Il passo avanti di Walter Kasper


Teologicamente parlando, ciò che Kasper propone è un passo avanti. 

Approccio tradizionale e finzione retorica in Juan José Perez Soba 

La recensione critica del testo del Cardinale Walter Kasper, che J. J. Perez Soba ha proposto sul Foglio del 7 marzo 2014, contiene una tesi del tutto classica, che viene tuttavia argomentata mediante l’esercizio virtuosistico di una grande finzione. Il “grande bluff”, che in modo piuttosto ingeneroso e sommario Perez Soba attribuisce a G. Cereti e alla sua ricerca sul divorzio nel mondo antico – ma che, indirettamente, riferisce anche allo stesso Kasper – si rivela gradualmente, ma irrimediabilmente, come l’elemento dominante nel cuore del suo stesso testo.
Prima di proporne una analisi accurata, vorrei però precisare che, contrariamente a quanto fa Perez Soba nei confronti di Kasper, avanzando l’accusa grave e del tutto ingiustificata di “disonestà intellettuale”, da parte mia non ipotizzo affatto che il discorso di Perez Soba sia basato su una intenzione disonesta. Esso invece cade vittima di quello che potremmo chiamare un “eccesso di onestà”. Da un lato, infatti, è del tutto evidente che egli intende restare fedele ad una lettura assolutamente classica della dottrina del matrimonio; ma dall’altro egli lavora con una ardita finzione retorica, per tentare, onestamente, di presentare la indissolubilità – compresa in modo rigidamente classico – come l’unica forma possibile di vera misericordia verso i coniugi.
È ovvio, perciò, che se, con una argomentata esposizione, si tenta di dimostrare che l’unica vera ed evangelica misericordia è garantita soltanto dalla salvaguardia intransigente della disciplina più classica della indissolubilità – che non riconosce né crisi della famiglia, né individualismo moderno, né famiglia mononucleare né crisi della generazione, né trasformazione dell’intimità – ogni altro senso di misericordia viene fatto passare come una patente ingiustizia, da respingere senza esitazione.
Se da parte sua Kasper chiede misericordia per la ingiustizia che si produce in una recezione classica della disciplina della indissolubilità, quando venga applicata in modo rigido alle mutate forme di vita e di cultura attuali, Perez Soba vuole invece dimostrare l’esatto contrario: sarebbe Kasper che, volendo sospendere l’accezione classica di indissolubilità, genererebbe una condizione di grave ingiustizia e di mancanza di misericordia!
Ridotta al suo scheletro, è qui evidente che la forma argomentativa di Perez Soba è retorica, è sofistica, quasi avvocatesca: produce un certa soddisfazione, senza dubbio, ma non perché risolve il problema, ma perché semplicemente cerca di negarlo proprio come problema.
Perciò vorrei cercare di mostrare più nel dettaglio in qual modo, pur con tutta la onestà di cui si è capaci, quando si esaspera il rapporto intrinseco tra misericordia e indissolubilità, si blocca il sistema teologico e pastorale e ci si convince di vivere nel migliore dei mondi (e delle chiese) possibili. Per un eccesso di misericordia, si è dispensati dall’esercitare misericordia. È il sistema dottrinale e disciplinare che garantisce tutto il meglio. Qui sta la fragilità dell’argomento proposto da Perez Soba. E’ una sorta di “argomento ontologico”, applicato al matrimonio, che prescinde totalmente dalla natura e dalla cultura, e propone incautamente un matrimonio ridotto a “sola gratia”, che dispensa dal prendersi cura dei soggetti, naturalmente e culturalmente implicati in esso. E’ un matrimonio massimalista, che può diventare facilmente disumano. Perez Soba si scandalizza per il fatto che Kasper abbia compreso il problema contemporaneo, distraendosi dal concetto classico di vincolo. Io mi stupisco, invece, del fatto che amplificando a dismisura la disciplina del vincolo, Perez Soba riesca a immunizzarsi totalmente da ogni novità proposta dalle questioni teologiche ed esistenziali, che l’ultimo secolo ha sollevato potentemente davanti alla Chiesa.
A suo tempo, la scoperta del nuovo continente americano non ha cambiato la soteriologia, ma le ha dato nuovi linguaggi, nuovi orizzonti e una coscienza più fine. La più recente scoperta del continente “sentimento” e “bene dei coniugi” ha iniziato a cambiare il linguaggio della teologia del matrimonio. Perché è così difficile pensare in questa direzione? È forse necessario venire, teologicamente e antropologicamente, “dalla fine del mondo”? Può forse capire queste cose solo un “americano”?

