“il re è nudo”


Il Motu Proprio “Summorum Pontificum” e il bisogno di “dirsi reciprocamente la verità”


Nella bella favola di Ch. Andersen, “I vestiti nuovi dell’Imperatore” la verità può emergere soltanto quando un bambino dichiara ingenuamente: “il re è nudo”. I molti condizionamenti, che nella favola impediscono agli adulti di “non vedere” i vestiti inesistenti del re, sono legati al timore di esporsi, alla paura di apparire sconvenienti e di dimostrarsi non all’altezza del proprio compito. Così Andersen.
Ma che cosa sta facendo, oggi, gran parte della compagine ecclesiale ufficiale, di fronte ad un documento “nudo” di ragioni sostanziali e di fondamenti giuridici, di saggezza pastorale e di praticabilità reale come il MP Summorum Pontificum? Silenzio, complimenti, parole d’occasione e generiche virate al largo. Ogni “parresia” viene bandita quando non esplicitamente censurata. E sembra quasi obbligatorio ripetere acriticamente una serie di affermazioni che appaiono, a chiunque rifletta appena marginalmente, profondamente dissonanti rispetto alla tradizione liturgica e teologica degli ultimi 50 anni. Facciamone qui una breve rassegna:
Non può esservi dubbio che la Riforma Liturgica non volesse essere un dettaglio marginale o un nuovo soprammobile per aggiungere alla storia della Chiesa un particolare non strettamente necessario. Viceversa, chiunque legga i documenti degli ultimi 40 anni, non stenta a percepire le ragioni di urgenza e di strategia che sovrintendono al bisogno di modificare profondamente i riti della Chiesa, per assicurare alla tradizione la possibilità di comunicare ancora. Affermare che la Riforma Liturgica non ha abrogato il rito di Pio V significa, nello stesso tempo, alterare il rapporto con la tradizione degli ultimi 50 anni e introdurre nella storia della Chiesa una forma di “comprensione monumentale” che rischia la completa paralisi del presente quasi per “eccesso di passato”.
Per una tale operazione, occorreva un supporto teorico non da poco. Si intuiva, evidentemente, la fragilità della soluzione proposta. Si è così confezionata una teoria del rapporto tra rito romano e diversi usi che appare, nello stesso tempo, teoricamente assai azzardata e praticamente molto pericolosa. L’azzardo teorico consiste nel separare il rito romano dal suo concreto divenire, ipostatizzando fasi diverse della storia, rendendole tutte indifferentemente contemporanee. Sul piano pratico, questa soluzione di fatto supera ogni “certezza del rito”, introducendo un fattore di grande conflittualità all’interno delle singole comunità ecclesiali
La logica del documento – direi quasi la sua grammatica – tende a smentire il suo contenuto. Infatti, se è vero che sul piano del contenuto viene ribadito il primato del rito ordinario (di Paolo VI) rispetto al rito extraordinario (di Pio V), il documento è scritto nelle categorie di Pio V e non in quelle di Paolo VI: utilizza infatti una distinzione tra “messa senza popolo” e “messa con il popolo” che nessun documento usa più dal 1969.
Infine, la attenzione esclusiva agli “abusi liturgici” successivi alla Riforma Liturgica crea una sorta di grande amnesia circa il fatto più grave: ossia la perdita dell’”uso liturgico” da parte della tradizione post-tridentina. Così fa prevalere la lotta agli abusi, a costo di dimenticare l’uso, mentre la Riforma liturgica aveva giocato tutto sul recupero dell’uso, anche a rischio di qualche abuso.
Un bilancio del documento si potrà fare solo tra qualche mese. E’ tuttavia evidente che il suo impianto teorico appare fragile e ricco di equivoci. Potrà essere facilmente frainteso, quasi come fosse una sorta di “rivincita contro il Concilio”. Sarà la prassi ecclesiale a dover ritrovare le ragioni della Riforma nella “partecipazione attiva”, tenendosi così lontana da ogni forma rituale che prevede la presenza dei cristiani solo come “muti spettatori”. Dire queste cose è una possibilità per tutti i cristiani, ma è un compito per quei bambini che nella chiesa si chiamano “teologi”. Essi sono “obbligati” a dire la verità, senza tutte le mediazioni che vincolano altri ministeri a logiche necessariamente più complesse. Di questi bambini-teologi ha bisogno la Chiesa, per coltivare una esperienza di comunione diversa da quella delle caserme o delle società per azioni, dove la critica al superiore (o al capo) è subito intesa come sgarro imperdonabile. Finché la Chiesa resterà diversa da queste organizzazioni, la voce dei bambini sarà salutare, anche se non definitiva. Chi mai potrà avere interesse a farli tacere? O forse si penserà ai bambini soltanto per costuire una immensa “Jurassik Park” rituale, dove tutti – trattati come bambini – potranno “sentirsi a casa” al prezzo di perdere ogni senso della storia e della realtà?
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