Il Sinodo come “cantiere” per un nuovo linguaggio
“Lavori in corso”: il Sinodo come cantiere per un nuovo linguaggio sulla famiglia
Anche davanti al cantiere della teologia del matrimonio si legge da molti decenni il cartello: “lavori in corso”. In questi due anni di “lavoro ecclesiale” intorno al matrimonio e alla famiglia, un dato mi sembra sia emerso con sempre maggior forza dal confronto e dal dibattito pastorale: la “sfida” che la famiglia lancia alla Chiesa e alla sua teologia richiede una comprensione rinnovata del matrimonio in quanto tale, per poter affrontare all’interno di questa nuova comprensione tutte quelle “irregolarità” che affaticano la pastorale ordinaria delle comunità.
Senza una ricomprensione complessiva della fisiologia matrimoniale, non si riuscirà a dare risposta convincente a tutte le problematiche più scabrose della patologia matrimoniale.
Per questo è importante che la lettura del matrimonio e della famiglia, che scaturirà dal testo finale del Sinodo, imposti, prima che singole soluzioni per i problemi più scottanti – cosa che pure dovrà esserci – una lettura di ampio respiro, di grande lungimiranza e di profonda fedeltà all’insieme della “dottrina cristiana” sul matrimonio.
A questo fine dovranno essere considerati con grande attenzione quegli “otto principi” nei quali p. Antonio Spadaro ha voluto sintetizzare l’inizio dei lavori sinodali. Vorrei riprenderli e commentarli, uno per uno:
1) Basta con una visione pessimistica della realtà e della sessualità.
Se lasciamo che l’approccio a matrimonio e famiglia sia orientato da questo “visione pessimistica” – che pure resta interna alla nostra tradizione cristiana – tutto il discorso risulterà semplicemente “reattivo” e minerà alle basi la possibilità di annunciare il Vangelo nella prospettiva della vita di coppia, di amore, di generazione, di ascolto e di relazione. La “non autosufficienza” che domanda “vita di comunione” è una esperienza talmente radicale, che non ha alcun bisogno di essere basata sulla contestazione radicale della società “autosufficiente”, “libera” e “individualista”. Dietro a questa opzione c’è, molto spesso, un rapporto irrisolto con il mondo tardo-moderno e con le sue obiettive conquiste, che non si vogliono riconoscere: si lega il Vangelo a una “società chiusa” e non si accetta la logica diversa della “società aperta”.
2) Usare un linguaggio comprensibile e che favorisca il dialogo con i nostri contemporanei.
Quando si usa un linguaggio “immediato”, si ottiene non solo una maggiore comprensibilità, ma si esce anche dai “luoghi comuni” del linguaggio ecclesiale, che distorcono l’esperienza e che impongono alla realtà una “forma” che risulta, non di rado, invivibile. Per dire la stessa cosa si può usare l’esempio del “negozietto di quartiere/centro commerciale” (come ha fatto papa Francesco a Philadelphia, presso il Seminario S. Carlo), oppure chiamare in campo (a sproposito) un “principio morale” che pretende di riconoscere un “bene” solo quando è “massimo”. La autoreferenzialità ecclesiale è spesso mediata da un linguaggio incapace di fare esperienza complessa del reale. Parlare e fare esperienza si rispecchiano: le mie parole “dicono” ciò che vedo e ciò che non vedo.
3) Non limitarsi al linguaggio normativo ma usare quello positivo e aperto del Concilio #Synod15.
Una delle conseguenze del limite 2) è il prevalere di una tendenza, storicamente giustificata, a ridurre il discorso ecclesiale ai suoi estremi. O sul livello di una “normativa giuridica” che spesso è costretta a costruire “finzioni” a non finire, o sul livello di una “mistica nuziale” incapace di concepire le “mezze misure” e le “gradazioni”, che massimalizza e totalizza in modo estremamente pericoloso la esperienza del matrimonio. Ritrovare un linguaggio sapienziale, pacato, lungimirante e realistico per parlare della grandezza della “vita di comunione” è una grande sfida per la nostra generazione.
4) Imparare a leggere i segni dei tempi, cioè della grazia nel mondo contemporaneo.
Parallelamente al “linguaggio”, e coerentemente con esso, dobbiamo imparare a “vedere” e a “leggere” la presenza della “grazia nella città”. Usare linguaggi nuovi ci permette di “vedere” cose nuove: di scoprire quanta dedizione, quanta fedeltà, quanta forza si possa manifestare all’interno di quelle “forme di vita” che il linguaggio giuridico o una mistica nuziale – elaborate in tutt’altra epoca e società – tenderebbero per principio a non considerare o addirittura a condannare.
5) Valutare il proprio approccio pastorale alla luce dello stile di #PapaFrancesco.
La “presa di parola” di Francesco, a tutti i livelli (S. Marta, Udienza del mercoledì, celebrazioni domenicali, discorsi a comunità ecclesiali o civili) costituisce un esempio di “stile rinnovato”, nel quale “cose antiche e cose nuove” si fondono con una pertinenza e con una efficacia davvero rare. Per “dire tutta la verità” bisogna inventare nuove parole.
6) Non parlare più della famiglia in termini astratti o idealizzati.
Al contrario, non vi è nulla di più facile, e di più sbagliato, che illudersi di poter comprendere le “cose nuove” che vivono oggi giovani e anziani, che ricondurle alle categorie giuridiche o dogmatiche, elaborate al servizio di altre forme di vita e di altri modelli di società. La grande tradizione sapeva bene che il matrimonio è una sintesi di “tre generazioni”: siamo generati alla natura, alla città e alla Chiesa. Il mutamento della natura e della città richiede, strutturalmente, una precisazione e un approfondimento della generazione alla Chiesa. Idealizzare o astrarre possono essere “punti di passaggio”, ma mai “punti di arrivo”.
7) La natura dell’Instrumentum Laboris è di essere un documento “martire” fatto per essere rivisto.
Questo è inevitabile. Tanto più che l’Istrumentum Laboris, in più di un caso, sembra voler anzitutto confermare quella “disciplina” che oggi causa tanti imbarazzi e difficoltà. Per questo dovrà essere accuratamente riformulato in molte sue parti, oltre che ampliato e precisato.
8) Occorre discernere attentamente il bene e il male anche nelle posizioni più lontane dalle nostre.
Infine, tutto questo “lavoro” del cantiere sinodale dovrebbe renderci capaci, a tutti i livelli, di “vedere il bene che viene”, proprio nel nostro tempo. L’arte della “vigilanza” dovrebbe essere accuratamente custodita da Vescovi pastori, che non dimenticano come il “vigilare cristiano” non sia anzitutto uno “stare in guardia” e un “diffidare”, ma un “tendere” e un “attendere”. Il sopraggiungere del bene è sorprendente e spiazzante. Come tante volte ha ripetuto papa Francesco, da Roma, da Cuba e dagli USA: la famiglia può sorprendere la Chiesa e la Chiesa ha tanto da imparare da essa. La vigilanza sinodale ha il compito di dotare la Chiesa di un linguaggio e di una sensibilità capace di “riconoscere” il bene che viene, sotto quelle forme che facilmente potremmo confondere con il male. In questo atto di discernimento è in gioco la nostra capacità di riconoscere “Dio già presente nella città”.