 A) Misericordia e giustizia: una tensione non riducibile 

Fin dall’inizio Perez Soba, molto onestamente, non nasconde la carta che vuol giocare come proprio “asso”. Non lo tiene nella manica, ma lo cala subito sul tavolo. Cosi vuole farci leggere un Kasper che sembra concordare con lui. Questo è il suo primo artificio da avvocato. Far pronunciare a Kasper stesso quella tesi con cui il suo contestatore pretenderebbe di smontarlo e di confutarlo. È una idea brillante, di sicuro effetto, ma costringe Perez Soba a forzare la fonte e tutto quello che ne segue risulta compromesso da questa forzatura e in linea con essa. Lo schema paradossale del ragionamento appare chiaro fin dalla prima battuta. “Talvolta negare la misericordia è l’unico modo di difenderla dalle sue adulterazioni”. L’unico modo di affermare la misericordia sarebbe quello di …negarla. Lo dice, anzi lo direbbe, lo stesso Kasper! Che però, da parte sua, non si permette mai di definire la condizione dei divorziati risposati come “attentato alla dignità umana”, come fa due righe sotto lo stesso Perez Soba. Con questa logica sofistica e avvocatesca, unita ad un approccio difensivo verso la realtà, Perez Soba rilegge con molta forza alcune espressioni del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, cercando di riportarle sul suo terreno. Ma, ahimé, dimentica che non si possono citare le frasi fuori del loro contesto, senza rischiare di fraintenderle molto gravemente. Vorrei fare solo un esempio: quando egli cita il parallelo tra monotesimo e monogamia, proposto nella enciclica “Deus Caritas est” da papa Benedetto, trascura il fatto, decisivo, che mentre papa Benedetto, con finezza, propone una relazione “iconica” e “analogica”  tra monoteismo e monogamia, Perez Soba ne propone una relazione causale e deduttiva. Se la prima relazione può essere illuminante, la seconda rischia di essere solo opprimente.

 B) Indissolubilità e tradizione ecclesiale: una pretesa esagerata

Tuttavia, quando la tesi prende corpo, il sofisma diventa più evidente e si fa molto più pericoloso. Se infatti si lega la tradizione della misericordia alla comprensione più classica del matrimonio, allora si elimina ogni spazio di manovra per l’esercizio di quella misericordia che non sia identifica immediatamente con una teoria del vincolo, del consenso, della consumazione e degli effetti, tutti concetti che oggi, per l’appunto, sono messi a dura prova dalla realtà. Ma il “sistema” di Perez Soba è rigorosamente blindato. Siccome a priori, per grazia, egli ha desunto che la dottrina si identifica con una disciplina e con un linguaggio immutabili, e siccome la dottrina è annuncio pieno e sufficiente di misericordia, la disciplina, presa così come è, garantisce la misericordia necessaria, assicura tutta la misericordia di cui abbiamo bisogno! Ogni deviazione disciplinare, in un tale sistema blindato, nega subito la dottrina ed è dunque da proscrivere senza discussione e quasi con tono di rimprovero.
La questione, qui, è duplice. Da un lato Perez Soba dipende pesantemente da una visione della dottrina non aggiornata, di cui parlerò tra un attimo; dall’altro presenta una lettura del matrimonio troppo semplice, quasi semplicistica. Nel matrimonio, come sappiamo da molti secoli, la natura e la cultura mediano l’accesso alla grazia, la quale suppone la natura e la cultura, per perfezionarle. Ma tale perfezionamento non avviene con la imposizione, bensì con la misericordia. Così, il discorso che oggettiva in modo troppo diretto, istituzionale, disciplinare, la misericordia, finisce necessariamente, iuxta propria sua principia, con lo smarrire ogni necessità di misericordia. La misericordia, in questa costruzione astratta, essendo totalmente garantita da un Dio ridotto non solo a dottrina, ma a disciplina, e perciò non avendo lacune di sorta, ha il vantaggio di identificarsi letteralmente con la disciplina, ma produce il grave svantaggio di diventare formale e “senza cuore”. Quando perde il pudore del limite e la coscienza della vulnerabilità, per eccesso di pretesa divina, la teologia che si irrigidisce nelle proprie certezze disciplinari rischia di scivolare facilmente nel giustificare un pensiero disumano e una prassi indifferente. E lo dico con il massimo rispetto per le intenzioni di Perez Soba, del quale non metto in dubbio la buona intenzione, contrariamente a quello che lui fa con Kasper. D’altra parte in teologia, la proporzione tra intenzione, percorso e conclusioni è troppo delicata per essere garantita solo da una giusta apertura di credito.

