Il presbitero secondo il rito di ordinazione /4 (di Simone Bellato)
Nel suo ultimo intervento Simone Bellato tira le fila dei suoi tre precedenti post, identificando una serie di “tensioni” nel modo di pensare e di vivere il ministero presbiterale. Un bel contributo al dibattito sulla teologia del ministero, anche in prospettiva sinodale: di queste pagine lo ringrazio di cuore (ag)
IL PRESBITERO: In Cristo per edificare il Suo Corpo che è la Chiesa
3/ Una risposta affermativa e tre tensioni di cui farsi carico
di Simone Bellato
Procediamo dal nostro punto di partenza: l’articolo in cui il prof. Grillo (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/la-riduzione-di-sacerdozio-ed-eucaristia-due-vere-questioni-per-la-riforma-della-chiesa/) parlando del legame del presbitero con l’eucaristia, osservava che la riduzione del suo profilo pastorale e liturgico fosse direttamente connessa al ridursi della concezione della realtà eucaristica alla sola consacrazione. Così abbiamo accolto questo stimolo chiedendoci se, almeno dal punto di vista teologico-rituale, questo riduzionismo fosse superato.
Dopo i tre articoli di analisi del rito, la risposta risulta essere affermativa. Il rituale in ogni sua parte, financo nella benedizione finale, tiene a situare la ricchezza dell’agire del presbitero del Nuovo Testamento, nella conformazione alla vita del Cristo storico: maestro, pastore e sacerdote, di cui l’eucaristia è sacramento. Il sacrificio eucaristico, infatti, è la sintesi più compiuta, l’ermeneutica uniformante della vita di Cristo come offerta continua di sé al Padre, a cui il presbitero chiede di essere conformato con l’aiuto dello Spirito Santo.
In definitiva: il rituale mostra chiaramente che il presbitero non è ordinato per conficere eucharistiam ma per diventare ciò che celebra; e non per un qualche esercizio ascetico o chiamata alla santità particolare, ma in quanto via, per la quale ogni cristiano e il presbitero in particolar modo, può edificare il Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Il rituale post-conciliare, muove pertanto da questa prospettiva: il presbitero è ordinato perché, chiamato da Cristo a collaborare con un Vescovo, possa edificare la Chiesa. È questa la causa finale che muove quella iniziale, cioè, la chiamata di Cristo. La novità è nel riconoscimento che questo fine può raggiungersi con vari strumenti mutuati dalla vita di Cristo stesso: annuncio della buona novella, agire sacramentale, preghiera di intercessione per una porzione di popolo di Dio e per l’umanità intera, questo nella continua e sempre più piena offerta a Dio Padre della propria vita, proprio come ha fatto Cristo ogni giorno della sua esistenza terrena.
La via, dunque, per smarcare il presbitero da una identificazione con una visione ristretta dell’eucaristia è la stessa segnata per ogni cristiano: la conformazione a Cristo secondo la propria elezione e il proprio stato di vita. Non può essere un sacramento soltanto a definire la vita di un cristiano, qualunque sia il suo stato, ma la vita stessa di Cristo, Figlio del Padre, alla quale il dono dello Spirito Santo dona la grazia di partecipare secondo modalità particolari e differenti per ogni uomo e donna.
A fronte di queste conclusioni che il rito espone con estrema chiarezza, emergono alcune tensioni che riportiamo di seguito.
1. Prima tensione: elezione e collaborazione.
Nella prima domanda agli eletti il rito chiede al presbitero se vuole cooperare (cooperatores) con i Vescovi per servire il popolo di Dio sotto la guida (duce) dello Spirito Santo. Questo esplicita ciò che nella prassi spesso diventa una tensione. È possibile infatti che lo Spirito Santo guidi il presbitero ad un agire o a prediligere una certa azione pastorale, e il Vescovo desideri la collaborazione del presbitero per qualcos’altro. Nonostante il rito espliciti che il primato nella conduzione (duce) sia dello Spirito, nella prassi è quasi sempre il Vescovo a decidere, anche perché, nel clero secolare è raro che un Vescovo si curi di dove il presbitero si senta guidato dallo Spirito Santo oppure che il presbitero sia cosciente del dono a lui fatto dallo Spirito, o che tale discernimento sia fatto insieme1. I motivi di tale prassi, sono forse da ricercare nella distinzione tra foro interno ed esterno che nel sacerdozio secolare è molto rilevante, ma anche nella errata interpretazione della guida dello Spirito Santo: si tende infatti a pensare che lo Spirito parli primariamente al Vescovo che ha la pienezza del sacerdozio e che dunque lui disponga dei suoi collaboratori secondo il fine che lo Spirito gli suggerisce, ma questo contraddice quanto in tutto il rito è detto: il presbitero riceve da Cristo la chiamata, è guidato dallo Spirito Santo e donato ad un Vescovo come collaboratore. Il primo governo del Vescovo dovrebbe essere quello dei doni dello Spirito Santo (carismi) che il Padre gli affida incarnati nei presbiteri e nei laici affidati alla sua cura.
