Il silenzio dei teologi. Custodia della comunione e paura omertosa.


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(nella foto: S. Dianich, Tullio Citrini e Luigi Sartori)

E’ del tutto naturale, e direi necessario, che vi siano passaggi ecclesiali nei quali i teologi, che esercitano nella Chiesa una funzione che non è sbagliato definire “magisteriale” (il magistero della cattedra, diverso dal magistero pastorale, secondo le parole di S. Tommaso d’Aquino), debbano usare della loro competenza con la virtù della prudenza, oltre che secondo giustizia e secondo fortezza e secondo temperanza. E la prudenza, come è giusto, può chiedere anche il silenzio. Il silenzio dei teologi, perciò, può essere l’esercizio di una giusta prudenza. Ma la virtù della prudenza non contempla solo il silenzio. Per essere prudenti, e giusti, e forti e temperanti, ci sono casi in cui il silenzio non solo può, ma deve essere rotto, per lasciare lo spazio dovuto ad una parola di verità, chiara e limpida, senza giri di parole. Ho invece la impressione che larga parte della teologia cattolica, non solo italiana, si sia rassegnata ad una facile identificazione tra prudenza e silenzio. Siccome la prudenza non può mai mancare, per lo più si è inclini a tacere. Ma io mi chiedo: chi dovrebbe parlare, in mezzo a queste lunghe e complesse diatribe intorno al “magistero dinamico” recuperato provvidenzialmente da papa Francesco e dai Sinodi che abbiamo celebrato in questi anni, se non i teologi? Perché mai, invece, molti bravi teologi tacciono? Provo a rispondere, prendendo la cosa alla lontana.

Breve storia del silenzio teologico recente

Un effetto impensato del Concilio Vaticano II, che sembrerà paradossale a qualche lettore, è stato proprio una più larga possibilità di silenzio da parte dei teologi. Perché? Perché da quando il magistero pastorale – quello conciliare e quello papale successivo – ha compiuto la sua svolta e da “magistero negativo” (magistero di dogmi e di canoni di condanna) è diventato “magistero positivo”, ci si è illusi, o convinti, che la funzione della teologia fosse semplicemente “di commento” al magistero pastorale. Questa evoluzione ha di fatto eroso lo spazio di libertà rispettosa, nel quale da sempre la teologia ha svolto la sua funzione di critica e di apertura. Per usare le parole forti con cui papa Francesco ha parlato agli Scrittori della Civiltà cattolica nel 2015, abbiamo bisogno, anche oggi, di una teologia obbligata alla “inquietudine”, alla “incompletezza” e alla “immaginazione”. Se la teologia preferisce la “quiete”, la “completezza” e la “definitività”, può solo limitarsi a pensare e a insegnare nell’ambito circoscritto della “realtà magisteriale”, senza audacia, senza critica e senza fantasia. Questo fenomeno distorto fa sì che, di fronte al magistero pastorale, la teologia accademica maturi nello stesso un senso di inferiorità e un compito di afasia. Per non essere “magistero parallelo”, rinuncia alla propria funzione. Qui si apre un problema che non riguarda la teologia in quanto tale, ma la Chiesa, mettendo in crisi l’equilibrio del suo pensiero e della sua azione. Senza l’ufficio svolto dai teologi, con la loro autonomia, gli “uffici pastorali” vanno fuori giri e si perdono. La teologia non può mai procedere solo “ex authoritate”. Se lo fa, danneggia la Chiesa.

I casi recenti: il silenzio ostinato di fronte alla negazione del Concilio Vaticano II 

Quando si impara a tacere, e ci si convince che non vi sia alternativa, si confonde il proprio ministero con la sua caricatura burocratica. E si giustifica come “custodia della comunione” una vera e propria inadempienza, che può essere dovuta a paura o, peggio, ad omertà.  Vorrei fare alcuni facili esempi. Se un documento papale, come è stato “Summorum pontificum” (2007) giustifica la liberalizzazione del rito pre-conciliare dicendo che “la Riforma liturgica non viene contestata”, i teologi non hanno il dovere di ripetere una giustificazione che non sta in piedi. E neppure debbono arrampicarsi sugli specchi per giustificare ciò che non può essere giustificato. Debbono piuttosto, onestamente, segnalare il loro dissenso e il pericolo che è intrinseco ad una giustificazione fasulla. Debbono farlo con tutto il rispetto per le autorità, ma anche con tutto il rispetto per la verità, su cui sono abituati ad argomentare con cura.

Se poi un altro documento papale di dieci anni dopo, come è stato “Magnum principium” (2017), modifica formalmente i criteri di traduzione dei testi liturgici, e il Prefetto della Congregazione, ostinatamente, ne propone una interpretazione palesemente contraddittoria con il testo stesso, i teologi non devono attendere che il papa corregga con una sua lettera le parole del Prefetto, ma debbono, secondo scienza e coscienza, segnalare subito l’abuso ermeneutico e l’ostacolo al cammino ecclesiale. Così chiede la struttura stessa della vita ecclesiale.

Il libro sul celibato e la afasia dei teologi

L’ultimo caso è certamente il più preoccupante. Se un prefetto di Congregazione e il Vescovo emerito di Roma scrivono in coppia un testo sul “celibato”, dal quale emerge una teologia del sacerdozio e della chiesa in parte unilaterale, e in parte delirante, i teologi hanno il dovere di reagire, in questo caso con tutta la libertà dovuta, non essendo il libro né un atto magisteriale né la espressione di una posizione ufficiale. Eppure, anche in questo caso, il silenzio prevale in modo tanto più incomprensibile. Eppure il testo offre una ricostruzione talmente lacunosa, unilaterale e parziale della tradizione, che la normale diligenza del teologo dovrebbe non solo avvertirla, ma segnalarla e chiederne la integrazione e la precisazione. Invece sembra che la gara sia solo quella di chi o sottovaluta la questione, oppure gioca solo a “scovare continuità nascoste” sotto evidenti e dirompenti discontinuità.

Il magistero dei pastori e il magistero dei teologi

Vorrei pertanto concludere con un auspicio. Credo che almeno una parte delle tensioni “tra i due papi”, che sono in parte forzature comunicative, in parte reali differenze di prospettive, esigano di integrare il modo di interpretarli. Tra i due papi, o meglio, tra l’unico papa e il suo predecessore emerito, che lo si voglia o no, vi è un “corpo dottrinale”, una sintesi dottrinale e una autorevole fonte di identità, che ha preso la forma dei testi del Concilio Vaticano II e dei Sinodi ad esso successivi. Per dirimere le questioni che sorgono all’interno della vita della Chiesa, e per trovare un punto di equilibrio prudente, giusto, forte e temperante, i teologi aiutano a proporre ermeneutiche ragionevoli di quei testi. E nel momento in cui una istanza ecclesiale, in modo più o meno giustificato, pone in tensione elementi di quelle sintesi, dovrà fare i conti con la forza di quella sintesi, che ai teologi è dato di custodire e di promuovere. Custodire la comunione significa, perciò, dare parola a quella sintesi che orienta. Anche quando è un “superiore” a parlare. Su questo non si può mai confondere comunione con la omertà. Come ha detto E. Juengel, in una bella formula sintetica: “Il teologo deve fare due cose: offrire chiarimenti e salvare i fenomeni”. Questo riguarda anche il teologo cattolico. Che talora potrà anche tacere. Ma più spesso potrà e dovrà parlare. Con tutta la pazienza e con tutta la audacia di cui è capace. Se non lo fa lui, chi dovrebbe farlo?

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