Il Sinodo e la natura della dottrina. Alcuni chiarimenti formali intorno a “Querida Amazonia”


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Tra i temi che sono diventati oggetto di dibattito, immediatamente dopo le ore 13 del 12 febbraio, con la presentazione della Esortazione Querida Amazonia, mi sembra che meriti attenzione la riflessione, spesso esasperata, sul “valore magisteriale” di QA in rapporto al documento finale (=DF) del Sinodo. Se qualcuno ha parlato di ”enigma” (Prezzi) è perché vi sono in atto elementi di “trasformazione” dell’esercizio stesso del magistero che mettono in imbarazzo i commentatori.

A ciò va aggiunto che, proprio sul versante ufficiale del Vaticano, durante la conferenza stampa, è venuta una “versione ufficiale” del rapporto tra i due testi – uno è magisteriale, l’altro no – che desta grande sorpresa, perché non rispetta la complessità dell’oggetto di cui si stava parlando. Per questo motivo credo sia utile fissare alcune delimitazioni al “libero dibattito” che, come sempre, può e deve seguire la approvazione di un documento ufficiale. Aggiungo, ancora in premessa, che in questa delimitazione non è fuori luogo che alcuni teologi (Faggioli, Cosentino, Albarello) abbiano preso la parola in modo anche dialettico, ma recando sicuramente un contributo prezioso, che può aiutare i giornalisti ad esercitare la loro funzione informativa in modo più adeguato. Come dunque possiamo “delimitare” il campo della discussione, in modo ragionevole? Definiamo due punti ciechi.

1. La pretesa di una assoluta differenza qualitativa tra QA e DF

La prima posizione, che in questo caso non può essere sostenuta, neppure se si riveste un ruolo ufficiale, è che l’unico elemento magisteriale da considerare sia QA, mentre DF sarebbe soltanto un documento “interno” all’iter di preparazione di QA. Questa posizione tradisce una debolezza abbastanza sorprendente. Perché sembra non aver letto il testo di QA nei suoi primi numeri. Come si fa sostenere che QA abbia “sostituito” DF, se QA dice, esplicitamente, di non volerlo sostituire? Come è stato messo bene in luce, soprattutto da Prezzi e da Faggioli, ma anche da Mons. Fernandez e dagli stessi Card. Czerny e Hummes, la novità consiste proprio nel fatto che QA decide, esplicitamente ed apertamente, di non sostituire DF. Dunque rimanda a DF per tutte le questioni di cui non si occupa direttamente. Ovviamente qui il rimando a DF è un rimando “condizionato”, dato che DF non è documento operativo, ma propositivo. Perciò, come si è già osservato, DF non può decidere perché rimanda la decisione a QA, ma QA si astiene dal decidere e rimanda ai contenuti di DF. Per un Sinodo, in cui obiettivo è assumere decisioni, sembra un po’ poco.

2. La confusione tra i due testi

La seconda posizione, anch’essa forzata, vorrebbe trascurare la differenza tra QA e DF e rilanciare immediatamente, come se fossero testi della Esortazione, i testi di DF. Questa via opposta tende ad affermare, a tutti i costi, un “concordismo” e una “continuità” tra i due documenti che invece pare problematica e che comunque esige una delicata mediazione. Forse la variabile decisiva, in questo caso, non è tanto quella del tempo – in futuro sivedrà – ma quella dello spazio – altrove rispetto a Roma. La distanza da Roma permette di vedere molta più sintesi di quanto non possa essere colta, immediatamente, collocandosi alle fondamenta del cupolone. Perciò bisogna distinguere bene tra chi solo per opportunismo cerca di “mescolare le carte” e mettere tutto in fila, senza salti, e chi, invece, per diversa esperienza ecclesiale e per diversa urgenza pastorale, sa che il risultato del cammino sinodale è comunque molto più grande che singoli punti di evoluzione disciplinare.

3. La interpretazione dei testi e la resistenza dei testi

In ultima analisi, mi parrebbe utile delimitare il campo dell’ampio dibattito, considerando queste due posizioni-limite come forme “ideologiche” di lettura dei testi.

Da un lato posso capire che vi sia l’interesse a “fare chiarezza” e che, per evitare la confusione, si propongano soluzione drastiche, come quelle che ho indicato. Ma queste risoluzioni, che certo mirano alla prudenza, sono in realtà gravemente imprudenti, perché aumentano anziché diminuire il conflitto. Le “interpretazioni autentiche”, infatti, devono rispettare il testo che interpretano. Non possono fargli dire quello che non dice. Chiarire il testo non significa non fagli dire quello che dice o fargli dire quello che non dice. Per questo, io credo, sarebbe utile che al comunicatore fosse sempre affiancato anche un “esperto” del contenuto. In questo caso un canonista e un teologo possono chiarire meglio le relazioni tra i testi ed evitare illusioni concordiste o opposizioni irriducibili. Comunque, una volta pubblicato, il testo esige sempre letture competenti. Il testo resiste a chi voglia costringerlo a dire quello che non dice. Il testo dice ostinatamente ciò che si vorrebbe non dicesse. Per questo il suo chiarimento non si riduce mai soltanto all’esercizio della autorità, ma chiede anche un “sapere sui segni e sui sogni” e una “coscienza dei lampi e degli enigmi”. Da questo punto di vista, per tutti coloro che comunicano nel campo delicato della “dottrina cristiana”, dovrebbe sempre valere il duplice principio: bisogna offrire chiarimenti e insieme salvare i fenomeni. Anche per comprendere la “natura della dottrina sinodale” questi due principi devono essere rispettati, anche se non è cosa facile. Se manca uno dei due – cioè se i chiarimenti si mangiano i fenomeni, o se i fenomeni non permettono più chiarimenti – la confusione è destinata solo ad aumentare.

 

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