Da questo viene un’attenzione: essendo lo Spirito a guidare la Chiesa e ad associare collaboratori al Vescovo, quest’ultimo dovrebbe essere ben attento a comprendere il perché lo Spirito ha chiamato quella persona, cioè quale dono specifico (carisma) fa a quella persona, e a questo dovrebbe già fare attenzione durante la formazione in Seminario, in modo da considerare proprio lo sfruttamento di quel dono e di quella specifica chiamata, come il miglior aiuto e la migliore collaborazione all’opera che Dio sta facendo in una Diocesi. Come arrivare a questo e come armonizzarlo con le inevitabili necessità di ogni Diocesi è da discutere, ma il principio dovrebbe essere chiaro: è Dio che chiama qualcuno al presbiterato e lo pone sotto la guida dello Spirito, ed è in virtù di questa chiamata e di questa guida che il neo-ordinato è chiamato a collaborare con il Vescovo, che dunque dovrebbe essere ascoltatore attento della volontà di Dio espressa attraverso l’azione dello Spirito Santo nei presbiteri a lui donati, vigilando che questi seguano lo Spirito. Una tale attenzione potrebbe anche essere garanzia da tante crisi sacerdotali che originano spesso nel non senso della propria azione pastorale.
2. Seconda tensione: presbitero e comunità.
Il rito non sembra contemplare l’idea di un presbitero senza popolo a lui affidato (commisso). Questa motivazione ha probabilmente una base teologica nel fatto che Dio chiama il presbitero ad edificare la Chiesa; pertanto, ogni presbitero dovrebbe avere la sua porzione di popolo da edificare (e con edificare non è inteso solo il battesimo, ma come evidenziato nel terzo articolo la più ampia cura pastorale). Nella benedizione finale si chiede esplicitamente che Dio faccia del presbitero un «vero pastore». Cosa significa? Tutti i presbiteri dovrebbero essere parroci? Tutti i presbiteri dovrebbero avere una comunità di riferimento dove crescere nella paternità pastorale? Questa comunità deve essere fissa? Legata ad un luogo? E i presbiteri dei vari ordini religiosi che cambiano incarico, comunità, spesso Diocesi ogni 4 anni? E quelli che insegnano in università o che lavorano in qualche ufficio di curia e spesso si ritrovano a vivere in appartamenti da soli? Tutti questi stanno vivendo tutta la ricchezza che il rito esprime o sono nelle condizioni di adempiere gli impegni a cui hanno aderito? Sono domande che poniamo senza avere una risposta ma per suscitare un dialogo e problematizzare una questione nuova ed importante di cui si parla poco, il legame tra presbitero e comunità ecclesiale.
3. Terza tensione: doni particolari o carattere?
Il rito, nella preghiera di consacrazione utilizza per chiedere il dono dello Spirito Santo la parola innova, e lo fa ben a ragione. Se avesse utilizzato il vocabolo renova questo avrebbe avuto il senso di rinnovo di un dono già ricevuto (probabilmente nel battesimo e nella cresima), mentre con innova in visceribus sembra proprio riferirsi ad una realtà nuova che il presbitero sta ricevendo. Ma cosa sta ricevendo di preciso il presbitero in aggiunta al dono a lui fatto nel battesimo/cresima? Il rituale si sta riferendo a dei doni dello Spirito Santo che in quel momento gli vengono elargiti, o alla realtà del carattere? Oppure a entrambe? E queste due realtà, il carattere e i doni dello Spirito Santo in che connessione sono? il carattere è infatti una categoria tanto piccola quanto importante nella prassi pastorale, soprattutto nel battesimo dei bambini. Nel sentire comune sembra venire inteso come un “timbro sull’anima”, addirittura riconoscibile a Cristo e ai suoi angeli, e capace di donare al sacerdote uno statuto ontologico ab aeternum (al modo di Melchisedeck). Proprio questo aspetto di differenza dai battezzati a livello “ontologico” può contribuire a quella concezione sacrale, separata, del presbitero dai battezzati, foriera di tanti problemi e tensioni che si riuniscono sotto la categoria del “clericalismo”.
Ecco a noi sembra che una delle strade per curare e guarire questa relazione sia adeguare la categoria del carattere alla teologia post-conciliare attraverso un serio studio storico e teologico che dia la reale dimensione di tale dottrina, e che la metta in relazione con tutto l’apparato teologico dei sacramenti. Sarebbe inoltre da indagare tra le tante cose, la relazione del carattere nei tre gradi dell’ordine: Episcopato, Presbiterato e Diaconato. Per questi viene impresso il medesimo carattere, o tre caratteri diversi? Oppure lo stesso in tre gradi diversi? E diversi in che senso?
Queste tensioni che affidiamo a questo tempo di ascolto sinodale ci aiutano a comprendere l’enormità del lavoro di adeguamento teologico che aspetta la Chiesa per i prossimi anni, se non secoli e che coinvolge ogni cristiano, per una teologia sempre più saldamente legata alla realtà, luogo che il Padre ha scelto per inviare il Figlio ad incarnarsi, ed in cui ha donato il Suo Spirito generando la Chiesa.
1 Un esempio virtuoso a tal proposito è la prassi in uso nella Compagnia di Gesù: proprio per l’attenzione alle mozioni dello Spirito che il metodo ignaziano impone, il candidato nella Compagnia apre la sua coscienza al provinciale svelando dove percepisce che lo Spirito lo stia conducendo e il superiore nel suo discernimento tiene conto di questo aspetto.
Ecco contributi su punti alla base del discernimento
https://gpcentofanti.altervista.org/frequenti-riduttive-precomprensioni/