Il papa oggi ha firmato: che cosa? Dati certi, congetture e confutazioni


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Dove eravamo rimasti? Intorno ad uno dei pochi dati certi circa la nuova Esortazione Apostolica – ossia la data del 19 marzo 2016, annunciata per la apposizione della firma da parte di papa Francesco – abbiamo letto una serie di parole, interviste, indiscrezioni, bilanci che sembrano lasciare intendere la conoscenza di un testo quasi come se fosse “privo di presupposti”. Proviamo a mettere ordine e a chiarire, per quanto possibile.

Le poche certezze: pagine e paragrafi

Da qualche settimana sappiamo della futura Esortazione soltanto tre cose. Che è stata firmata oggi, che è lunga quasi 200 pagine e che contiene 323 paragrafi. Dunque è lunga. E contiene ben 237 in più di Familiaris Consortio, che aveva soltanto 86 paragrafi.

Le illazioni: tutto cambia e nulla cambia

Accanto a questi “dati” oggettivi, che facilmente saranno confermati, abbiamo ascoltato autorevoli pareri di personalità, che certamente già conoscono il testo e che, tuttavia, sembrano dedurne contenuti assai diversi e conclusioni quasi antitetiche. Questo dipende, in non piccola parte, anche dal modo con cui le “mezze parole” vengono riportate dai media in modo troppo interessato: una novità diventa subito una rivoluzione, mentre il mantenimento di alcune logiche classiche diventa la negazione di ogni cambiamento. Credo che sia ragionevole pensare che se il testo avrà qualcosa come duecento paragrafi in più di FC, non sarà soltanto per confermarne ogni disciplina. E’ un principio di economia a suggerire che gli uomini – anche quando siano chierici – non scriverebbero mai non dico duecento, ma nemmeno 50 paragrafi soltanto per restare dove erano.

Le premesse: il cammino sinodale

D’altra parte mi pare importante ricordare una seconda cosa, spesso dimenticata: quando quasi 5 mesi fa abbiamo letto la Relatio Sinodi, abbiamo sentito soltanto da alcuni cardinali avanzare la ipotesi che “tutto fosse come prima”. La pressoché totalità dei commenti, sia pure con toni diversi, aveva notato la vistosa assenza, nella Relatio, di una esplicita esclusione dei divorziati risposati dalla comunione non solo ecclesiale, ma anche sacramentale. Sia pure in un documento pieno di compromessi e di “deleghe” – tutte rilasciate a Francesco – questo dato emergeva con grande chiarezza e veniva riconosciuto in modo trasversale. Ora apparirebbe piuttosto paradossale che nella Esortazione non apparisse traccia alcuna di una puntuale traduzione pastorale di questo nuovo orizzonte di possibile discernimento e integrazione.

La questione vera: perché 20 anni di una Chiesa “senza potere”?

Sullo sfondo di queste “resistenze” – che appaiono chiarissime anche in alcune illazioni circolate ieri e oggi – si presenta tuttavia un elemento che merita una analisi più attenta. E che vorrei analizzare traendolo da un contesto diverso e minore, ma affine quanto ad argomentazione. Nella recente polemica sulla “lavanda dei piedi” riformata da Francesco abbiamo ascoltato infatti, tra le ragioni dei “resistenti”, questa spiegazione: le donne non possono partecipare alla lavanda dei piedi, perché la Chiesa non ha potere di cambiare quanto stabilito dal suo Signore. Quando ho ascoltato questo ragionamento mi sono detto: questo è certo un “luogo comune” della tradizione cristiana e cattolica. Ma negli ultimi 20 anni lo abbiamo usato sempre in situazioni-chiave: per escludere la ordinazione delle donne (Ordinatio sacerdotalis, 1994), per escludere ogni rilevanza della cultura nel tradurre testi liturgici (Liturgiam Authenticam, 2001), per escludere ministri diversi dal presbitero/vescovo nella unzione dei malati (Nota della Congregazione per la Dottrina della fede, 2005), per escludere la obbligatorietà della riforma liturgica per tutti i battezzati (Summorum Pontificum, 2007). In tutti questi casi si è usato questo argomento: la Chiesa non ha il potere di modificare quanto il Signore ha stabilito. In questo modo, attraverso un “ammissione di mancanza di potere”, si è mantenuto tutto il potere che la Chiesa si era precedentemente riconosciuto. In altri termini, dicendo, “non posso fare altrimenti”, si può continuare a restare allo “status quo”, si può rimanere “autoreferenziali”. In apparenza è una argomentazione che “umilia”, ma nei fatti produce non poca “esaltazione”.

