Il riapparire del papa: la cura, la casa e l’ufficio


Vedere il papa tornare a casa rallegra il cuore. Il fatto, tuttavia, è stato accompagnato da parole ufficiali che non sembrano pienamente in accordo con la realtà. Per questo una riflessione pacata su ciò che ora potrà accadere pare plausibile, se non urgente.
La cura e il lavoro
I comunicati assicurano sul fatto che il papa ora potrà lavorare. L’uomo che abbiamo visto domenica affacciarsi al balcone del Gemelli può essere curato, assistito e accompagnato, ma certo non può lavorare. La insistenza dei messaggi sul suo lavoro è singolarmente dissonante con la realtà. La questione che si pone suona come una domanda urgente: lavora lui o lavorano altri per lui? Qui occorre una lucidità non retorica, per il bene del papa e del papato. Vi è, nella comunicazione di questi giorni, una sorta di sequestro delle condizioni personali sul piano dell’esercizio dell’ufficio. Se, come dicono molte delle parole pronunciate dai suoi collaboratori, deve reimparare a parlare, a causa dell’affaticamento prodotto dalla lunga sofferenza respiratoria, in un caso tanto grave la cura e il lavoro non sono affatto sovrapponibili. Nessun malato, che sia stato tanto grave, può essere oggetto di commento esclusivamente rispetto al suo lavoro. Qui, a me pare, il registro “di ufficio” e il registro “di cura” non riescono a sintonizzarsi e sfigurano la realtà. Potremmo dire che la “riserva maschile” riesce solo parlare di lavoro: giustifica l’uomo che esce dall’ospedale come un Giuseppe lavoratore, non come sognatore o come uomo giusto. D’altra parte non sarebbe avventata la domanda: ma se per curarsi non deve lavorare, come potrebbe astenersi dall’esercizio del suo ufficio? Non si deve dire? Si deve fingere una salute che non c’è per assicurare un lavoro che non può essere sospeso?
Tornare a casa non è tornare in ufficio
Il papa torna a casa. Benissimo. Si può anche festeggiare per questo. Ma non si dovrebbe dimenticare che per papa Francesco la parola “casa” vuol dire  Santa Marta, non Palazzo Apostolico. Questa differenza sembra assente nei commenti ufficiali. La ufficialità tende a dimenticare che è stata una scelta qualificante, per papa Francesco, distinguere la sua residenza dal suo Ufficio. Tornare a casa non significa, perciò, tornare al lavoro. Proprio il fatto che Francesco abbia voluto “una stanza tutta per sé” dovrebbe permettere di discernere, accuratamente, la uscita dall’ospedale dal ritorno al lavoro. Proprio questa “intercapedine”, che Francesco ha voluto fissare subito, fin dal primo giorno dopo la sua elezione, prendendo dimora a S. Marta, permette di identificare meglio le prospettive di riflessione futura, che non sono affatto lineari.
La memoria e il presente
Nelle dichiarazioni ufficiali, riprese a diversi livelli della gerarchia, sembra essere stata accuratamente cancellata ogni memoria degli ultimi 25 anni. La fine del pontificato di Giovanni Paolo II ha vissuto  momenti talmente gravi, nel gestire istituzionalmente una condizione fragile della salute del papa, che il suo successore, Benedetto XVI, ha rassegnato le dimissioni per non entrare nel tunnel di un pontificato con un pontefice troppo debole sul piano fisico, con estrema difficoltà ad esercitare in toto la propria autorità. Per quanto si tratta di due casi diversi, e risolti in modo opposto, questa memoria ecclesiale non si può cancellare e non deve essere mistificata con dichiarazioni troppo facili, troppo semplici, troppo idealizzate. La gioia per la uscita dal ricovero ospedaliero non può nascondere la complessità della situazione che si è venuta a creare. La lucidità con cui papa Francesco assumerà in pieno la condizione di salute successiva alla grave polmonite bilaterale, con i margini di recupero possibili ad un uomo di 88 anni, potrà permettere di contemperare pienamente i doveri dell’Ufficio e la cura della persona. Diceva Freud, l’uomo maturo sa amare e lavorare: ma ci sono casi limite in cui non è più possibile unire lavoro e amore. Prenderne atto sarebbe forse l’atto di maggiore lucidità possibile, se e quando un tale caso dovesse rendersi evidente ed imporsi sia sulle decisioni personali, sia sulle logiche istituzionali, per evitare di entrare in un regime di pericolose mistificazioni.
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