituzionale, che salvaguarda la possibilità di farne anche uso pubblico, non ne salvaguarda affatto il significato. Uso e significato non coincidono, in questo caso. Su questo, io credo, dovremmo riflettere in modo non solo diplomatico – come giustamente fa Balduzzi – ma anche in modo sostanziale, anche se mai fondamentalistico.

Il senso del Presepe e della Croce non è semplicemente quello di un “valore umano”, ma di un “mistero divino”. Per questo resta “inquietante”, perché mette a nudo la fragilità di tutti i valori umani e la loro strutturale contraddittorietà. Ora, è evidente che la comunità civile non può, immediatamente, riconoscere la pienezza del messaggio che il simbolo propone. Ma la comunità cristiana deve anche sapere che non si può fare il presepe e non volere che bambini stranieri si iscrivano a scuola, come fanno anche potenti catene di scuole private cattoliche. Non si può come parroco fare il presepe e poi dichiarare di non voler ospitare profughi. Non si può difendere il presepe come politici e poi lavorare per ostacolare ogni presenza straniera sul territorio.

Il presepe, come la croce, non è semplicemente un segno della fragile umanità, ma anche segno della profezia con cui Dio riscatta il povero, l’emarginato, lo straniero, l’orfano, la vedova, lo zoppo, il cieco e si prende cura anzitutto di essi, mettendoli al primo posto!

Non si pretende che questo sia chiaro a taluni uomini politici, che anzi non ne vogliono sentir parlare. Ma deve essere chiaro alle comunità ecclesiali, che annunciano, nelle forme pluralistiche moderne, il Vangelo della pace, della misericordia e della riconciliazione. Che non è mai semplicemente una evidenza civile. In questa differenza sta o cade la giustificazione del “fare presepi”, non per tacere, ma per parlare con efficacia, per discernere con lungimiranza, per agire con profezia.

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