Il rito in “Desiderio Desideravi”: alcune questioni


Messale_Romano

Mi ha molto colpito, fin dal primo giorno, la facilità con cui il testo di Desiderio desideravi veniva risucchiato dalla forza del pregiudizio. Siccome parla di liturgia, e tutti pensiamo di sapere già prima che cosa è importante in liturgia, ecco che un giornale come Avvenire, che certo non può essere considerato “distante” dal tema, cade nella trappola è mette, come titolo davvero paradossale: “Il papa: ‘la liturgia non sia solo rito, ma evangelizzazione'”. Il fatto davvero clamoroso è che, con un titolo simile, quasi tutto il valore del testo risulta irrimediabilmente compromesso. Perché se vi è un merito di DD è proprio quello di aver cercato, con uno slancio paragonabile soltanto ai testi conciliari, di rilanciare in modo nuovo e convincente la “unità” di rito e di evangelizzazione, ossia il valore fontale della forma liturgica rispetto al “contenuto di fede”.

Ma se un titolo è indicativo di una “comprensione media”, è evidente che proprio il cuore del testo, che insiste sulla “formazione liturgica”, trova in questo esempio un punto dolente. Siccome riduciamo il “rito” ad una “cosa esteriore”, possiamo pensare che la vera essenza della liturgia non sia rituale. Ed è proprio questo l’errore che il testo cerca di evitare e di correggere.

Per capire dove sta il problema, può essere utile un duplice riconoscimento. Anzitutto la frase “virgolettata” da Avvenire nel testo non c’è. E si sa che usare virgolettati congetturali è molto pericoloso. Piuttosto il testo utilizza altri termini. Dice che la liturgia non è solo “rubriche”, ma evento di salvezza. Confondere il rito con le rubriche è una tendenza che viene da lontano e che caratterizza la nostra storia latina. Un punto particolarmente evidente sta all’inizio del Messale Tridentino, dove si trova il “ritus servandus”, che è appunto la riduzione del rito alla osservanza di numerosissime rubriche da parte del prete. Questo è l’orizzonte del titolo di Avvenire: un rito ridotto a “ritus servandus”, che quindi non può mai bastare, anzi minaccia il senso della liturgia. La riduzione della liturgia a “ritus servandus” è proprio la tentazione di tutti i tradizionalismi liturgici. Così, senza averne coscienza, Avvenire ha attribuito al papa intenzioni preconciliari.

Che cosa dice, invece, Francesco? Dice che occorre scoprire come il rito non sia anzitutto una “rubrica da osservare”, ma una “azione comune, di Cristo e della Chiesa, da celebrare”. Questa è la differenza fondamentale che il testo argomenta diffusamente e riccamente. Qui il termine rito non indica più una “cerimonia esterna” che spetta al sacerdote, ma un “linguaggio comune” a tutta la assemblea e al suo Signore. Per questo il passaggio dal “ritus servandus” al “ritus celebrandus” impone due svolte necessarie. Che ci sia un solo rito comune a tutti, e che questo rito sia fonte di formazione comune per tutti i soggetti ecclesiali, dal papa al singolo battezzato. Tutti ugualmente legati alla azione comune, che tutti celebrano, solo uno presiede e che prevede una articolazione differenziata di ministeri. In questo orizzonte, ogni contrapposizione tra rito ed evangelizzazione diventa nostalgia e incomprensione e perciò deve essere evitata, soprattutto nei titoli.

 

 

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