Ora, questo modo di argomentare è tornato in questi giorni, come tante volte avevamo sentito durante il dibattito Sinodale: non possiamo fare altro – di è detto – che ripetere quanto già fatto. Solo in ciò che già facciamo – giuridicamente e pastoralmente – siamo fedeli. Ogni cambiamento minerebbe la fedeltà.

Le prospettive di sviluppo: l’idea di una “pluralità dei fori”

In realtà i lavori sinodali sono stati, precisamente, la forma complessa con cui papa Francesco ha voluto “dare ascolto allo Spirito”. Ma questo percorso non è nato “per sport”, “per passatempo” o “per convenzione”, ma è stato pensato come risposta di fronte alla urgenza della inadeguatezza di una disciplina matrimoniale che appare non più alla altezza del proprio compito. E questo vale sia per il diritto canonico, sia per la pastorale. Su entrambi i fronti occorre un percorso di precisazione, di adeguamento, di ripensamento, profondo e comunitario, che è iniziato con questo duplice Sinodo. In particolare a me sembra che il cuore debba essere trovato in una nuova e necessaria calibratura tra giustizia e misericordia. Essa richiede di agire, contemporaneamente, sul piano pastorale e sul piano giuridico. Una buona idea, a questo proposito, può venire dalla intuizione di uno storico di classe come Paolo Prodi, che alcuni anni fa, in un suo bel libro – Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e dirittoleggeva la storia della giustizia attraversata da una tensione “tra diversi fori”, che poi nella tarda modernità si è tradotta nella dinamica tra coscienza e diritto.

La firma che oggi papa Francesco ha apposto sta in calce ad un documento che introduce una “pluralità di fori” nella esperienza della vita matrimoniale e familiare. Li introduce solo ufficialmente, perché in realtà già esistono, da almeno 150 anni. Ma la Chiesa non sapeva riconoscerli, e dopo averli scomunicati, ha continuato a illudersi di tenerli “fuori”, magari ingenuamente, rimettendo le balaustre in Chiesa. Qui occorre cambiare profondamente stile e atteggiamento. Si tratta non solo di riconoscere queste esperienze, ma di farle entrare nel dialogo ecclesiale e di integrarle nella Chiesa stessa, come una nuova ricchezza.

Il Sinodo ha dimostrato alla Chiesa di avere il potere di accompagnare, discernere, integrare

Questa svolta, importante, potrà avvenire in due modi. Da un lato ci accorgeremo che il matrimonio non vive di solo diritto canonico, ma anche di diritto civile, di convivenza reale, di ascolto, di virtù, di tempi e di spazi. E dall’altro scopriremo di non poter delegare le soluzionidella pastorale matrimoniale soltanto ai tribunali. Come se questa fosse la sola garanzia del sacramento, del nostro “non avere potere”! Lo spazio che apparirà – quando scopriremo tutte le righe scritte sopra la firma di oggi – ci farà capire che, anche quando la dottrina non cambia, un mutamento anche solo iniziale della disciplina, un atto di serio riconoscimento della realtà effettuale, senza cedere alle idealizzazioni sempre troppo aggressive, autorizza la Chiesa ad assumersi la responsabilità di lasciarsi riformare. Non raramente il fatto di affermare che “non si ha potere” si rivela soltanto un modo di alimentare la indifferenza, di far prevalere la paura e di moltiplicare la ipocrisia. Solo riconoscendo apertamente di avere ricevuto lautorità per accompagnare lungo la strada le famiglie ferite, per operare un delicato discernimento della loro esperienza e per favorire la necessaria integrazione ecclesiale e sacramentale,saremoallora fedeli alla tradizione del matrimonio e della famiglia, così comepuò brillare ancor oggi, alla luce del Vangelo e della esperienza umana” (GS 46)

 

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