 C) La radicale opposizione tra dottrina e pastorale: l’oblio del Vaticano II

 Come dicevo,  il sofisma costruito abilmente da Perez Soba può funzionare solo nell’orizzonte di una rigida e implacabile distinzione tra dottrina e pastorale. E qui compare, di nuovo, come già nel testo di De Mattei comparso sul Foglio contestualmente alla relazione di Kasper, l’ombra di una radicale resistenza al Concilio Vaticano II. Perez Soba cita alcune volte il Concilio, soprattutto GS, ma dimentica totalmente e irrimediabilmente  l’orizzonte “pastorale” del concilio, che è, appunto, riformulazione del depositum fidei secondo linguaggi nuovi. Questo punto, nella logica di Perez Soba, non solo è, ma deve essere dimenticato, rimosso, cancellato, negato. Kasper lavora precisamente su questo intelligente e coraggioso crinale, che Perez Soba dimostra di non poter accettare teoricamente. Solo così si può capire la durezza dei giudizi con cui egli si rivolge al Cardinale, quasi facendo economia di rispetto e prendendolo metaforicamente per il bavero.
Tra questi giudizi esasperati e risentiti, trapela anche un altro passaggio avvocatesco: dire a Kasper di non essere aggiornato su Familiaris consortio, e di rivendere studi da lui scritti prima, negli anni 70, mi sembra francamente piuttosto curioso, se la critica è mossa da parte di chi non è aggiornato nel modo di pensare il rapporto tra dottrina e disciplina e legge anche il Vaticano II come se avesse di fronte canoni di condanna tridentini. Qui avrei preferito una maggiore cautela nel giudizio e una migliore attenzione al contesto. Altrettanto avrei preferito che il teologo moralista non infarcisse il suo testo di riferimenti a papa Francesco del tutto contraddittori con l’intento che persegue. Perez Soba non nasconde, infatti, di preferire a una chiesa incidentata perché si mette in gioco, una chiesa sicura, che non si sporca le mani…Egli utilizza le affermazioni di papa Francesco in modo squisitamente sofistico. Esemplare è questo passaggio: egli cerca di mettere Kasper contro Francesco, attribuendo a Francesco, una frase giusta, ma con un significato capovolto. È vero che papa Framcesco ha detto che il Sinodo non vuol cambiare nulla della dottrina, ma Francesco, diversamente da Perez Soba, ha detto che il Concilio è un evento irreversibile e dunque sa bene che la differenza tra sostanza e rivestimento, che fonda il Concilio e lo giustifica, non può essere messa in dubbio o dimenticata. Ciò che Kasper propone è una riformulazione della dottrina del vincolo, non la sua negazione. Dispiace vedere usato retoricamente e sofisticamente ciò che, sia sulla bocca del papa che su quella del cardinale, meriterebbe un approccio meno disinvolto e avvocatesco.

 D) Il Sinodo e le questioni dottrinali: un fraintendimento decisivo 

In ultima analisi, considero molto interessante ciò che Perez Soba deduce dalla sua errata interpretazione. Accusando Kasper di disonestà – cosa che, più la leggo, più mi pare davvero difficile da comprendere e da giustificare – egli dice che se la vera intenzione del Cardinale è quella di mutare la dottrina tradizionale, questo dovrebbe essere un compito demandato al confronto tra teologi e pastori e a luoghi di maggiore impegno, non potendo essere svolto da un Sinodo dei Vescovi. La impressione che Perez Soba lavori con fonti troppo unilaterali qui viene potentemente confermata.
I bravi e onesti teologi, che prepararono gli schemi ecclesiologici prima del Concilio Vaticano II, possono oggi trovare, in Perez Soba, una insperata difesa d’ufficio postuma. Se si fosse proceduto con questo criterio, che Perez Soba considera tanto evidente e stringente, e la cui dimenticanza rimprovera duramente a Kasper, che cosa avrebbe potuto fare il Concilio in termini di rinnovamento e aggiornamento? Eppure il Concilio, già 50 anni fa e non tra 50 anni, ha avuto la forza di rifiutare quegli schemi onesti e ben preparati secondo la dottrina “acquisita” e di pensare molto più in grande, facendo propria una determinazione netta, affinché la dottrina, senza essere mutata nella sostanza, fosse profondamente riformulata nel suo rivestimento, nel suo linguaggio, nella sua forma, nella sua disciplina.
Chi potrebbe impedire al Sinodo, assumendo precisamente questa prospettiva pastorale in senso alto – la sola capace di salvaguardare con intelligenza e coraggio la continuità nella differenza – di valorizzare una accezione di misericordia non totalmente assicurata e assorbita dalla disciplina vigente? Che cosa accadrebbe se il Sinodo assumesse un orizzonte diverso da questa strana formula che Perez Soba vorrebbe imporre a noi e allo stesso Sinodo: “extra disciplina nulla misericordia”?  Perché mai il tono del teologo morale diventa proprio qui così aspro e tanto agitato?
Ecco, a me pare che il duplice atteggiamento che onestamente Perez Soba propone, con la sua pretesa di identificare indissolubilità e misericordia, monogamia e monoteismo, finisca per perdere la parte invisibile della misericordia, ossia la profondità e la ricchezza trinitaria della misericordia. Una misericordia troppo monoteistica può sempre rivelarsi violenta, anche nelle mani più oneste. Essa vuole sempre affermare il bene massimo, e però genera condizioni di esperienza e di vita che risultano senza speranza e senza cuore. Il temperamento trinitario del monotesimo è l’orizzonte nel quale il male minore è la soluzione più conveniente, quando il bene massimo genera un male maggiore. La sapienza ecclesiale non può privarsi di questa finezza prudenziale e penitenziale. Generando e spirando, il Padre non è l’assoluto, ma il pieno di relazione, il ricco di misericordia. Kasper, che è consapevole di tutto questo, ha iniziato onestamente e coraggiosamente con un deciso passo in avanti in questa direzione. Perez Soba tenta teologicamente una difesa ad oltranza della immutabilità della disciplina, confondendola però con la immutabilità della dottrina. Pur citando molto il Concilio e Familiaris consortio, egli resta piantato in una chiesa intesa come “societas perfecta“, nella quale misericordia e disciplina possono identificarsi a priori, una chiesa che resta troppo fissata sul monoteismo e poco interessata alle dinamiche e differenziazioni trinitarie.
Nella migliore delle ipotesi, la posizione di Perez Soba è un restare fermi.
Nella peggiore è un pericoloso passo indietro.
Una ermeneutica trinitaria della misericordia non può dare il proprio assenso a questa nuova formulazione, onesta ma sofistica, della vecchia idea di ecclesia come societas perfecta. In una tale chiesa il problema dei divorziati risposati è risolto in radice, perché è negato. In questi casi a me pare che la teologia, quando in tutta onestà tenta di negare i problemi che affliggono centinaia di migliaia di uomini e donne, dicendo che il loro problema è in verità la loro grazia, non assomigli tanto alla offerta di servizio responsabile al Vangelo, quanto piuttosto alla costruzione di un buon alibi per salvaguardare la irresponsabilità della Chiesa.
Una teologia di questo genere, anche quando condotta con le migliori intenzioni, a me pare sempre troppo sicura di sé, e per questo poco edificante, perché non manca di onestà, ma difetta di pudore.  

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